A poco a poco, la consapevolezza di aver commesso un
omicidio, sebbene non premeditato, si fa strada nella mente di Alex. E questa
subitanea, violenta presa di coscienza lo strappa bruscamente dall’apatia in
cui annega la sua quotidianità di annoiato adolescente. Van Sant compone una
ricostruzione frammentaria dell’accaduto, accompagnandola con la voce off del
protagonista intento a ripercorrere i propri passi in una lunga lettera che
assume i tratti di una confessione scritta, attraverso la quale, lentamente,
anche lo spettatore acquisisce la cognizione degli eventi. Le scene si
ripetono, uguali o leggermente distinte nelle inquadrature, come se un fatto o
un dialogo, di per sé insignificanti, assumessero un differente valore,
risuonassero diversamente nella testa di Alex e agli occhi di chi lo guarda
nella semplice variazione del punto di vista. La narrazione non è cronologica
ma mnemonica, un diario privato penetrato dalla macchina da presa che,
fedelmente, segue un percorso introspettivo intermittente, l’epifania di una
coscienza imberbe, flebile quanto afona. Mentre si manifesta quest’ombra di
consapevolezza, fa una pallida apparizione il riverbero di una vita
organizzata, sociale e politica, prima del tutto estranea, germoglia
un’apertura al mondo il cui costo è la vita di un uomo. Van Sant rifugge da un
evidente giudizio morale, non delinea il percorso di un’espiazione dolorosa e
affranta, non disegna le tappe di una via crucis interiore, l’apprendimento del
dolore o l’evidenza ineluttabile e insostenibile della colpa. Solo un
risveglio, minimo e deprecabile, di responsabilità, presto scacciato dalla
possibilità di farla franca.
Anche con Paranoid Park
prosegue il tentativo del regista di inserire una finzione nelle pieghe della
realtà, di costruire una narrazione che si alimenta di corpi e inquadrature
sottratti alla vita. Come la macchina da presa irrompe in contesti veri, segue
corpi fisicamente concreti e inserisce riprese rubate per strada, la crudezza
del mondo esterno fa irruzione dentro l’ovattata esperienza adolescenziale
imponendole con evidenza un percorso inedito, che nel film si fa racconto. La
regia si attiene ad al principio di pedinamento tipico di Van Sant, dove la
cinepresa, indietreggiando, precede l’attore, puro corpo in movimento,
contenitore di pensieri vaghi e mutevoli, quasi illeggibili sui volti spesso
apatici e concretizzati solo nei gesti. Van Sant tenta di creare un flusso
coerente di immagini e musica, senza ricorrere alle parole usa la colonna sonora
per manifestare gli stati d’animo, cerca di carpire pensieri e movimenti
interiori privandosi della diretta efficacia del dialogo, guardando solo
l’esterno, all’apparenza significante di un corpo vivo.
Come brevemente sottolineato
nel film da una lezione di fisica, una massa immersa in un fluido subisce una
spinta proporzionale al suo peso; così la macchina da presa imprime una spinta
alla materia a disposizione, al corpo scelto, uno sprone narrativo il cui
effetto dinamico è intimamente dipendente dal contesto, dal fluido psicologico
e sociale in cui si trova immersa. Van Sant, da qualche film a questa parte,
sta definendo una sorta di “Neonaturalismo”, americano e adolescenziale, un
cinema oggettivo e behaviourista che si rispecchia in personaggi per i quali
tutto è esterno ed estraneo, inconsapevolmente dilaniati da un feroce vuoto
interiore che non sanno addomesticare. La cinepresa li segue, quasi altrettanto
apatica, limitandosi a guardarli e ad fissarne i movimenti sulla pellicola,
spesso con un ralenti li esilia dall’ambiente in angosciosa solitudine, mentre
la sceneggiatura ne coordina narrativamente i gesti in una struttura portante
da assicurare alla realtà, scruta la soggettività inventata di un personaggio
ancorandolo al corpo fisico del suo interprete in completa simbiosi. Nel
regista di Portland, la manifesta volontà scopofila diventa poetica narrativa,
lo sguardo dell’autore perde ogni valenza di espressione personale per poter
sondare un territorio in vasta parte inesplorabile, per farsi portavoce di uno
sfuggente universo interiore, terribile e affascinante.
Seguendo il principio di
Archimede, anche la coscienza di Alex di manifesta in reazione alle proprie
colpe, sebbene solo per assolversi in una pusillanime autoanalisi. La ricerca
della propria verità rappresenta l’inizio di una presenza di sé e di un
rapporto quantomeno dinamico col mondo esterno, lo distoglie da un indifferente
torpore con cui trascina senza entusiasmo l’esistenza. Ma quella ipotesi di
confessione, che stila con inedito impegno come un importante compito a casa, è
infine soltanto la cronachistica successione degli eventi, e viene bruciata una
volta svolto il suo mero compito di catarsi. La piena consapevolezza non si è
tramutata in coscienza, quegli occhi sgranati dalla sorpresa e dall’orrore si
sono aperti solo brevemente, e possono infine richiudersi nella consueta
sonnolenza di una mattina a scuola, come se niente fosse davvero successo.
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