Goldrake
contro Godzilla, megasauri extraterrestri combattono contro robottoni
antropomorfi guidati da umani posizionati nel cranio, come nei vecchi cartoni
giapponesi degli Anni 80 che hanno inaugurato l’invasione delle anime
nipponiche sul teleschermo e nell’immaginario europeo.
Ben
più serio del Michael Bay dei diversi Transformers,
giocattoloni superficiali analoghi solo per dimensioni e aspetto meccanico, Del
Toro pone un freno al proprio estro fantastico per concentrarsi sulla
narrazione, adeguarsi alle psicologie del fulcro umano dei giganti di metallo, quei
piloti che li abitano e agitano, muoiono al loro interno mentre i governi
cercano qualsiasi desiderata soluzione per arginare l’anomala invasione aliena.
Provenienti dal mondo sotterraneo come i tripodi della Guerra dei mondi di Spielberg (ma da una falda interdimensionale),
gli extraterrestri mirano a conquistare il pianeta dopo averlo assaggiato ere
prima, ai tempi dei dinosauri, quando era ancora inadatto al trasloco. L’abuso
umano l’ha pero reso nei secoli perfettamente compatibile con le loro forme di
vita e poco sembra possibile fare per arginare lo strapotere dei sauri
corazzati.
Largamente
influenzato da Godzilla per le dimensioni e la natura dei mostri, per la
potenza della fissione atomica che muove gli Jeager, gli Über-Mensch robotici, e
la traccia di elementi giapponesi sin dal nome stesso attribuito agli invasori (Kaiju)
e la presenza di una pilota del Sol levante, Pacific Rim mette in scena una società in crisi, economica quanto
militare, assediata da forme di vita ignote che ne devastano le città mietendo
vittime e provocando distruzione. Metafora delle moderne condizioni
dell’Occidente, Pacific Rim insinua
la necessità di alleanze sovranazionali che rinuncino ai profitti per un bene
comune, facilmente e visibilmente identificato nella stessa sopravvivenza della
razza umana, graficamente rappresentato dall’aspetto post-bellico del passaggio
degli “Über-Tier” nelle città. Tra soldati semplici e operai, le prime file
della difesa dell’umanità sono costituite dal sotto-proletariato, mentre i governanti
e i potenti rimangono dietro agli schermi televisivi da cui impartiscono ordini
e direttive, in un empireo prudentemente lontano dal campo di battaglia. L’estetica
steampunk di macchinari ideati da
scienziati reietti, ereditata dal proprio cinema, permette al regista di
concentrasi sulla materialità degli elementi, sulla creazione che nasce dalla
giustapposizione di apporti disparati ed estranei che sembrano funzionare quasi
per meravigliosa casualità, assemblati alla rinfusa come il gruppo di temerari
chiamato a difendere il pianeta.
Tra
echi visivi di Blade Runner (città
sempre orientali nel chiaroscuro di notti illuminate dal neon) e nessun rimando
ai Transformers, Pacific Rim propone una lotta per arma interposta tra due civiltà
nemiche, tra gli umani feriti e sporchi in città distrutte e società allo
sbando e alieni di cui vediamo uno sguardo fugace nel momento della
consapevolezza della sconfitta. I megasauri clonati e modificati per adattarsi
alle rappresaglie terrestri e le sovrastrutture meccaniche azionate da piloti
sofferenti sono esseri sacrificabili, eterodiretti per il miglior sacrificio
che possa portare alla vittoria collettiva finale, alla supremazia
sull’avversario. Esasperazioni di un’univoca volontà di vittoria, le macchine e
gli animali da battaglia sono carne da macello e da cannone, per quanto
evoluto, protesi e massa offensiva adibiti a spianare o a proteggere il terreno
secondo le regole del corpo al corpo. Perché nell’evoluzione tecnologica che
porta alla loro costruzione, sauri e robot sono solo estrapolazioni di una
ferina lotta per la vita vista secondo una scala sovrumana che rimanda alle
peggiori istanze aggressive dell’essere senziente. Pacific Rim è una versione anabolizzata di Real Steel in cui il ring è diventato la città e la dimensione
dello scontro abolisce l’immarcescibile denaro per sostituirlo col suo sinonimo
più metaforicamente elegante, la sopravvivenza.
Blockbuster polemico, Pacific
Rim sceglie la stereoscopia ma la contrae alle più modeste proporzioni di
uno schermo televisivo, quei 16:9 che si confondono con i servizi dei notiziari
che raccontano, in flash-back, le
successive ondate invasive dei sauri e le risposte umane, con il consueto
racconto in voice over di Del Toro
che introduce al presente narrativo. Come se anche il cinema, per quanto
artefatto dalla manipolazione digitale e spettacolare, si adeguasse al livello
quotidiano dei suoi protagonisti (e la macchina da presa è quasi sempre
all’altezza del terreno), valorosi perché spinti dalle circostanze e
sacrificabili per necessità, al loro dolore e sudore, alla sporcizia che
diventa sangue nell’arena dello scontro. Quello stesso scontro che si fa entertainment ma che non vuole
dimenticare la natura fragile dei suoi eroi.
|