C'è
sempre più pessimismo nel cinema di Spielberg. I suoi protagonisti non sono
eroi, non sono l'incarnazione di saldi valori in cui è facile identificarsi,
sono vittime di una situazione, di un sistema, di un contesto a cui si ribellano
con mezzi cangianti, a dispetto del quale cercano di sopravvivere, senza
affermare un'individualità eccezionale. Sullo sfondo di una guerra contro
alieni invincibili, dei cavilli burocratici di una società incattivita, della
Shoah o dello sbarco in Normandia, il protagonista di Spielberg cerca di
mantenere una vaga dimensione umana, sforzandosi di contrapporre all'assurdità
circostante le vacillanti ragioni della propria azione, finendo per ridursi
all'espressione di un'ossessione altrettanto patologica, a cui il film aderisce
senza alcun compiacimento.
Per il personaggio principale di Munich
l'attentato di settembre nero alla rappresentanza israeliana durante le
olimpiadi di Monaco è la motivazione principe della vendetta ordita da Israele
contro i palestinesi e di cui lui si rende l'esecutore materiale, questa
giustificazione teorica, che si traduce in una serie di omicidi mirati degli
organizzatori e ispiratori dell'azione terroristica. Attraverso l'efficacia
degli assassinii, nel progredire dell'abitudine all'omicidio il regista non
tesse le lodi di un paese oppresso, né tende la mano a chi ha il terrorismo
come difesa: palestinesi e israeliani, vittime o carnefici, sono pedine di un
più grande gioco, dell'equilibrio del terrore basato sulla violenza reciproca,
sull'affermazione delle proprie ragioni con il sangue altrui. Spielberg non
costruisce però un pamphlet ideologico. Emerge invece con chiarezza, in molti
dettagli di sceneggiatura e regia, una sostanziale identità tra le due fazioni,
una struttura binaria che sottende al film e che lo fa muoversi su un doppio
piano, attraverso rimandi costanti e l'uso frequente di un montaggio alternato:
all'elenco dei morti in Germania risponde la scelta delle persone da eliminare,
l'azione iniziale del commando palestinese rimanda al travestimento della
squadra di agenti del Mossad a metà pellicola, l'apertura sulla copertura
mediatica dell'attacco palestinese si riflette nell'inquadratura conclusiva
delllo skyline di New York con ancora le torri gemelle. Parallelismi e
antinomie costellano il film, con Eric Bana confuso tra amore e odio, dilaniato
tra la nascita della figlia e la messa a morte dei suoi bersagli.
Barcamenandosi tra agenti segreti infiltrati o
infidi mercenari, nel losco giro di soldi e vite umane, di interessi privati e
ideologie contrapposte, di ragioni di stato opportunistiche e spericolati
giochi di potere, il protagonista compie la sua missione, passando dalla
incrollabile certezza dell'azione al dubbio dell’inutilità dell’impresa, progressivamente
consapevole di essere un ingranaggio in una vana spirale di sangue, l'artefice
di una violenza inutile e dannosa, che solo un colpo di vento politico basta a
trasformare il sicario in bersaglio; il biblico "occhio per occhio" è
forse un messaggio sbagliato e inesorabile perché ogni terrorismo, per quanto
ideologicamente legittimato dalla propria fazione, provoca una reazione uguale
e contraria che lo vanifica, perché ogni persona assassinata viene rimpiazzata
da un'altra ancor più efferata, perché uccidere non è mai né facile né bello,
perché gli effetti collaterali della guerra sono sempre vittime innocenti.
Spielberg non assolve né condanna: guarda - come
sempre - con gli occhi del protagonista, fornendo dettagli quasi ossessivi di
ogni messa a morte. E rende partecipi di un'angoscia crescente che l'efferata
efficienza omicida non può celare, che le motivazioni non possono mascherare, e
che il silenzio finale su New York rende eloquente, con la sua promessa di
morte futura e le conseguenti rappresaglie sanguinarie per esportare opinabili
democrazie.
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