Woody
Allen continua il tour internazionale alla ricerca di nuovi fondi e set
per i suoi film. Niente però cambia nel suo cinema,
caratterizzato da una coerenza autoriale coercitiva che gli impedisce
di allontanarsi dalla matrice univoca della sua ispirazione. Allen non
solo tende a rifare sempre lo stesso film ma arriva anche a trasformare
ogni città visitata in una succursale di Manhattan, guardata con
gli stessi occhi alla ricerca del bello, dell’agiatezza
alto-borghese, della vacanza intellettualistica. Il suo sguardo, dalla
tenerezza carezzevole per lo sfondo noto, è passato alla
curiosità passiva del turista, attento a riprendere le maggiori
attrazioni circostanti per una riconoscibilità immediata del
paesaggio su cui si stagliano le medesime figure, con la tipica
necessità del viaggiatore che si fa fotografare sempre uguale
davanti ai variabili monumenti del paese che visita.
L’intelligenza dell’intrattenitore permette ad Allen di
condire di spezie locali trame polimorfe, adatte ad un trasferimento su
un qualsiasi fondale, perfette per ogni ambientazione. Avendo
Parigi disposizione e scegliendo un letterato frustrato come
protagonista, il regista si inventa un volo nei desideri con
conseguente favolistico viaggio nel tempo dei Surrealisti e delle
Avanguardie da parte del moderno autore alla ricerca di
un’ispirazione perduta e appassita dalla committenza
hollywoodiana. La noia del presente potenzia la magica fascinazione del
glorioso passato che permette allo stralunato Clive Owen di incontrare
i propri miti, trasformati in feticci citazionistici
dall’abilità di Allen nel giocare con gli esercizi di
stile, nell’imitare la prosa e le atmosfere d’antan
incarnate dall’incanto di Hemingway o della Stein, di Dalì
e di Buñuel, mostrando i migliori talenti del tempo ed evocando
gli altri.
L’oggi e la concreta fidanzata perdono così interesse per
il protagonista, già visibilmente distaccato ma vigliaccamente
restio alla piena consapevolezza, il quale si perde dietro ad una
amante seriale di artisti, a sua volta affascinata dagli altri tempi
della Belle Époque. E tutto si fa sfondo, cartolina animata su
motivi alleniani, con la Première Dame a fare, ironicamente, da
guida ai monumenti, l’Avanguardia a dare concretezza ad una
favoletta la cui morale, a scanso di equivoci, viene anche pienamente
espressa sul finale dal protagonista, ennesima variazione sul tema del
personaggio del regista. Owen ne riveste infatti i panni indossando
abiti dai toni beige, ne ripete i tic con il tipico leggero balbettio
dell’incertezza e la confusione apparente tra poli femminili
opposti, scegliendo sempre il più giovane e gioviale.
Artista fallito nella finzione, l’autore è invece un
ottimo venditore, capace di grande adattabilità manieristica,
verve verbale e capacità inventiva tali da sorprendere a
sufficienza per convincere di una apparente originalità che,
altrimenti, si potrebbe definire costanza. Perché tutto il film
si dimostra un grande esercizio di stile, brillante e armonico, sui
tipici ingredienti di Allen, con la psicologia sullo sfondo a rendere
credibile la realistica favola come temporanea e metaforica perdita di
sé, preludio ad un rassicurante ritorno all’ordine, al
necessario recupero della gestione armonica della propria esistenza.
Un’armonia che, pur nella diaspora produttiva lontano da
Hollywood, Woody Allen non ha mai perso e che sempre ripropone,
nascondendola dietro alla cortina fumogena di una narrazione costruita,
per le sue potenzialità comiche o drammatiche,
sull’imbarazzo e sullo spiazzamento.
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