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di antonio fabbri

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PSICOPATOLOGIA AMERICANA:

"CUORE SELVAGGIO" DI DAVID LYNCH.
(1992)

"Se volete sapere tutto [...], non avete che da guardare la superficie [...]. Eccomi. Nulla è nascosto."
Andy Warhol

IL CUORE.
Risibili profughi dell'infanzia, Sailor e Lula si muovono in un mondo assurdo e strano, in perpetuo violento contrasto con il loro indomito candore. Dettagli di vivido e crudo realismo circondano questi personaggini di cartapesta delineando un ambiente pregno di perversione e deformità fisica, di morte e decomposizione (la gravidanza è annunciata dal vomito, inquadrato più volte in primissimo piano e dal persistente sgradevole odore),  la cui violenza esprime, in forma chiara ed indubbia, l'incomprensibile orribile ed inutile crudeltà che li assedia: ne è sintomo l'incidente notturno nel deserto -una scena di forte realismo girata, macchina in spalla, con poche lunghe desolate inquadrature- di fronte al quale i due protagonisti sono costretti ad una sofferta impotenza (1). Si ripete in ogni film di Lynch questo dissidio tra il Bene ed il Male che si realizza nell'assurdo contrasto tra ingenui ridicoli personaggi e terrificanti esseri infernali. La crudeltà diffusa del mondo, profondamente sentita dal regista, è in Wild at Heart, coerentemente con gli altri ingredienti del film, in primo piano, non più nascosta dietro gli accettabili veli dell'onesta e laboriosa provincia americana (Blue Velvet o Twin Peaks), oppure resa credibile dalla divagazione fantastica (Dune): "l'idée-force du film était de montrer un histoire d'amour qui se déroule dans un univers sauvage et stupide" (2). Non vi è da parte di Lynch alcuna critica nei confronti dei suoi eroi, nessun intento moralistico o satirico, mai intellettualistico, perché ad essi lo lega una visione del mondo come terreno di una impari lotta tra Bene e Male i cui confini sono sempre ambiguamente incerti e variabili: il disvelamento del mostruoso recondito nel quotidiano avviene, qui come negli altri suoi film, attraverso la dilatazione di dettagli di assoluta normalità, ingranditi sino alla deformazione e alla completa perdita di ogni riconoscibile riferimento, fino a che non diventano autonome espressioni di orrore ed angoscia (3). Basterebbe a dimostrare la partecipazione del regista alle vicende dei suoi personaggi l'uso che egli fa del frammento di Strauss ("une chose sublime") il quale costella la colonna sonora di momenti di intenso lirismo e apre il film accompagnando i titoli di testa sullo sfondo di grandi affascinanti volute di fuoco: la patetica tragedia dei due protagonisti, appartenenti a quel cuore selvaggio ("there's a whole world wild at heart and we're on top") che batte in mezzo a tanto dolore -l'eccesso di retorica è necessario-, è già tutta in queste fiamme ed in quella musica. 


ARCHETIPI
Nella mente di Lula, il reale pericolo incombente, le atrocità che vive o vede e che continuamente la assediano si confondono con le immagini ingenue ed ovattate del Wizard of Oz: questo film è infatti per la ragazza un determinante archetipo culturale che le permette una completa personale rilettura della realtà. Poichè Lynch assume prevalentemente il punto di vista di Lula come guida (visiva) del racconto, il film di Fleming si sovrappone al suo, si impone sulla materia di questo plasmandola completamente, si propone quindi di fatto come un filtro attraverso cui tutto viene deformato, tradotto nei termini dell'altra pellicola (4). Lo sforzo di Lula di vedere il mondo in modo ancora ingenuo ed innocente, secondo l'ottica infantile e semplicistica desunta dall'altro film, è palesemente patetico, appare vano e ridicolo nella sua disperata ostinazione, incongruo come la precarietà dei trucchi ottici utilizzati per dargli vita (così visibilmente 'sporchi' ed imperfetti da essere difficilmente credibili per un pubblico abituato a ben altre prodezze tecnologiche) ma in fondo così vicini all'universo del Mago di Oz (5). Quella illusoria stucchevolezza funziona comunque nel proteggere il personaggio dalle insidie del mondo e salvaguardarne la persistente innocenza, tanto che anche il drammatico abuso subito da piccola ed il conseguente precoce aborto hanno lasciato in lei pochi segni, un vago turbamento che si manifesta in frammentari flash-back: Laura Dern è ancora, dopo Blue Velvet, l'interprete del candore, della fragilità infantile turbata dal dubbio del male.
Lula è Dorothy, la versione aggiornata della bambina del Mago di Oz di cui conserva inalterata l'ingenuità, il rifiuto di comprendere la cattiveria ed il dolore. Come il personaggio della Garland, anche lei è sbattuta a forza in un mondo orribile e minaccioso, del tutto diverso da quello che credeva e sognava; tutto ciò che la circonda è esageratamente aggressivo e repellente, feroce e violento, egregiamente rappresentato dall'orrido Bobby Perù, demoniaco "black angel" venuto ad infestare le vite dei protagonisti ed annunciarne la catastrofe. Questo inquietante personaggio frantuma definitivamente la beata illusione della ragazza, distrugge il suo universo di ingenue certezze rivelandole l'esistenza e il desiderio della perversione: la sequela interminabile dei "fuck me" che Bobby le impone violentano la ragazza con forza maggiore della vera violenza fisica già sofferta, smaschera l'incompiutezza dell'amore per Sailor e le dimostra che il male può attrarla. E' il momento più drammatico e terribile per il personaggio, la scena della sua definitiva perdita d'innocenza, dell'ineluttabile e traumatica consapevolezza del mondo la cui corruzione penetra in lei: un semplice gesto della mano sottolinea una sconvolgente somiglianza con la madre che la fa piangere e disperare, e a nulla più servono le magiche scarpette rosse di Dorothy (6). L'armonia, l'intesa così perduta con Sailor sarà ricomposta solo quando anch'egli, grazie alla strega buona (un'immagine mutuata dal Mago di Oz, come la speculare figura della strega cattiva) avrà accettato l'universo di Lula, avrà conquistato l'immaturità necessaria per capire che l'unica soluzione è la cieca ed ingenua fiducia nei propri sogni perché solo con la forza del loro rispettivo amore "dreams can come true", come le canta nel lieto finale.
Sailor dedica a Lula Love Me Tender, canzone preferita e per lui definitiva vincolante dichiarazione di amore eterno degna solo della donna che diventerà la sua sposa, perché il suo personale mito di riferimento è Elvis: egli ne canta le canzoni (interpretate da Nicolas Cage, per un'ancora maggiore identificazione) conformandosi al contenuto dei testi, assumendone la mentalità e gli atteggiamenti, adeguandosi cioè allo stereotipo del 'duro romantico' proposto dalle canzoni e dai vecchi film con il cantante del quale ripete l'andatura altalenante, il fraseggio drastico e retorico, la marginalità ribelle ma intimamente positiva, dove il giubbotto di cuoio è stato rimpiazzato (ancora una variante aggiornata) dalla giacca in pelle di serpente, simbolo della sua "individuality and belief in personal freedom". Se la ragazza si identifica con Dorothy,  pensa vede e giudica tutto secondo i moduli mutuati dal Mago di Oz, Sailor, allo stesso modo, prende alla lettera, parola per parola, le canzoni che canta, identificandosi anch'egli completamente con il suo mito. L'intesa fra i due è infatti perfetta solo nel momento in cui, grazie alla visione della strega buona, anche Sailor entra nell'archetipo di Lula e finalmente la capisce, corre subito da lei per cantarle il suo amore con le note e le parole di Elvis, confondendo così insieme i loro due universi in una completa comunione. Per tutto il film, infatti, pur amando Lula e sentendo che era 'fatta per lui', Sailor non era mai riuscito a capirla fino in fondo, ammaliato ma interdetto di fronte al misterioso funzionamento della testa della ragazza, alle sue stranezze. 


LA TELEVISIONE.
Nei due personaggi, i paralleli stereotipi circolano liberamente diventando strutture portanti del loro rapporto con il mondo esterno, strumenti indispensabili per leggere e capire la realtà che viene così riadattata a privati codici percettivi: una vera possibilità di comunicazione si crea infatti solo quando questi singoli universi chiusi ed autosufficienti si toccano. Di matrice originariamente cinematografica, le mitologie che dominano i due protagonisti sono di provenienza più direttamente televisiva, derivano da quei classici (più appropriato è forse in questo caso il generico termine di 'cult-movie') teletrasmessi, dati e perpetuamente ridati in tv, banalizzati dal riuso e dallo sfruttamento televisivo, generalizzati ed ormai talmente noti da diventare luoghi comuni, elementi fondamentali di una conoscenza del mondo e di una 'acculturazione' che non può assolutamente più fare a meno della fruizione televisiva, che anzi passa ormai obbligatoriamente per il piccolo schermo.    
Nei confronti del Mago di Oz non vi è infatti da parte di Lynch nessun vezzo citazionistico, l'uso dell'altro film essendo troppo grossolano ed invadente per rimanere negli eleganti canoni deputati alla citazione; non si tratta neanche di plagio perché l'appropriazione risulta evidente ed indubbia, mai ipocriticamente mascherata: è semplicemente il ricorso ad un referente diventato, appunto, archetipico, il regista prendendo possesso del film di Fleming nello stesso modo in cui il pubblico (e Lula) se ne è già appropriato, rendendolo anch'egli parte attiva ed integrante di una narrazione che rimane comunque personale: i temi, le caratteristiche peculiari dello stile del regista non vengono intaccati, sono anzi addirittura esaltati da quest'apporto, pertanto lecito, di stereotipi e stilemi preesistenti e a tutti noti.  Il ricorso da parte di Lynch all'universo televisivo non deriva solamente dall'importanza che questo ha per i personaggi ma proviene in fondo anche da uno scrupolo di chiarezza perchè la televisione è ormai un ben definito territorio di universale intesa con il pubblico (il 'luogo comune'), tappa necessaria alla comprensibilità del messaggio.  Il regista sovrappone allora la televisione al suo film come un filtro deformante che ne modifica e semplifica ogni aspetto, influenzandone la struttura, la costruzione, il rilievo dei personaggi, nello stesso modo -ma con estrema consapevolezza (estetica)- in  cui Lula vede il mondo con gli occhi di Dorothy. Al contrario dell'ordinario 'cinema in televisione', Cuore selvaggio offre un valido esempio di 'televisione al cinema'.
 

L'INFLUENZA TELEVISIVA.
Il silenzio sembra pressoché bandito dal film, la musica (o un'ambientazione acustica) accompagna ogni inquadratura. Il sottofondo musicale assume un'importanza notevole, un'invadenza di impronta televisiva essendogli spesso delegata la trasmissione  di tutta la drammaticità di una scena, perduta dalla controparte visiva (7). Il procedimento è variato a piacere dal regista che enfatizza spesso fuor di misura il valore aggiuntivo della musica (soprattutto in riferimento al personaggio della madre), di fatto neutralizzandolo per l'effetto grottesco che viene a crearsi, mettendo contemporaneamente a nudo i meccanismi stessi della drammatizzazione audiovisiva.
Lynch fa molto spesso uso di un montaggio in parallelo che non è in funzione della suspense ma ha il più semplice scopo di mostrare e raccordare due o più scene vagamente contemporanee, introducendole le une nelle altre e sconvolgendone le rispettive costruzioni (8). E' il tipico andamento di una narrazione televisiva, infatti puntualmente utilizzato in Twin Peaks che di continuo annoda e dipana le separate vicende dei numerosi personaggi accessori (con un potente uso della digressione diventata -assieme all'ironia- elemento stilistico fondamentale) riunendole alla trama portante -progressivamente sempre più pretestuosa- della investigazione poliziesca. In Cuore selvaggio, l'inizio della fuga in macchina è montata assieme alla scena dell'organizzazione dell'omicidio di Sailor da parte della madre di Lula e del killer Santos: sebbene vi sia un preciso rapporto tra le due scene, i passaggi dall'una all'altra sono troppo numerosi e i brani eccessivamente lunghi per alimentare la tensione che la loro riunione dovrebbe far nascere. La scena del rossetto subisce analoghe dilatate interruzioni, terminandosi dopo numerose altre sequenze che in essa si incastrano senza nessun nesso di contemporaneità, esattamente come accade nella prassi della soap-opera.
Flash-back irrompono a mostrare ciò che è successo in passato (la molteplice lettura della scena iniziale, guardata successivamente dai diversi punti di vista dei vari presenti, chiarisce così i rapporti tra i personaggi e si propone come antefatto significativo ed adeguata introduzione a tutta la storia) ed interrompono la continuità della narrazione, ulteriormente frazionata dall'inserimento di visioni (si pensi alla simile assurda e demenziale proliferazione delle allucinazioni ed esperienze paranormali in Twin Peaks), sino alla semplice deliberata illustrazione dei dialoghi. Molto di ciò che viene pensato o semplicemente detto sullo schermo viene immediatamente evidenziato con inquadrature, a volte addirittura intere scene decisamente superflue e didascaliche: la madre di Lula dice a Sailor che è "una merda" e subito Lynch inquadra il vaso di un gabinetto per chiarire il concetto.
Si tratta in effetti, nei pochi esempi citati, (il montaggio in parallelo, l'intersecazione dei diversi tracciati narrativi, l'illustrazione dei dialoghi e il ricorso al flash-back) di espedienti originariamente di matrice cinematografica, in seguito generalizzati, sfruttati e deformati dalla televisione (un mezzo che non si permette mai la preziosa suggestione del sottinteso e che punta all'immediatezza della comunicazione) e che Lynch recupera e reinserisce in un contesto cinematografico senza rimodificarli, lasciandoli deformati come li ha ritrovati, ciò che crea un potente effetto di grottesco per la consapevole eccedenza di chiarezza che spinge ogni elemento del film sulla sua superficie visibile od udibile (9). 


LA SUPERFICIE
Proprio grazie alla televisione -il linguaggio più intimamente superficiale- Lynch opera una drastica e profonda semplificazione della narrazione, attua nel film una costante voluta 'superficialità', ossia tende ad affermarne con immediata evidenza i contenuti, senza bisogno di (inutili) ulteriori approfondimenti. Tutto vi è infatti così compiutamente e spudoratamente espresso che niente rimane sottinteso e sfumato, o semplicemente accennato: in Cuore selvaggio ogni cosa viene detta e subito sottolineata con una forte ipertrofia espressiva, una ridondanza di significati ripetutamente calcati, continuatamente messi in evidenza e grottescamente ripetuti, come il senso, già di per se assurdo -e addirittura annullato dalla sua stessa ripetizione-, della giacca in pelle di serpente di Sailor (10). Wild at Heart è un film tutto in superficie, dove ogni cosa è chiara e ben definita sin dalle prime immagini, dove i buoni sono buoni ed i cattivi cattivissimi, dove tutto è schematico e semplificato.
Pertanto, è difficile è sottoporre Cuore selvaggio ad una vera e propria analisi, ogni suo elemento essendo al primo grado, immediatamente evidente. Tutto vi è così chiaramente ed esplicitamente detto che ne consegue la completa scomparsa del 'fuori-campo', ossia del sottinteso, dell'inespresso o dell'alluso in quanto la perfetta 'superficialità' del film non autorizza contenuti ulteriori, estranei al terreno della immediata percezione audiovisiva. Così l'analisi critica, che si appoggia ad una schematizzazione e scomposizione, ad uno scavo all'interno del testo e un approfondimento della sua materia, si trova quindi anch'essa suo malgrado costretta a sostare in superficie, dove tutto è già esaurientemente enunciato, privata dei mezzi stessi della sua indagine poiché schematizzazione e scomposizione sono già proposte ed applicate in partenza: ogni elemento del film è al primo grado, immediatamente evidente.
Non è possibile sottoporre i personaggi ad una lettura psicanalitica data la grossolanità della loro psicologia e l'adesione incondizionata e sincera ai cliché: non vi è reale profondità psicologica in nessuno, tutti identici a loro stessi per tutta la durata della vicenda (che copre svariati anni). La loro logica elementare è definita in partenza e non subisce alcuna variazione, tutto ciò che li riguarda si trova ben in evidenza in superficie, nel loro comportamento o nei loro atteggiamenti. Senza vera personalità, i personaggi del film vivono in una completa adesione a triti cliché, da loro ritenuti esempi da seguire, adeguandosi così, con una identificazione priva di qualsiasi scarto critico, a stereotipi che li caratterizzano ed imbrigliano come i personaggi delle sit-com o delle soap-opera statunitensi. In Twin Peaks, una finta soap-opera (An Invitation to Love) si affaccia effettivamente dai teleschermi per riflettersi sulle vicende dei personaggi, suggerirsi come codice di riferimento e chiave di lettura del loro universo (11). Soltanto nei due protagonisti vi è un'evoluzione, la quale però corrisponde ad una netta e brusca cesura del loro comportamento, senza quindi nessuna fase intermedia chiaroscurata psicologicamente credibile: la violenza verbale di Bobby Perù per Lula; in Sailor la mistica apparizione della fata nella sua bolla galleggiante.
La madre di Lula è ingabbiata in un ruolo ed un corpo da soap-opera da cui eredita un'esasperante enfasi, la ridicola artificiosità degli atteggiamenti, l'intima incapacità a provare non schematici o grossolani sentimenti. Presa dal dolore e dal rimorso per aver provocato la morte del suo amante, il detective Johnnie Farragut interpretato da Harry Dean Stanton, la donna si taglia simbolicamente le vene con un rossetto con cui si tinge in seguito il viso, desiderosa di farsi del male, di espiare nel dolore la colpa. Tutto nella scena è però così calcato ed esagerato da essere decisamente poco credibile, e in conclusione il regista inquadra le scarpe nere a punta della strega cattiva che la donna continua a calzare, mostrando quanto l'umanità del personaggio, così bestialmente espressa, non sia che una ridicola finzione: solo il vomito finale è effettivamente liberatorio, naturale fisica espressione del disgusto per se. L'invalicabile limite della soap-opera costringe così il personaggio entro codici espressivi caratterizzati dall'eccesso: le variabili parruccone bionde, le lunghe unghie laccate, l'immancabile bicchiere di aperitivo in mano, l'attrazione offesa per Sailor e l'insano eccessivo istinto materno nei confronti di Lula, grottescamente iperprotettivo, sono tratti che definiscono una figura che in essi si esaurisce e ai quali rimane legata con impassibile ed irrealistica imperturbabilità.
Vi è poi un forte contrasto tra il contenuto dei dialoghi e la recitazione: fatti di frasi brevi e drastiche dette con inattendibile esagerazione (come in una scena d'opera) o, al contrario, con riduzione a zero della partecipazione emotiva (simile all'enunciazione delle notizie di un telegiornale); in entrambi i casi assistiamo comunque ad una perdita di verosimiglianza e di credibilità della recitazione che, data la totale leggibilità delle psicologie, non necessita più di alcuna sfumatura ed è del tutto aliena dal tipico scavo interiore all'interno del personaggio, ormai completamente unidimensionale, che invece è così caratteristico dei camaleontici attori americani sfornati dall'Actor's Studio. Questa ricorrente frattura fra il contenuto dei dialoghi e la loro enunciazione è in fondo parallela al contrasto che intercorre tra l'immagine ed il suo accompagnamento sonoro, uno iato sensibile che determina in entrambi i casi un forte ironico effetto straniante, tale da impedire l'identificazione. Per tutto il film, Sailor e Lula non si scambiano reali battute di dialogo ma frasi fatte, già sentite o lette altrove: soprattutto i discorsi della ragazza sembrano provenire da un apparecchio televisivo lasciato acceso a ripetere ossessivamente tremende banalità (il buco dell'ozono, i morti sulle strade, i decessi per alcolismo o di cancro da fumo), notizie che diventano parte delle sue preoccupazioni e della sua esperienza e consapevolezza del mondo, colpendola e rattristandola profondamente. 


REMINESCENZE.
Se il film di Lynch appare a prima vista privo di un coerente contenuto di citazioni o riferimenti propriamente cinematografici, muovendosi com'esso fa su un terreno ingombrato da visibili apporti da altri film (Oz, il mitologema di Elvis), esso è comunque fortemente debitore di un certo cinema (europeo, non americano come si potrebbe inizialmente sospettare) che influenza sotterraneamente tutta la pellicola, lasciando infine trasparire un fitto intreccio di collegamenti, mettendo a nudo una struttura elaborata e varia, colta e suggestivamente occultata.
Godard aleggia sul film. Sul suo esempio, Lynch sfrutta i codici audiovisivi della drammatizzazione classica, e violandoli sistematicamente ricerca una espressività diversa e più eloquente, sperimenta e nega di continuo i mezzi cinematografici noti di cui dispone, denunciandoli apertamente e spogliandoli spesso del loro senso. L'invadenza espressiva della colonna sonora, al di là della evidente innegabile matrice televisiva, è di sicura provenienza godardiana.  Il regista svizzero sembra avere una certa importanza ed influenza anche per il valore prepotentemente  trasgressivo ed antiaccademico dei suoi film, la puntuale ricerca dell'infrazione dei divieti convenzionali: A bout de souffle è in questo senso una sorta di catalogo delle cose che non potevano esser fatte all'epoca in cui è stato girato. Un simile gioco con gli interdetti contemporanei americani, sociali e cinematografici (ritrasmessi e diffusi dalla televisione), si ritrova in Lynch, sottilmente accennato in Twin Peaks, più evidente in Cuore selvaggio. In un periodo di accanita e grottesca caccia al fumatore, Sailor e Lula non fanno che fumare (lui ha iniziato a quattro anni, fumando la stessa marca di sigarette della madre, morta di un tumore ai polmoni); scurrilità, linguaggio dalle forti coloriture sessuali -sino al parossismo dei "fuck me" di Bobby Perù-, l'insistenza sulle scene di sesso ed i relativi dialoghi sono elementi dissonanti rispetto alla norma cinematografica (soprattutto se i protagonisti non sono di imbellettata bellezza); tutti i problemi di Sailor sembrano provenire dal "lack of parental guidance", locuzione tipica di una sociologia spicciola e semplicistica presa evidentemente in giro, al pari dello psicologismo di molto cinema qui chiaramente deriso dalla somiglianza, notata dalla stessa Lula, tra l'amante e il padre (morto in presenza di Sailor da cui anche la vedova è spudoratamente attratta), o il trauma della violenza sessuale subita dalla ragazza a 13 anni, esempio del ricorrente 'scheletro nell'armadio' di ogni personaggio cinematografico americano (ma il violentatore ha il bonario aspetto di un simpatico vecchietto); oppure la complessiva definizione della famiglia come luogo di torture, ipocrisie e frustrazioni (una costante di Lynch) in un clima genericamente celebrativo dell'istituzione famigliare.
Ma al di là di somiglianze che, in questi termini, potrebbero risultare generiche, Wild at Heart rimanda con estrema precisione ad un singolo film di Godard, a cui lo unisce il gusto per l'assurdo e l'apparente inspiegabilità dei comportamenti, la variabilità stilistica, il rifiuto della società e della famiglia: Pierrot le fou. I suoi protagonisti, come Sailor e Lula, sono costretti alla fuga da tutto ciò che è acquisito, mossi da amore, inseguiti da assassini e scagnozzi al soldo dei familiari, pronti ad eliminarli al più presto. Anche Belmondo e Karina, fuggitivi trasgressivi e marginali, si muovono (per un tratto) su una lunga macchina americana decappottabile (contemporanea per i francesi, anacronistica quella simile degli americani: ma la loro vicenda non è ben datata, si svolge in un tempo astratto, in bilico tra gli anni Cinquanta e i Novanta), incontrano un incidente automobilistico mortale (che non sembra però turbarli eccessivamente) le cui vittime affondano in pozze di sangue; sono circondati da gente ed un mondo odioso e gratuitamente crudele, con morti incomprensibili o nani minacciosi. Se nel film francese è Karina la terrorista, nella pellicola statunitense il criminale è Sailor, il quale sembra però ereditare da Belmondo una certa innocente inconsapevolezza.
Pierrot le fou, come anche Wild at Heart, è un road-movie, il racconto di una disperata e vana fuga che si traduce in un viaggio nello spazio delle immagini e delle convenzioni cinematografiche, facendo tappa in vari generi e diversi stili, attraversandoli tutti nel tentativo di trovare e definirsi una propria precisa identità, eliminando, ricapitolandole, tutte le scorie narrative preesistenti. Sostanzialmente, in entrambi i casi, si tratta di un tentativo di emancipazione (da cui, in Lynch, il passaggio all'età adulta dei due protagonisti, la 'perdita dell'innocenza', ingrediente tipicamente americano) da quel mito cinematografico che minacciosamente giganteggia ed incombe su tutti gli altri: il mito americano: esso diventa cinema attraverso il road-movie, che sintetizza cinema e mito sino alla completa confusione in un unico, più grande, topos (12). Non a caso, quindi, questo genere cinematografico -se ambientato negli Stati Uniti- rappresenta quasi sempre un tentativo di definizione dell'America stessa, del suo mito e di conseguenza del suo cinema, termine questo, soprattutto per i registi europei, di un inevitabile, forse invincibile confronto. 


MITO E RITORNO.
Un altro road-movie europeo, anzi quello che ormai rappresenta per eccellenza il genere, si muove nella stessa direzione, verso (o da) l'America come Godard, fisicamente spostandosi sul suo territorio, esattamente come Wild at Heart: Paris, Texas, di cui in Lynch, più che citazioni, sembrano trovarsi precise piccole e significative allusioni. Nel suo viaggio nostalgico e crepuscolare attraverso l'America, Wenders si affida alla guida di Sam Shepard, l'ultimo disilluso cantore del vecchio mito americano, rivisitando con lui i luoghi ed i set ormai vuoti del grande cinema passato. Protagonista in Paris, Texas, Harry Dean Stanton è in Cuore selvaggio ormai solo una figura di contorno, veste i panni di un investigatore privato, amante della madre di Lula ed ingenua predestinata vittima del suo rivale (così gangster e detective story entrano di diritto nella imprevedibile trama). Nei due film i protagonisti devono fare i conti col doloroso riemergere del passato (da fuggire o inseguire), e sono costretti ad un traumatico attraversamento del deserto: se in Wenders è nel Texas che tutta la storia ha origine, in Lynch in quello stato essa precipita, a Big Tuna, Texas, e sul cartello stradale che indica il nome della località, come un sottotitolo di commento, in vernice è scritto "fuck you": il materiale 'poetico' wendersiano, trasferito nell'altra pellicola, in sintonia con lo stile del film e la natura dei personaggi subisce infatti un feroce abbassamento, al limite della parodia.          Condiviso dalle due storie è soprattutto il tentativo di ricongiungimento e ricostruzione del nucleo familiare, (due genitori ed il bambino) con la conseguente ricerca di uno stabile perduto equilibrio interiore, personale e culturale essendo il viaggio una privata esperienza esistenziale oltre che un'escursione nei luoghi e nella ossessione del cinema americano. In Paris, Texas, la struttura metacinematografica con la sua valenza autobiografica prevale però su un'intelaiatura narrativa sostanzialmente pretestuosa, imprigionando i personaggi in una splendida cornice la quale non permette loro che di ripetere fedelmente la vicenda interiore del regista, inibiti a prender vita autonoma dal suo asfissiante egotismo. Al contrario, liberi dallo stretto giogo metaforico, in Lynch i personaggi si muovono autonomamente, alieni da qualsiasi restrizione e in perfetta coerenza con la loro personalità: il regista non interviene a guidare l'azione poichè il secondo livello è integrato e fuso con il primo, 'guardato' all'interno dei protagonisti e non imposto loro.
Sailor e Lula optano, a differenza dei personaggi di Paris, Texas,  per una conclusione oltraggiosamente felice; ma è un lieto fine apparente, a loro insaputa profondamente tragico essendo la definitiva e completa fuga dei personaggi tra i sogni, verso l'unico posto dove questi possono realizzarsi, in un mondo parallelo ed astratto come il mondo di Oz, in cui convivono conciliate le loro singole rispettive mitologie, e la realtà è rifiutata, calpestata come le macchine su cui Sailor corre per raggiungere l'amata imbottigliata nel traffico. Si ritrovano entrambi in un mondo per loro sicuramente migliore, più comprensibile perché ormai privo delle contraddizioni di quello vero, non per questo però meno insidiosamente angosciante, tratteggiato da Lynch in modo talmente patetico, realizzato con trucchi così posticci e grossolani da lasciarci fortemente dubbiosi sulla sua effettiva esistenza: è un rifugio meramente illusorio dagli attacchi del reale (13).
 

IMMAGINARIO.
Il mondo lynchano è sempre ossessivamente interiorizzato, ogni film si svolge nei recessi psicologici e patologici dei suoi buffi protagonisti (14).
Anche in Wild at Heart "tout est montré depuis le point de vue des personnages. Ce sont eux qui dictent l'atmosphère de leur univers, donc du film, tour à tour violent, fantastique ou drôle" (15), quasi espressione del loro caotico ed ingenuo 'flusso di pensiero' (16), ciò che spiega l'estrema variabilità di tono, la volubilità (televisiva) del film. Questa adesione consapevole del regista ai suoi personaggi, la sincera precisione con cui ne tratteggia il carattere, permette allora una vera vivisezione ed ispezione dall'interno del loro universo psicologico e culturale il quale si riversa senza manipolazioni, caotico e convulso come effettivamente è, sulla superficie del film, grazie proprio a quella esuberanza stilistica che invece, apparentemente, sembra allontanare Cuore selvaggio da ogni sorta di verosimiglianza.
Constatando semplicemente l'effettiva influenza della televisione, Lynch descrive la visione del mondo di personaggi che non possono più prescindere da una forte dipendenza, in massima parte inconsapevole, dal piccolo schermo. Per farlo, egli ricorre a quel modulo espressivo che gli è proprio per mezzo del quale ingrandisce e gonfia un dettaglio noto sino a renderlo mostruoso ed inquietante, dilatando qui la televisione alle dimensioni cinematografiche. In questo senso, Cuore selvaggio è un film profondamente e intimamente realistico e i suoi protagonisti, nella loro indefessa ed inverosimile banalità, diventano personaggi esemplari ed universali, nei quali è orribile e non difficile riconoscersi.
Con Sailor e Lula, Lynch, a differenza di Wenders che trasmette soltanto il suo privato aristocratico punto di vista, riesce a dare un attendibile ritratto dell'immaginario collettivo contemporaneo dell'intero pubblico, soprattutto -ma non esclusivamente- americano, in cui miti ed archetipi di varia e spuria provenienza si confondono con stereotipi diffusi e ripetuti insistentemente dai mass media che assumono tale importanza ed evidenza da sovrapporsi alla vita reale, modellandola e condizionandola visibilmente, diventandone parte integrante.
La televisione ha ormai preso il posto del cinema quale supporto omnicomprensivo di tutte le moderne mitologie, è il nuovo contenitore  che di quelle voracemente si alimenta, facendole illusoriamente sopravvivere riciclandole e quotidianamente risputandole, e dove anche (o forse soprattutto) il cinema si è perso, fagocitato e perfettamente assimilato: la tv è la 'scatola' di Pandora da cui tutti i generi ed i film sono  sfuggiti, spargendosi per le strade e tra la gente, insidiandola ed abitandola come spiritelli maligni  senza logica, come ridicole ossessioni (17).
Al termine di Wild at Heart, la macchina da presa romanticamente ruota attorno a Sailor e Lula abbracciati alle note di Love Me Tender, chiudendo il film in un anello che rinserra le illusioni dei due amanti in una impasse autocontemplativa, mentre la luce vivida del tramonto si spande su scenografie vuote di città industriali già fantasma dove, non visto, sotto gli occhi di tutti di fatto si esaurisce il mito ed il cinema americano.   


FINE.
In Paris, Texas Wenders inseguiva già solo l'ombra dell'America a lui nota, soltanto il vago ed evanescente fantasma di un cinema della cui voce gli giungeva ancora una debole eco; ma già allora la ricerca si arenava, concludendosi nella triste riconquista di una solitaria orgogliosa autonomia.  In Wild at Heart questo spettro si è ormai totalmente dissolto  nella completa e diffusa confusione audiovisiva che non lascia distinguere nessuna immagine o voce, accavallandole e confondendole tutte. Il cinema con ogni suo mito si è franto in inconsistenti particelle, disintegrato in un impalpabile pulviscolo che riprende forma solo nello sguardo vitreo dello schermo televisivo, imprigionato nelle numerose minuscole e separate cellette che vanno a comporre la superficie del tubo catodico (18).

NOTE.
1.  Alla fine del film, sulla strada per raggiungere Sailor appena scarcerato, Lula incontra un altro (più grottesco) incidente automobilistico; significativamente, ella copre gli occhi del figlio, impedendogli di essere anch'egli turbato dalla vista della inspiegabile crudeltà della morte.
2.  Nicolas SAADA, Cannes 90: David Lynch, in "Cahiers du Cinéma", n. 433, giugno 1990, p. 31.
3. In Lynch, la deformazione finisce con l'essere più realistica di qualsiasi fedele ritratto (anche in Fellini, essa è l'espressionistica messa in evidenza del dato realistico di partenza), come se un essere già difforme (il mondo secondo Lynch), si riflettesse in uno specchio distorto sino a vedersi pressoché normale.
4.   Cuore selvaggio diventa così quasi una 'metafora' del Mago di Oz. Del resto vi sono analogie di contenuto: Dorothy è costretta alla fuga dalla famiglia in un territorio strano ed insidioso, per salvare Totò, il cagnolino, dalla sicura morte voluta dalla vicina antipatica -diventata nel sogno della bambina la strega cattiva dell'Est- perché colpevole di averla oltraggiata e morsa, esattamente come Lula deve sfuggire alle grinfie di sua madre -la nuova strega cattiva- la quale vuole eliminare Sailor, reo di stare con lei e di aver rifiutato la madre. Ricorrono elementi comuni quali la sfera magica, la fata buona, le scarpette rosse, l'inesistente e fantastica terra promessa "over the rainbow", la sardonica perfida risata della cattiva che è alla fine sconfitta ('liquefatta' in entrambi i film), la necessità di credere nei propri sogni ("dreams that you dare to dream do come true"): ma se nel vecchio film si afferma e si sostiene l'invalicabile validità della famiglia, in Lynch viene detto esattamente il contrario.
5.  Un orrore ingenuo sembra però pervadere anche il fantastico mondo di Oz, abitato da esseri incompleti o deformi, da bambini adulti, nani, un mondo zuccheroso eppure inquietante, dall'aspetto circense che ricorda Freaks o Elephant Man.
6.  Come giustamente intuisce sua figlia rappresentandola nelle vesti della strega dell'Est, la madre di Lula è il fulcro, il nucleo di cattiveria da cui si dipartono e prendono le mosse (la 'reazione a catena' è ben evidenziata) tutti gli altri elementi negativi della storia: è l'emblematica rappresentazione del Male in ogni sua manifestazione, personificazione della morte e del dolore (la cui prepotenza sfugge comunque al suo controllo). Il gesto che avvicina le due donne è l'apertura e chiusura delle dita della mano, che già in Dune è il segnale del mistico passaggio dei poteri e del ruolo di sovrana (dalla Mangano, gran sacerdotessa, alla madre di Paul).
7.  La colonna sonora è estremamente elaborata, ed entra nel complesso narrativo del film, accompagnando od esaltando l'azione, spesso commentandola ironicamente o caricandola di valenze liriche, con un accorto uso delle canzoni. Ad esempio, Harry Dean Stanton diretto in macchina a New Orleans dove gli è stato teso un trabocchetto, sente e addirittura canticchia Baby Please Don't Go (Down to New Orleans) senza prendere sul serio l'avvertimento, il consiglio della canzone. Il significato delle inquadrature che lo vedono al volante della macchina è così espresso ironicamente e in primissimo piano, viene detto o suggerito direttamente al personaggio che però non ascolta, ed è un errore che gli sarà fatale: l'accompagnamento sonoro della scena è quindi proiezione del desiderio della madre di Lula di mettere in guardia l'amante (o di quel pubblico che si è affezionato al personaggio e non vorrebbe vederlo morire).
8. Il passaggio da una scena all'altra è percettibile anche sul piano sonoro poiché la musica o l'ambientazione acustica della scena si interrompe con una forte ed evidente soluzione di continuità -come se ogni scena viaggiasse sempre accompagnata dal suo inseparabile bagaglio sonoro-, sottolineando la complessiva cesura audio-visiva, esattamente come avviene in televisione (e già nei precedenti film di Lynch).
9. Tutti i significati esaurendosi in superficie, vi è forse un certo squilibrio per l'eccesso, il sovraffollamento di elementi pregnanti che fa assumere al film, alla prima visione e soprattutto nelle sua prima parte -la presentazione dei personaggi e l'introduzione alla storia-, un aspetto ed un andamento caotici, comunque tipicamente lynchani nell'evidente gusto per il grottesco e per l'ibridazione ed una certa barocca ridondanza. E' possibile notare nel regista, parallelamente alla 'superficialità' della narrazione, una certa tendenza alla messinscena frontale, per cui l'azione è perfettamente riquadrata (e 'mostrata') nei limiti dell'inquadratura (dilatata -e deformata- dal grandangolare e dalla profondità di campo -che ritroviamo anche in Twin Peaks-, dal Panavision), dove i personaggi sono confinati come su di un palco teatrale limitato dalle quinte (con una certa preferenza per il taglio al montaggio rispetto al movimento di macchina).
10. In fondo, la stessa estrema evidenza dei significati, la ridondanza derivante dalla continua ripetizione è anche il rimedio per la visione frammentaria e distratta tipicamente domestica e televisiva.
11.Opera di Lynch anche se non spesso firmata da lui, Twin Peaks si propone come un valido prolungamento del suo lavoro registico cinematografico (soprattutto di Cuore selvaggio) il quale vi si rispecchia semplificato, pressoché spiegato, quasi lo sceneggiato fosse una sorta di prezioso corpo di note esplicative ad un testo più complesso.
12. Del resto è nota la battuta secondo la quale Ombre rosse, ossia la forma più nota e classica del western, cioè di un genere cinematografico che compendia in se il mito americano della frontiera e dei valori umani e culturali americani, è il primo road-movie di tutti i tempi.
13. Ma nè i personaggi, nè Lynch stesso, che vi ritorna con insistenza ad ogni film, sembrano rinunciarvi (e neppure gli spettatori, il cui desiderio di un lieto fine è parallelo a quello dei personaggi, sottolineando quella somiglianza sottintesa per tutto il film). Di fronte all'ostilità e mostruosità del reale, i disadattati personaggi di Lynch sono sempre costretti alla fuga (tranne forse in Dune, dove l'inevitabilità del suo destino impedisce a Paul ogni diversa possibilità); in Cuore selvaggio, essa diventa fisica e metaforica al contempo, i due protagonisti rifugiandosi nel mondo fantastico delle certezze acquisite in cui le loro mitologie hanno vita, fuggendo in macchina dalla società e dalla madre della ragazza. Il mondo però li perseguita: notizie macabre e catastrofiche li raggiungono dall'autoradio; esasperata, Lula si ferma ed obbliga Sailor a cercarle una stazione con della musica, e i due si gettano in una danza liberatoria violenta ed anarchica al ritmo frenetico del pezzo dei Powermad, che sfuma lentamente, con l'allontanarsi della macchina da presa ad inquadrare l'orizzonte ed il sole che tramonta sul deserto, nel brano di Richard Strauss. Per Sailor e Lula, come per gli altri pesonaggi di Lynch, non vi possono essere compromessi con siffatta realtà, soltanto una sua alternativa, un altrove migliore ed impossibile, sull'arcobaleno o dietro il termosifone.
14. Ciò che infatti dei personaggi già nel libro lo interessava era proprio "leur relation, leur rapport au monde, et le monde dans lequel ils évoluaient".
Nicolas SAADA, Cannes 90: David Lynch, op. cit., p. 31.
15.  Ibidem.
16.  La storia di Blue Velvet, ad esempio, potrebbe essere tutta un incubo, il sogno dell'inconfessato desiderio di Jeffrey di andare a curiosare più a fondo nelle perversioni cittadine (invitato da quell'orecchio mozzo infestato di formiche, morboso simbolo della sua curiosità), una voglia di 'noir' che tinge il film degli angosciosi toni di un omaggio al genere. Jeff non è solo banalmente attratto da ciò che non conosce, ma soprattutto è mosso dal forte desiderio di vedere e far parte dell'eccitante realtà notturna dell'insospettabile e pacifica cittadina, che infine lo coinvolge e lo contagia, gli rende visibile la "stranezza del mondo". A confronto con i canoni comunemente riconosciuti come realistici del cinema tradizionale, i film di Lynch, perché espressione del mondo parallelo e dissonante dei loro personaggi, sono essi stessi universi regolati da leggi ignote allo spettatore, alle quali questi deve concedersi come ad un'esperienza ipnotica; in quanto rivelazione di un mondo mentale nascosto, in quanto deformazione del dato oggettivo comune (perpetua 'soggettiva' del loro protagonista, fotocopia della sua peculiare percezione della realtà), per funzionamento e significato, i film di Lynch, regista intimamente kafkiano, poco si discostano dall'effettiva esperienza onirica.
17. In Poltergeist lo spirito dei morti usciva dal televisore, e vi imprigionava la bambina, proprio come anche Sailor e Lula ne sono, senza saperlo, prigionieri. In fondo, anche i piccoli Gremlins di Joe Dante altro non sono che miti cinematografici riconvertiti in grotteschi -maligni- luoghi comuni.
18. Campione di 'superficialità', Andy Warhol ha lavorato sui miti americani, proponendo un valido ed ironico ritratto, insieme umoristico ed angosciante, dell'America contemporanea, trovando i punti di intersezione e convergenza delle sue private ossessioni con quelle del pubblico. Morte e cinema, bellezza e stupidità, civiltà del consumo e del dollaro lo hanno sempre affascinato; egli si è perfettamente conformato alle esigenze di identificazione del pubblico con le sue opere ricercando una perpetua 'superficialità' e affinandola progressivamente, rendendo tutto talmente esplicito e semplice da ridefinire, sulla scia del Dadaismo, il concetto stesso di arte, alla fine del tutto distaccato dalla stessa partecipazione pratica dell'artista alla creazione dell'opera diventata effettivo prodotto del lavoro di altri e frutto della sua sola idea, a questa riducendosi l'essenza stessa (ormai diventata la totalità) dell'arte, in un'antielitaria accezione del prezioso concetto di 'autore'. Le tecniche su cui lavora sono inoltre essenzialmente legate alla riproducibilità tecnica, negano l'unicità dell'opera artistica e si basano sulla ripetitività, costante di una cultura -pubblicitaria e televisiva quindi- condizionata dalla ripetizione ossessiva di un messaggio quale unico mezzo per caricarlo di significato, che però al contempo conduce al finale spolpamento del suo effettivo contenuto e alla sopravvivenza della sola superficie. Warhol si offre in effetti come termine di un interessante paragone con David Lynch, come lui incuriosito da una definizione dell'immaginario collettivo americano attraverso i suoi miti più importanti, ad un studio sulla superficie e l'evidenza, che si avvale della deformazione e del grottesco come espedienti di espressionistica sottolineatura del significato: un altro elemento in comune con Warhol, come lui fedele cronista del suo tempo. Nato da un'idea e da una sceneggiatura di Lynch, Twin Peaks è però frutto di collaborazione perchè realizzato da altre persone, pur senza tradire l'impronta e lo stle del regista, ciò che porta anche nell'espressione audiovisiva, ad una forma di arte impura, non derivante dal diretto intervento dell'artista ideatore: Lynch in effetti sembra applicare al cinema concetti e procedimenti tipici della Pop Art. Come Warhol, anche Lynch infatti passa da una forma d'arte all'altra, facendo non solo film e serial, ma anche spot, musica (la fruttuosa collaborazione con Angelo Badalamenti e Julee Cruise), opere-rock e fumetti, scultura pittura e fotografia, pasticciando con tutto, rimanendo sempre consapevolmente fedele ai propri miti e temi, trovando in ogni campo un'espressione originale e personale immediatamente evidente. Al lavoro di fiction bisognerebbe affiancare quello più propriamente documentario: un reportage in diverse puntate, incompleto, ideato e prodotto in collaborazione con Mark Frost sull'America: le American Chronicles, frammenti televisivi a tema di mezz'ora ciascuno, in cui la diretta illustrazione del testo, letto in voce off da un narratore spesso famoso, viene quasi sistematicamente applicata ai fini di una ricognizione dei luoghi comuni (geografici e comportamentali) statunitensi che purtroppo non prescinde da una prevedibile ed altrettanto comune retorica -l'esaltazione degli stessi luoghi-, addizionata ad una ingente dose di didascalico didattismo a sfondo spesso moralistico: si salva, a stento, la ricerca di inquadrature 'lynchesche' che solo in pochi casi (l'ironica New Orleans di Mark Frost) raggiunge esiti degni di qualche attenzione: se gli ingredienti sono quelli componenti gli ultimi lavori di Lynch, i risultati deludono decisamente, forse perchè proprio l'assenza di fiction (o del diretto intervento di Lynch, comunque supervisore) non autorizza un adeguato scarto portando i filmati ad annullarsi nella stessa banalità che descrivono, semplicemente ripetendola.

(tutti i testi sono proprietà di antonio fabbri)
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