Come
il precedente, anche l’ultimo film di Ang Lee è un
melò tragico raggelato, storia di sentimenti inesplorati e sesso
corrisposto, in cui i protagonisti finiscono fatalmente vittime di un
destino avverso, di una situazione estranea e nemica alla quale non
riescono a ribellarsi con sufficiente determinazione. Il sorriso sembra
ormai scacciato dalla filmografia di Lee, mentre i suoi personaggi sono
schiacciati da una predestinazione ingombrante che segna e mal cela gli
evidenti sintomi di un fato infausto, brevemente illuminato dal fuoco
fatuo delle illusioni.
Nella Cina occupata dai giapponesi, giovani ribelli borghesi, animati
da infatuazione militante e armati di temerario dilettantismo, si
cimentano nell’infiltrazione delle linee del governo
fiancheggiatore introducendo una di loro nelle grazie e nel letto di un
alto dirigente statale per ordire e organizzarne l’omicidio
mirato.
Agitato da passioni mai consumate, da sesso esasperato che consuma e
corrode, che confonde i confini dell’amore e del desiderio, della
lealtà e della prudenza, il film si svolge senza picchi a
dipanare una materia incandescente, osservando, con attenzione e a
distanza di sicurezza, i suoi protagonisti agitarsi e soffrire,
trascinati dall’odio e dalla tenerezza. Lee incapsula la vicenda
in un convenzionale flash-back, che si anima nel momento narrativamente
culminante per interromperlo, spiegarlo e solo al termine svilupparlo
sino alla conclusione. E tutti i protagonisti vivono in trappola, per
scelta o rassegnazione, inermi di fronte al dolore che si prospetta e
le cui avvisaglie sono sempre più evidenti, imprigionati da un
contesto in cui hanno operato scelte via via più opprimenti, dai
rispettivi giochi di ruolo in cui l’individualità si
scioglie e si disperde, lasciando viva soltanto la maschera.
Lussuria è
lavorato dall’ossessione per la messinscena, guarda una troupe di
commedianti inesperti inscenare un drammone patriottico, tramutato poi
in progetto terroristico, attori alle prime armi impersonare personaggi
fittizi per penetrare le difese dell’avversario, fingere passioni
per intrappolare il bersaglio. Ma anche l’antagonista, un
sibillino Tony Leung, è costretto al ruolo di torturatore
istituzionale, si rifugia in un distacco dandy sotterraneamente corroso
da un rimorso represso mentre osteggia un’armatura di prudenza
che si infrange nella fiducia amorosa, personaggio “à la
Melville” di sofferente imperturbabilità. Il film stesso,
di ambientazione e interpretazione cinese, si vuole occidentale nei
riferimenti cinefili (gli spezzoni dei classici Hollywoodiani: Intermezzo, Il ladro di Baghdad, Ho sognato un angelo ma anche Il sospetto) e nasconde la ripetizione della trama di Notorius
sotto il Mahjong e le ambientazioni storiche, ricrea un’atmosfera
noir debitrice del cinema classico occidentale. Lussuria si finge in
fondo altro da sé. E solo negli inserti erotici, con il sesso
esplicito nascosto da una regia statica ed estetizzante, ritrova la
verità inconfessabile di personaggi che, per un momento,
perdendosi, raggiungono una verità interiore senza veli
né pudore, privi infine di una sovrastruttura ideologica, del
manto soffocante del gioco dei ruoli e di quella finzione che la regia
però impone con un distacco con cui, volutamente, contraddice la
scopofilia inerente alle stesse immagini.
Ma in questi rimandi a imposture incrociate, interrotte
dall’esplosione dei sentimenti e dei sensi, il film finisce con
l’essere solo un sipario porpora, elegantemente damascato, che si
apre su un teatro di convenzione, un proscenio vuoto in cui si muovono
spettri lontani di cui in sala riecheggiano solo le voci.
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