Se le conseguenze dell’assassinio
di Lincoln sono ritratte da The
Conspirator di Robert Redford, che si apre esattamente alla conclusione del
film di Spielberg (il quale, forse volutamente, omette la scena dell’omicidio),
le due pellicole condividono l’idea di una verità sporcata dalla necessità
politica. Gli attentatori del Presidente, effettivi o improbabili che siano,
vengono mandati alla forca per rendere oltremodo evidente una giustizia che,
amaramente, si cancella proprio nel volersi manifestare esemplare. Al
contrario, il pragmatismo politico di Lincoln avanza con pratico cinismo ma
mosso da un più alto intento, alla ricerca e alla conquista di una uguaglianza
tra bianchi e neri che renda effettiva l’utopia democratica della Costituzione
Americana.
Scisso tra contemplazione dell’icona
e ritratto privato, il biopic di
Spielberg si concentra sulla fase finale della guerra di Secessione e sulla
volontà del Presidente di legare la pace all’abolizione della schiavitù,
irrinunciabile per l’economia sudista basata sullo sfruttamento delle
piantagioni. Graficamente attento al rispetto dell’immagine nota del
Presidente, il film lo mostra quasi sempre di profilo e negli interni,
domestici e politici, della Casa Bianca, in famiglia e a stretto contatto con i
figli minori e la moglie. Anche la gestione della cosa pubblica sembra muoversi
in questo ambito familiare, tra aneddoti introduttivi, l’amicizia sovrastante i
rapporti di lavoro, rimanendo distinto e lontano dal dibattito del Congresso mentre
presenziare costantemente agli incontri con i concittadini. La prima entrata in
scena lo mostra Comandate in Capo dialogante sul campo di battaglia con i suoi
soldati, attento alle rivendicazioni e pronto a spronarne le passioni.
Monologante e aulico nei toni e nei
contenuti, ma dimesso nelle vesti e negli atteggiamenti, Lincoln giganteggia
per statura fisica e morale, incurvato da un peso che diventa simbolico nel
guidare verso la giustizia la propria nazione, imperterrito nel perseguire il
disegno di una verità interiore indiscussa per la quale la compravendita dei
voti a favore non è che un contrattempo necessario, una schermaglia accademica dalla
finalità strategica.
Così come il precedente Amistad, che già affrontava il tema
dello schiavismo (dopo l’excursus melò del Colore
viola) e metteva in scena un Presidente Americano - Adams, in pensione -
nelle vesti del difensore degli oppressi, anche Lincolncourtroom
drama dalla prevalenza verbale, dove il dibattito legale diventa morale e
si sposta dalle aule del tribunale all’aula del Parlamento senza perdere verve né suspense, e la parola viene data ai congressisti mentre il Presidente
rimane persuasore occulto e in ombra.
Visivamente, il film si dibatte
tra l’icona e la persona, tra la figura pubblica e la sua dimensione privata e,
parallelamente, Spielberg sembra incerto tra l’esposizione della consueta
potenza visiva e la modestia della semplice fedeltà storiografica che raffrena
la visione, correndo il rischio dell’eccesso di discorsi e della preminenza dell’immaginario
classico sull’immaginazione. Lincoln
arriva dopo l’esperienza apparentemente calligrafica di War Horse, un esercizio nella classicità, soprattutto, in cui
Spielberg ripercorre le tappe della propria produzione dalla serenità apparente
dell’infanzia alla caduta nella follia della guerra, vissuta e riflessa nello
sguardo enigmatico del cavallo da macello armato, vittima ancor più
inconsapevole dei soldati. Ed è ancora sulle tracce della classicità che le
luci di Kaminski variano in entrambi i film dal livido al brillante, imitano in
Lincoln il bianco e nero e la
piattezza della prima fotografia mentre in War
Horse osano la profondità del campo lungo dell’illusione di una visione
totalizzante e la munificenza coloristica del primo technicolor; ma, in
entrambi i casi, citano i registi fondatori del mito cinematografico americano
nell’uso delle ombre o del controluce.
Con modestia, senza rischiare l’enfasi
nella sottolineatura, Spielberg cerca la chiarezza della classicità per accompagnare
Lincoln al letto di morte facendone figura cristologica di un sacrificio necessario
indossato con dolente ma serena consapevolezza, per riportare l’icona nell’alveo
della storia e la persona nel lutto di una famiglia che si allarga ad
abbracciare un’intera nazione.
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