Nelle sue grandi linee, il film
non aggiunge molto alle pellicole analoghe su zombi o pandemie letali (28 giorni dopo e sequel), con tanto di fotofobia vampiresca e riferimenti
incrociati a tutte le convergenze dei filoni orrorifici precedenti. Sebbene
efficaci nel creare sussulti, le creature sono spesso troppo digitalizzate per
necessità di moltiplicazione da essere veramente inquietanti, mentre la forza
esorbitante che possiedono le rende temibili e terribili animali antropomorfi
degni di un videogioco sparatutto in cui il protagonista, in soggettiva,
provvede ad eliminarne il maggior numero.
Allora, forse, il senso del film
è altrove. In un titolo magniloquente e in prima persona che pare alludere ad
una mitologia di nuovo conio, ad una persona che diventa personaggio
leggendario, le cui gesta vengono ripetute negli anni, travisandone i dettagli
e perpetuandone il senso in un futuro dove, improvvisamente, riprende vita.
Eppure della leggenda il protagonista non ha i presupposti; solo il caso lo
rende tale, una casualità barbara e crudele che diventa immagine dell’umana
inadeguatezza. Perché il personaggio di Will Smith non cessa di essere dominato
e sconfitto dagli imprevisti, dalla variazione impensabile di un virus manipolato
che diventa terminale, dalla morte della famiglia per un incidente, sino alla
sopravvivenza per un’inaspettata immunità. Tutto è sempre casuale,
indeterminabile, e il personaggio non può che assoggettarsi alla supremazia di
un forza ben superiore ai suoi mezzi e intenzioni, ad una volontà ed un libero
arbitrio condizionati da eventi di portata maggiore. Lo governa una fatalità
sadica che ascende a predestinazione solo nelle parole e nelle convinzioni
della giovane superstite che vi legge un segnale divino di rinascita e di cui
ravvede la dimostrazione nella scoperta miracolosa di una cura, anch’essa,
però, solo frutto tardivo del caso.
Solo l’imponderabilità dell’alea
fa del protagonista una leggenda, figura mitica di salvazione che,
cristologicamente, si immola per la salvezza del mondo. Nella realtà, il film
narra la storia di una tragedia intima che si tinge di apocalisse mondiale,
parla di frustrazione e di dolore, di solitudine opprimente e dell’incapacità
di affrontare la morte; è l’elaborazione di un lutto privato che si espande
all’intero pianeta e alla quasi totalità della razza umana. Incapace di
accettare la fine di ogni cosa nota e sensata, il protagonista ricrea
palliativi di vita collettiva attraverso la ricostruzione mimetica di routine
giornaliere, monologhi mascherati da dialoghi con cani o manichini, il tragico
bisogno di normalità e di senso che solo la ripetizione sembra tramandare, in
una visione degradata e speculare di un’esistenza precedente che incarnava un
accesso alla felicità o un’ipotesi di normalità.
La soggettiva rende il complesso
del film una visione distorta del mondo, in cui le creature diventano demoni
interiori delle paure di quella cancellazione e perdita di senso che la morte
impone. Una morte che si fa progressivamente vittoriosa e trascina a sé un
superstite stanco e affranto dagli ultimi decisivi lutti e che finisce per
accoglierla per sfinimento, come l’unica possibilità di liberazione e di scelta
autonoma. Una scelta definitiva che, sarcasticamente, relega il personaggio nel
mito, ammantandolo di un’aura sovrannaturale che la persona non aveva,
perpetuandone un’immagine alterata. È solo la morte che dà significato ad una
vita il cui senso si era perso nel dolore e nel lutto, in un’insopportabile
solitudine nascosta dalla reiterazione dei gesti, e crea una mitopoiesi
involontaria da ciò che era solo aspirazione al suicidio. Io sono leggenda è la cronaca di un inevitabile e progressivo
sprofondamento nella follia, nascosta tra le pieghe di uno spettacolo per grandi
platee.
|