Se in televisione
proliferano serial polizieschi, declinati in ambito scientifico, medico,
paranormale, il campo delle indagini sui serial killer sembra rimanere
prettamente cinematografico. Forse la "serialità" dell'assassino implica
una dimensione che mal si abbina al formato breve televisivo, al riazzeramento
degli eventi che accompagna la fine di un episodio; meglio invece si addice al
cinema, dove alcuni film (Il silenzio
degli innocenti sopra tutti, assieme a Psycho)
hanno ormai imposto prototipi imprescindibili.
L'ultimo film di Renny
Harlin, regista di una certa efficacia (Spy,
Cliffhanger), abbina curiosamente un
tema cinematografico come quello del serial killer ad una narrazione che si
modella su stereotipi tipicamente televisivi.
Un gruppo di sconosciuti
profiler è abbandonato su un'isola per un allenamento intensivo di fine corso. Secondo
la logica dei Dieci piccoli indiani,
così funzionalmente ripescata dai reality show, assistiamo all'eliminazione di
un partecipante dopo l'altro. Sull'Isola c'è una Talpa, un assassino
mimetizzato tra i cercatori di serial killer, mentre telecamere disseminate
ovunque sorvegliano l'efferato svolgersi degli eventi in un set predisposto. In
questo modello di Grande Fratello i concorrenti (in gara per un posto all'FBI)
vengono fisicamente fatti fuori uno per uno, in un gioco sadico e senza logica
apparente, se non quella ludica della sfida dell'assassino a sé stesso nell'ammazzare
tutti senza farsi scoprire, così da rendere la partita ad ogni giro più
serrata. Come ogni gioco anche questo ha le sue regole: le vittime designate
devono individuare quale delle proprie caratteristiche psicologiche li metterà
in trappola e ne provocherà la morte, devono superare una serie di prove uno
contro l'altro per giungere ad un'ardua collaborazione (il sospetto che
l'assassino sia uno di loro alimenta costantemente le rispettive paranoie) che
li faccia uscire vivi dal recinto dell'isola, sono costretti ad interpretare i
criptici messaggi del loro persecutore in un tempo stabilito a priori.
Se il compito del profiler
consiste nel mimare il pensiero del killer per prevenirne le mosse e giungere
alla sua cattura, l'assassino svolge qui il lavoro inverso: si mette nella
mente degli agenti per sopprimerli meglio. Il film stesso si configura come un
perverso gioco di ruolo in cui il protagonista è costretto ad entrare nella
mente e nella pelle dell'antagonista, diventa un videogame in prima persona in
cui si è contemporaneamente preda e predatore, mentre lo spettatore salta da un
papabile sospetto all'altro a seconda delle indicazioni che riceve.
Il regista si diverte in rapide quanto spietate soppressioni
degli aspiranti profiler, cui invariabilmente segue la chiosa dei sopravvissuti
che, a posteriori, sottolineano l'evidenza della causa della morte del collega,
quindi sfornano teorie di psicanalisi rapida per identificare il colpevole,
sondano i rispettivi passati per capire quale trauma avrebbe potuto causare un
comportamento deviante, sfruttano il laboratorio tecnologico a disposizione per
analizzare tracce e residui: il film ricrea quindi un palinsesto televisivo in
cui fiction (Profiler, C.S.I., Cold case per citare i più
evidenti) e reality si mescolano in uno show di cui lo spettatore privilegiato
(assimilabile al conduttore televisivo, che detta le regole, oltre che al
semplice pubblico, che guarda e tifa votando) è l'assassino, e questi è tanto
più compiaciuto quanto più riuscito è l'omicidio (con la relativa messinscena),
la cui misura è il terrorizzato stupore che ne consegue: il sadismo implicito
di tutti i giochi al massacro delle tv generaliste si evidenzia e si amplifica,
ma non cambia molto di senso.
Senza pretendere di sconfinare nel metatesto o nella
"mise en abyme" del mezzo televisivo con le sue derive spettacolari e
ciniche degenerazioni, il film è una gustosa serie B che non tralascia barlumi
di intelligenza critica, già presenti in sceneggiatura ma anche assecondati da
una regia che sa stare al gioco.
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