Con The jacket si
può constatare che gli americani stanno ormai iniziando ad interessarsi,
cinematograficamente parlando, al conflitto in Iraq, anche se è solo il primo
(1991), anche se la guerra rimane soltanto un pretesto per raccontare la strana
storia di un reduce ferito in azione.
Non ci sono infatti valenze
strettamente politiche in questo film dell'inglese John Maybury ma molte
implicazioni psicanalitiche, già assaporate nel precedente Love is the devil,
delirio sessual-pittorico su Francis Bacon. Come la pallottola che lo ferisce, lo
spettatore entra direttamente nel cranio del protagonista, si aggira tra
sinapsi interrotte, ricordi, allucinazioni, proiezioni nel futuro o salti nel
passato, e la guerra si risolve in uno zapping forsennato tra immagini di
repertorio e reperti mnemonici del personaggio.
Al di là delle grandi linee
della trama, che finiscono per chiarirsi, molti elementi rimangono volutamente
irrisolti e contraddittori, tanto che ogni ipotesi che lo spettatore potrebbe
fare per darsi delle risposte sembra essere valida all'uscita dalla sala
oscura. Come oscuro è il percorso del protagonista, ferito in guerra (dove
muore una prima volta) poi accusato di omicidio, quindi sottoposto a cure
sadiche in un istituto per malati di mente, in seguito smarrito sul confine del
Canada in un futuro in cui è già morto, pertanto costretto ad indagare sulle
ragioni del proprio (secondo) decesso, scoprendo insieme un'inedita voglia di
vita e libertà dal destino imposto. Il film si addentra così in pericolosi meandri
filosofico-fantascientici, tra universi paralleli e paradossi temporali a cui il
regista sceglie di non dare una definizione razionale, prediligendo una valenza
psico-poetica o metaforica, tinta di melò esistenziale. Con pochi personaggi,
ma tutti ricorrenti e presenti in differenti situazioni temporali e a diverse
età anagrafiche, Maybury si addentra in un pericoloso limbo onirico di sapore
lynchano in cui nessuno è del tutto chi sembra e il caso rimane il più cinico dei
personaggi, ma non restituisce il fascino perverso che emana della
cinematografia dell'autore di Mulholland Drive e, alla fine, lascia lo
spettatore interdetto ma non rapito, confuso più che affascinato, nel dubbio di
aver assistito ad un flash-forward in punto di morte, un memento mori
dilatato e triplicato, al delirio di onnipotenza del protagonista, oppure al
delirio di strafottenza di un regista che trasforma i loculi dell'obitorio in
ambienti amniotici, i bambini iracheni in assassini disperati e, insieme,
piccole vittime decerebrate.
Rimangono in mente la
bravura ambigua di Adrien Brody, che alterna delicatezza e inquietante potenza,
l'avvenenza della Knightley, la presenza, quasi iconografica, di Jennifer Jason
Leigh, Kris Kristofferson o Kelly Lynch. E le nevi di un inverno ghiacciato e
desolante che sembra inalterabile, mentre Iggy Pop, sui titoli di coda, rifà We
have all the time in the world, alludendo forse al tempo necessario per dipanare
le fila del film.
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