Inizia ex-abrupto J. Edgar di Clint Eastwood, senza
perdere tempo in ipocrite presentazioni o inutili introduzioni,
immergendosi immediatamente nella mente del protagonista e padrone
della narrazione. Entriamo subito nel film mentre l’onnipotente
padrone dell’Fbi per mezzo secolo è intento a dettare le
proprie preziose memorie e a riscrivere la storia, privata e pubblica.
Eppure Eastwood si prende tutto il tempo per circoscrivere e
individuare l’effettivo soggetto del film, per allontanare gli
orpelli e le pesantezze del biopic e stringere sul personaggio e sul
coacervo di contraddizioni che nasconde. Così la recitazione di
Di Caprio, normalmente tormentata, si fa interiore e rabbiosamente
controllata, mentre J. Edgar procede quasi altero per rivelarsi,
attraverso una lenta combustione, soltanto sul finale, in
un’epifania musicale di pochissime note al pianoforte che
accendono il fuoco della verità intima del personaggio e del suo
ritratto.
La narrazione continua a spostarsi tra il movimentato passato,
raccontato ai cangianti trascrittori del proprio memoriale, e il
presente dell’inazione di un anziano Hoover. Ad interlocutori
mobili, costantemente trasferiti perché sospetti di
inaffidabilità, l’anziano reggente dell’Fbi confida
la storia di un direttore e, sullo sfondo, di un’America che,
poco alla volta, l’eroe narrante ha plasmato secondo le proprie
esigenze. Claustrofobico e buio, il film si rinchiude nelle dimore del
protagonista, nella casa avita della madre castratrice e
nell’ufficio al Bureau, unico lembo di autogestione e illusione
ben coltivata di onnipotenza. Come Citizen Kane anche J. Edgar racconta
un dissesto affettivo mai placato dal successo lavorativo, e continua
l’immaginario del paranoico frustrato che Di Caprio aveva
già incarnato con esuberanza in The Aviator di Scorsese, ancora
memore di Welles.
Anticomunista imperterrito e moralista irrefrenabile, Hoover si
è sentito investito dal sacro impegno di salvaguardare la
Nazione da ogni deviazione, si vuole incarnazione del partigiano unico
della Costituzione, da difendere da ogni cedimento, anche cancellando
la democrazia. Imperatore senza macchia né impero, Hoover
recensisce ogni debolezza per costituire dossier compromettenti con i
quali fare leva, nei momenti più opportuni, per continuare il
proprio dominio e coltivare il prestigio personale.
Il film vive tutto nell’inaccettabile contraddizione del
personaggio di voler essere il paladino della società americana
classica e la sua incapacità a gestire le pulsioni, la vergogna
stessa dell’amore e l’ipotesi del sesso, soprattutto nella
sua accezione anticonformista così vituperata, perseguitata e
condannata negli altri perché motivo fondante di ogni ricatto.
Così J. Edgar si fa biografia del feticcio, di
un’illusione coordinata ad arte nella creazione di memorie
fallaci, di verità pettinate, di rivelazioni mascherate. La vita
di Hoover è la costruzione di un’immagine totale che si
vorrebbe veritiera perché più adeguata al ruolo e
all’impegno profuso per decenni per difendere una certa idea di
società, mai consapevole della propria evoluzione. Perché
il creatore del moderno Fbi ha sempre forzato la storia nei ristretti
ambiti delle proprie frustrazioni, ha costretto la verità nei
vincoli delle personali ossessioni, l’ha travestita da pudica
valorosa per nasconderne la naturale trasformazione.
Quando la macchina da presa penetra nell’alcova del Direttore
ormai defunto, stramazzato al suolo accanto al letto, il suo occhio
scandaglia il trionfo del feticcio di una cupa camera piena di specchi
e di nudi maschili, concedendosi l’unica intrusone nel mondo
privato di J. Edgar Hoover, a tutti, e a sé stesso, sempre
celato. E il quel momento il film si smaschera dolente melò di
un amore negato, di una affettività nascosta e mal vissuta per
manifesta incompatibilità con la convinta illusione coltivata
dal protagonista, di netto stracciata dal regista che mai condanna ma
osserva e compatisce.
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