L'apparenza inganna. Tutto il film è costruito sulle false
apparenze, sulla divergenza tra il visibile e il vero, in un costante gioco di
ruoli e di menzogne a prima vista veritiere, tra il mostrato ed il narrato, il
resoconto dettagliato di un colpo in banca e la realtà americana che traspare
dalla finzione, le contraddizioni del tempo e la linearità del racconto.
E' un film sottile, ludico nel tono e nello stile, dove
Lee recupera gli stilemi, visivi e registici (personaggi fermi su carrelli,
carrellate con controzoomate, un sottotesto musicale costantemente spalmato
lungo il film) che caratterizzano il suo cinema e li condisce di ironia,
sottolinea l'artificiosità di una regia imponente, marcata, minuziosa nel mimare
la realtà con dovizia di dettagli secondari resi significativi, insinua dubbi
sui tralicci portanti della visione, inserisce un'acuta critica del sistema
mentre finge di piegarsi alle regole del mercato e dello show business di un
film su commissione. Tutto è finzione in Inside man, esistenziale,
sociale, narrativa, cinematografica, cronologica (il presente dell'azione è in
realtà un prolungato flash-back). E dietro il paravento delle apparenze
esponenzialmente moltiplicate, si rivela il turbamento di un'America (e una
città) intimamente confusa, pragmatica ed efficiente ma facilmente incline a
lasciarsi guidare da ciò che vede, senza ponderare conseguenze o turbarsi delle
proprie contraddizioni. Così la messa in sicurezza delle strade attorno alla banca
è dettagliata in ogni aspetto, si articola nei particolari di una prassi
poliziesca che frana nell'inefficienza. Si espletano procedure politicamente
corrette (le donne devono essere perquisite da agenti femmina) ma
inavvertitamente ogni straniero è un arabo, anche se è Sihk, e rischia il
linciaggio, l'inglese britannico è un accento strano, mentre i veri rapinatori
si insinuano tra gli ostaggi e si dileguano, oppure si nascondono nel cuore
stesso del sistema.
New York è un melting pot lasciato troppo a lungo sul
fuoco, la città progressista che l'attentato alle torri gemelle ha restituito
allo stato brado e ad un caos in fermento dove le comunità nazionali, razziali,
sociali e politiche hanno compartimenti stagni tra cui non c'è comunicazione,
se non casuale e imposta dalle circostanze. I corpi e le lingue usano codici
variabili, comprensibili solo entro una ristretta cerchia. I ragazzi si
assuefano alla violenza realistica dei videogiochi, più istigazione che
catarsi, all'insegna del motto del rapper 50 Cent (Get rich or die trying)
assunto a regola di vita assoluta e senza sfumature, tanto da rimanere
indifferenti anche di fronte ad una rapina a mano armata.
Il plot stesso è un macroscopico e sardonico McGuffin
che traveste di allusioni cinematografiche (Un pomeriggio di un giorno da
cani, esplicitamente citato dai personaggi) una sostanza differente (Munich,
che viene alluso), rompe la continuità temporale con salti avanti e indietro,
propone un finale da blockbuster che la narrazione poi nega se non come
variante ipotetica. La regia di Lee sfrutta ogni sotterfugio possibile, senza
gratuita furbizia, solo con l'arguzia di chi ha consapevolmente strutturato uno
spettacolo polisemico, ricco e divertente, concluso ma non consolatorio, che
nasconde dietro alla correttezza formale dolorose insicurezze, allinea efficaci
schizzi di personaggi senza pesantezze introspettive e con la rapidità
ritrattistica della serialità televisiva.
La malinconia de La 25° ora si traveste per
trascinare lo spettatore in un vorticoso giro di giostra, ma àncora solidamente
il film al tempo presente e alla sua disarmonia costante. La regia e la
narrazione rendono gli spettatori e i personaggi indifferentemente ostaggi e
comparse, attori di ruoli variabili a seconda del punto di vista, ma tutti
testimoni della fine di un certo sogno americano, delle macerie di un progetto
sociale di fronte al cui crollo è infine inutile porsi domande morali, mentre è
meglio sorridere con consapevole tristezza.
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