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di antonio fabbri

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L'IMBARAZZO DELL'ORIGINALITA'
(1993)

L'esigenza di confrontarsi e dialogare apertamente con uno spettatore avvertito è una costante di molto cinema americano contemporaneo. Questo spettatore è una sorta di evoluzione e banalizzazione del vecchio cinefilo che, perdute le peculiari caratteristiche feticistiche e rituali per l'avvento demistificatorio del piccolo schermo, si muove ormai con agilità e leggerezza nel vasto territorio del passato cinematografico, per il quale non prova più nessuna timorosa soggezione, nessun reverenziale culto per immagini diventate quotidiane. E' uno spettatore non più ingenuo, che ben poche novità, soprattutto nei contenuti, si aspetta dai film che vede al cinema. Caduto l'asso nella manica della possibilità di sorprendere, il cinema punta allora decisamente sulla evidente abilità dello spettatore di ritrovare nel nuovo il già visto e di stabilire collegamenti, agire quindi attivamente con la pellicola stessa sulla base di uno schema spesso largamente previsto e costruito ad hoc: coscientemente, il divertimento è trasferito dalla sorpresa al riconoscimento , dalla novità alla ripetizione, a variazioni su temi noti e già dati.
Tutto ciò non ha niente a che vedere con un generico allargamento della cultura ma direttamente dipende dalla maggiore divulgazione dei film attraverso il loro quotidiano consumo in ambito domestico: è la logica conseguenza di un innalzamento del generale livello di alfabetizzazione cinematografica. All'interno di un mercato e di un'attività produttiva che sin dalle origini hanno ben differenziato e con precisione catalogato i generi di appartenenza dei singoli film, l'industria cinematografica statunitense non poteva far a meno di tener conto del fatto che i suoi prodotti ormai si rivolgono a spettatori comunque smaliziati, sebbene spesso giovanissimi, capaci di cogliere autonomamente nessi e riferimenti, e ha finito con lo sfruttare questa consapevolezza costruendo pellicole che esaltano e portano sfacciatamente alla ribalta questo dato di fatto: è nata così quella che è stata definita la "génération Rank-Xerox" (1).
Esasperazione del 'cinema di riferimento', del quale fa già parte l'antichissima distinzione per generi, è senza dubbio il sequel il quale non rimanda però più ad un certo filone cinematografico (pur facendone a volte parte integrante) ma, addirittura, ad un singolo film da cui, solitamente, ricava stile, temi e personaggi. Il sequel, appunto seguito seriale di un primo film di successo, è decisamente passato da una condizione di eccezionalità alla prassi corrente, pressoché generalizzata (e che finisce col contagiare anche certa produzione europea). conseguenza della stessa poetica del riferimento, è il concetto di remake, riproposta e rifacimento di un film precedente, riprodotto letteralmente o con l'adeguamento del plot originale ad una diversa ambientazione. In entrambi i casi, il punto di partenza e di costante confronto è nel passato cinematografico e, più specificamente, in un singolo film, riscritto o riletto in termini contemporanei e 'nuovi'. Nel suo consapevole rimando al passato, il cinema americano denuncia e consuma il suo caratteristico imbarazzo nei confronti dell'originalità; è per questo che un film come Ritorno al futuro ne diventa il significativo emblema nel suo tentativo, peraltro riuscitissimo, di crearsi una trama originale all'interno di un soffocante cumulo di materiale cinematografico di riporto (2).
La seconda parte della trilogia si presenta come attiva e funzionante drammatizzazione della sua stessa identità e definizione: il secondo tempo del film è un perfetto manuale di messinscena ed in sceneggiatura della teoria e pratica del sequel. Marty McFly, muovendosi avanti ed indietro nel tempo, attorno al primo film, è infine costretto ad entrarvi fisicamente. Marty non può agire liberamente all'interno del primo Ritorno al futuro perché ne cambierebbe l'andamento e provocherebbe un paradosso che porterebbe all' "annientamento dell'universo", o meglio, dell'universo di riferimento del film di cui anche lui è parte. L'alterazione indebita di materiale preesistente, convenzionalmente accettato come valido (il primo film), inficierebbe ogni sua diretta conseguenza (il seguito), che cesserebbe di esistere. Marty così, non solo deve contrastare il cattivo (che nei tre film è sempre lo stesso, per una grottesca esagerazione del principio di serialità), ma deve anche evitare il suo alter ego in quanto attore del primo film. Si tratta quindi di una parossistica esasperazione del concetto stesso di sequel diventato contenuto, tema del film, con ovvi effetti esilaranti, funzionanti proprio nell'incessante riferimento all'episodio precedente (3): Marty deve muoversi con estrema circospezione nel film già fatto per trovarvi quegli spazi ancora liberi che gli permettano di intervenire autonomamente senza cambiare niente, di imbastire trama nuova parallela ma continuatamente intersecantesi con l'altra: egli deve scegliere tra le infinite varietà di film -e di  presenti- possibili proprio quella che nulla effettivamente altera del passato.
Anche l'estetica del remake fa parte integrante di Ritorno al futuro, vi si sprecano rimandi ai film degli anni Cinquanta, alla fantascienza, al genere mitologico del western; vi si ritrovano precise citazioni di altri film, l'uso di situazioni tipiche, di luoghi comuni, tutti costantemente tendenti all'eccesso, all'aggrovigliamento caricaturale. Il primo tempo della seconda parte del film trasporta ancora una volta un concetto cinematografico a livello narrativo in quanto la trama del primo film viene ripetuta identica, con sottili o ironicamente enormi variazioni, rimanendo comunque fortemente identificabile.
Ciò che allora Ritorno al futuro si rivela essere , è un movimento nello spazio cinematografico, mascherato e reso plausibile dallo spostamento nel tempo. Nella terza parte infatti, Marty si proietta nel passato attraverso uno schermo cinematografico (uno specchio di Alice) per piombare nel più classico inseguimento tra indiani e cowboy: Zemeckis organizza un viaggio nel mondo dei luoghi comuni americani, e non solo cinematografici, uno spazio con delle coordinate ben riconoscibili da parte dello spettatore, e tale, quindi,  da coinvolgerlo nel gioco di assonanze e somiglianze. Ritorno al futuro saccheggia e fa un uso esasperato di ogni possibile codice di riferimento, portandolo sino alle più estreme conseguenze, e i personaggi diventano solo pretesti narrativi (veicoli, come la macchina del tempo), indispensabili però per movimentare e dare credibilità all'insieme, così sapientemente costruito sull'alternanza tra ripetizione ed innovazione, sulla prevedibile sorpresa della reiterazione. La bravura del regista e del suo sceneggiatore  è nel saper modulare con intelligenza, arguzia, infine originalità, ogni variazione sul medesimo tema. E in effetti, l'unica trama impossibile tra le tante  ipotizzabili in mezzo alle quali Marty si muove, è quella realmente, totalmente imprevedibile, quella completamente nuova ed originale. Le varie complicazioni narrative che scaturiscono dal paradosso temporale non funzionano infatti che da conferma di uno statu quo intimamente inalterabile, una molteplicità di apparenze che cela l'invariabilità della sostanza.
I tre capitoli del Ritorno al futuro -titolo estremamente ironico, soprattutto per la seconda e terza parte- offrono anche  l'occasione per una presa di coscienza della generalizzata immutabilità (anche) cinematografica americana: personaggi sempre identici si ritrovano nello stesso posto coinvolti in situazioni sostanzialmente analoghe (4). E' un film (uno solo perché il terzo confluisce nel primo per continuarlo e concluderlo) estremamente emblematico di un cinema che ha  il suo futuro pesantemente già scritto nel passato, del quale da una summa ed una ricapitolazione rivelandone il modus operandi; è un film che constata, sottolinea e sfrutta la consapevolezza della impossibilità di un presente (e di un futuro originale). Il cinema, cioè, è tutto già scritto e visto.
Uscito nel corso del 1990 e passato sostanzialmente inosservato, Alla ricerca dell'assassino di Karel Reisz è un thriller atipico, che rientra con le dovute distanze all'interno del cinema di riferimento. Il film ci permette di seguire le tracce di un omicida noto a tutti e dichiarato sin quasi dall'inizio, in compagnia di un Nick Nolte dimagrito ed invecchiato, stupito spettatore di una realtà sospetta e in cerca di una verità cangiante ed ambigua. Il film ha tutti gli elementi di un thriller tradizionale: un caso poliziesco narrativamente trainante con un assassinio sospetto ed un innocente in prigione, una donna misteriosa, un ex-poliziotto diventato secondo consuetudine investigatore privato, l'ovvio coinvolgimento sentimentale tra i due. Il film segue fedelmente il progredire delle indagini, ha un montaggio piuttosto rapido, le scene si succedono velocemente e la musica sottolinea abilmente i momenti di tensione. Il risultato è un thriller costruito secondo le regole eppure deludente ed inefficace, carente in suspense, emozione ed azione e che si conclude con toni da commedia, da farsa anzi, commentati da un'ironica musichetta che rivela, nell'ultima scena, come il film non sia che un consapevole gioco con i luoghi comuni del 'genere'. I veli cadono completamente proprio quando anche la sconfitta del poliziotto si è resa palese: egli se ne va dalla festa a cui tutti partecipano, la macchina da presa si alza su un dolly per lasciarlo passare ed insieme inquadrare interamente la casa del giudice che non porterà giustizia.
Quella chiara chiave di lettura posta alla fine incita a ripercorrere tutto il film alla ricerca di elementi che la confermino. Così si nota che le inquadrature spesso contengono elementi dissonanti, stridenti con il loro contenuto effettivo: oggetti confinati in un angolo o sullo sfondo (giocattoli, pacchiane e colorate statuine religiose, insegne al neon che si riflettono sui vetri della macchina mentre vi si svolge un dialogo serio), o addirittura violentemente esposti in primissimo piano, come il calice ed il messale sull'altare della chiesa, e tali, perché tagliati e così evidenti, da rendere 'sbagliata' l'inquadratura. Vi è poi la presenza di piani superflui, non di semplice raccordo e contrari quindi alla tesa sinteticità del thriller, inquadrature gratuitamente sorprendenti (la macchina stranamente inclinata sul piano stradale in discesa). sono tutti fattori che dissipano la tensione e dirottano lo sguardo su particolari accessori, che accennano alla caricatura (5).
L'ambientazione non metropolitana allontana l'atmosfera del thriller: calando l'azione nella provincia americana, vista altrove come luogo di desolate e sottaciute depravazioni (Velluto blu, ad esempio), ne fa scaturire un'aria da abile complotto di famiglia che sembra avvicinare il film ad un classico di divertito cinismo quale è La congiura degli innocenti. Alla ricerca dell'assassino è un thriller rustico, come il suo protagonista che vive in campagna lontano dalla città, estraneo a quel mondo,  che gioca con il cane, si muove su una vecchia fuoristrada anch'essa goffa e sproporzionata. Nolte, con la sua recitazione molto 'fisica' e priva di sfumature, crea un impaccio, un senso di imbarazzo che è perfettamente intonato al personaggio di quest'eroe beffato. Egli è spesso ripreso a rimuginare sul caso che lo assilla ossessivamente, ingarbugliato dall'incomprensibile ambiguità di Angela, sorpreso da quello che vive e scopre, fino alla fine illuso di poter risolvere l'enigma, convinto addirittura di poter finalmente far giustizia e ripulire interamente la città. Ma la verità è rivelata a bocconcini fuorvianti e contraddittori dalla donna che lo trascina in opposte direzioni facendogli perdere l'orientamento ed il senso critico: totalmente manovrato da lei, O'Toole esegue le sue istruzioni senza in realtà capirle, comportandosi come il suo stesso cane, sempre pronto a riportare indietro il bastone lanciato lontano e ricominciare daccapo quel gioco inconcludente. Personaggio ad una dimensione, sfruttato proprio per la  sua rozza e sincera ingenuità, si confronta con una donna sospetta sin dai suoi tentativi -riusciti- di seduzione, da quelle avances di poco successive alla confessione del purificatore voto di castità, così ostentate da apparire ridicole e che comunque riescono a far immediatamente soccombere O'Toole. Da quel momento, che si situa nei primi minuti del film, Angela agisce come l'indecifrabile demiurgo della storia, la quale avanza con l'aggiunta paratattica di elementi spesso incoerenti, con una verità che si modifica via via, a piacere, adeguandosi alle scoperte del detective guidate e corrette dalle informazioni della donna. Ciò dà alla tessitura del film un senso di tangibile precarietà, la sensazione di una continua improvvisazione. Debra Winger, ormai abituata a ruoli di doppio gioco, si adatta perfettamente alla parte della dark lady un po' vissuta ed invecchiata, offrendo stili di recitazione diversi a seconda delle esigenze del ruolo.
Reisz si diverte a prendersi gioco di alcuni dei più triti cliché  del thriller. La tipica sparatoria non c'è: O'Toole è costretto a nascondersi a causa di colpi esplosi da un posto ed una persona imprecisati, in realtà diretti ad una marmotta. Angela, per giustificare la palese contraddittorietà  delle sue affermazioni, ricorre alla finzione della schizofrenia, che viene spiegata come la conseguenza di un trauma precedente, espediente che risente, parodizzandolo, del facile psicologismo del cinema statunitense, dove spesso il momento di maggior tensione è nella spiegazione di un comportamento anomalo con la confessione catartica di una tragedia passata: il luogo comune cinematografico viene usato come ulteriore elemento attivo nella finzione del personaggio di Angela, il quale sembra un catalogo di tutti gli stereotipi noti (6).
E' l'eroe solitario, il generoso investigatore pronto a combattere per una giusta causa, l'emblema dell'America onesta non vince; vorrebbe ristabilire la giustizia ma è costretto a sottostare alla logica dei più (l'altra America) ed il promesso 'duello' con l'avvocato cattivo non ci sarà: il film si scioglie senza sangue, senza traumi: solo le illusioni di O'Toole sono state soppresse, l'eroe è stato fatto fesso. Everybody Wins, tutto si è aggiustato, e in fondo anche il buon poliziotto è riuscito nella missione affidatagli di liberare e salvare il ragazzo ingiustamente incriminato dell'omicidio. Quando i due alla fine si incontrano, O'Toole non sa che dirgli, e la scena, anche per la stretta di mano, diventa il passaggio di una staffetta: il detective è ora la vittima, il nuovo capro espiatorio, ma ne è ben consapevole e sopravvivrà.
Al pari di O'Toole nei confronti di Angela, anche lo spettatore  si trova di fronte a qualcosa di ambiguo, che si presenta in un modo senza esserlo realmente (il titolo italiano e lo stesso trailer in circolazione invitano a cercarvi un semplice e movimentato giallo); lo spettatore è stato ingannato e costretto a seguire per un'ora e mezza un film che non è mai veramente esistito o che si è rapidamente dissolto sotto i suoi occhi perché l'intenzione del regista è quella di fare una parodia seria di un genere noto, pur rimanendo di questi definiti limiti. Se il film è impaginato all'americana, correttamente, e sembra aver l'aspetto di un thriller, la sua sostanza è diversa: la vera rivelazione finale non è la scoperta dell'identità dell'assassino ma nello svelamento della vera natura ironica e beffarda del film stesso. Anch'esso, sebbene diversamente da Ritorno al futuro, si rivolge ad uno spettatore attento ed avvertito, consapevole delle regole e cosciente quindi della loro trasgressione, che rimanda ad un passato sedimentato di riferimenti cinematografici, ad una 'tradizione' messa in berlina e tradita. Everybody Wins, è un film che non pretende ne potrebbe funzionare ad un primo livello e la sola fruizione possibile è di secondo grado, prettamente intellettuale e non emotiva perché niente nel film riesce a trascinare lo spettatore.
Nel 1981 Lawrence Kasdan firma Brivido Caldo (Body Heat), un film noir in piena regola che ha il vantaggio di presentare una trama a grandi linee analoga a quella del film di Reisz permettendo un confronto. Una bella donna seduce e raggira un uomo, trascinandolo di peso in una vicenda poliziesca dalla quale viene travolto. Kathleen Turner è nel film una ricca e sofisticata dark lady che coinvolge William Hurt nell'omicidio del marito di cui l'amante alla fine risulterà l'unico colpevole: il film rappresenta un perfetto e preciso recupero (con qualche aggiornamento) di un genere cinematografico, i cui classici stilemi vengono sfruttati appieno dal regista per ricreare quella particolare e ben riconoscibile atmosfera che lo spettatore deve accettare in toto. In effetti, sia Brivido caldo che Alla ricerca dell'assassino spostano il loro centro d'interesse dalla trama, sostanzialmente prevedibile, alle modalità della narrazione. Se Kasdan si propone la riesumazione in odor di remake di certo cinema (mai comunque del tutto scomparso, sempre integrato parzialmente in trame diverse per un confluire dei vecchi rigidi generi cinematografici), Reisz al  contrario muove alla sua distruzione, che si attua mediante la progressiva vanificazione della qualità narrativa dei topoi. Lo spettatore, deluso dalla trama, non può che focalizzare la sua attenzione proprio sulle stesse stonature, quelle sfasature rispetto ad una ben nota norma che funzionano così da segnali e spronano alla ricerca della vera identità del film.  La semplice fascinazione narrativa non è più possibile, ed è proprio questa insoddisfacente capacità affabulatoria ad imporre allo spettatore uno scarto critico ed ironico, al quale però non è inizialmente preparato e che lo sorprende nel corso del film.
Questo annovera numerosi tentativi, volutamente fallimentari, in direzione di un coinvolgimento diretto dello spettatore, tentativi che nella loro infondatezza ne evidenziano l'essenza ironica (7). La storia non è altro che una metafora della continua frustrazione dello spettatore, alle prese con un film contraddittorio e difficilmente identificabile e catalogabile. Per comprenderlo, lo spettatore deve abdicare  al suo consueto e consunto  ruolo passivo per interagire con esso e saper recepire, decifrare e correttamente leggere i messaggi più o meno codificati in esso contenuti. Kasdan  vuole essere apprezzato per l'abilità con cui riesce a rievocare e dare nuovo vigore, eleganza e credibilità ad un cinema passato, Reisz, rivelando come spudorate mistificazioni simili convenzioni attenta all'essenza stessa dell'operazione di recupero. Egli costringe a veder quelle convenzioni nella loro vera natura di cliché usandole in funzione straniante, ciò che comporta nella visione l'intromissione di una nuova distanza obiettiva ed analitica. L'America del film non possiede più le classiche e comode distinzioni, le categorie perfettamente riconoscibili; la cittadina apparentemente  dignitosa ben nasconde la corruzione che vi serpeggia, ed il traffico di droga sembra essere l'ultima riconversione di un'industria ormai fiacca. Reisz guarda all'America attraverso il polemico disincanto di Arthur Miller (e il film è importante perché costituisce, dopo decenni di assenza, il suo ritorno al cinema), e allarga il suo discorso sull'apparenza e la verità applicandolo alla stessa struttura del film, prendendosi sul serio solamente in apparenza, in superficie, in realtà raccogliendo e sovrapponendo, per distorcerli e deviarli, numerosi luoghi comuni, cinematografici  e non.
Con Alla ricerca dell'assassino, Reisz si muove in un contesto di riconoscibile ripetizione, ma con un proposta polemica, l'invito al superamento del semplice luogo comune. Quel thriller sfatto ed inconcludente è in realtà il tentativo di oltrepassare i limiti che un genere si autoimpone. L'uso corrosivo che Reisz fa del luogo comune entro il film fa sì che l'unico film veramente impossibile, nel suo caso, sia quello prevedibile in cui tutti i cliché sono al loro posto e funzionanti, sebbene questo sembri sempre sul punto di realizzarsi.
Nel far ciò forse Reisz recupera parte dello spirito del "Free Cinema" inglese da cui ha preso le mosse, trapiantandolo nel sistema divistico e produttivo americano. Egli non si limita ad inserire nel suo discorso la ripetitività del cinema ma tenta di farla esplodere dimostrandone lo sterile esaurimento. non volendo inutilmente rammendare stremate e lise convenzioni. Vi è implicito nel suo tentativo anche l'intento di svecchiare lo spettatore, quello spettatore avvezzo ad un cinema di riferimento per il quale lo stereotipo rischia di diventare una claustrofobica forma mentis, un meccanismo che funziona assurdamente da aprioristico condizionamento.

NOTE.

1.     IANNIS KATSAHNIAS, Génération Rank-Xerox, "Cahiers du Cinéma", nn. 434 e 435, luglio-agosto e settembre 1990.
Abbiamo anche tenuto conto di  MARCELLO WALTER BRUNO, Critica atto impuro, "Segnocinema", n. 43, maggio 1990.
2.     L'esigenza di proporre continui sequel e remake deriva da una forte pigrizia drammaturgica, aggravata dallo scarso coraggio imprenditoriale dell'industria americana. Ma è una tendenza della cultura statunitense  nel suo insieme quella di essere naturalmente più incline al riciclaggio e decisamente refrattaria all'innovazione e all'originalità.
3.     In una scena del film, Marty viene messo k.o. da se stesso protagonista dell'altro film di cui una sequenza è visibile attraverso il riquadro (riquadro-schermo cinematografico o televisivo) della porta che Marty I sbatte in faccia a Marty II, il primo intervenendo nel secondo a complicarlo passando da sfondo a primo piano.
4.     Da ciò deriva anche la moltiplicazione cui è sottoposto Michael J. Fox in Ritorno al futuro II e III: vi diventa, di volta in volta, suo figlio, sua figlia, suo bisnonno.
5.     La limpida fotografia tende a dar rilievo all'ambientazione autunnale, alla ruggine spesso inquadrata o simbolicamente evidente, in tono con i colori delle costruzioni della cittadina, per poi dar spazio alla violenza cromatica della festa dove macchie di colore, sin lì sapientemente evitate o solo leggermente accennate, esplodono, ironicamente, nel momento della rivelazione.
6.     Reisz prende spudoratamente in giro lo spettatore. Prima di andare a letto con Angela, O'Toole telefona a casa, commentando la giornata e dicendo che non tarderà, conversazione che fa calare su di lui il sospetto di marito fedifrago, mentre in realtà è vedovo e vive con la sorella. Reisz continua a divertirsi uccidendo l'assassino proprio dopo che aveva deciso di confessare tutto, anche i loschi intrighi nascosti, e non lo fa sopprimere dai sicari degli uomini che sta per denunciare, ma morire suicida, in un banale incidente della strada. La logica stessa si sfalda nella assurda sequenza di personaggi strani che il film presenta, nel ricorrente elemento religioso (il fratello prete, la setta mistica dell'assassino e la sua aspirazione ad identificarsi con Dio -morirà infatti con le braccia allargate, come  crocifisso-, la presenza di Angela in chiesa, di molti oggetti di devozione in casa sua), che forse rimanda (ma quanto seriamente?) ad una superiore giustizia, più equa di quella casereccia ed accomodante di Highbury.
7.    La storia di Alla ricerca dell'assassino, inconcludente, con personaggi piuttosto schematici e pretestuosi è un abbassamento parodico dei topoi tradizionali del thriller; Brivido caldo, al contrario, li riprende seriamente, in una trama densa e drammatica.

     (tutti i testi sono proprietà di antonio fabbri)
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