L'esigenza di confrontarsi e dialogare
apertamente con uno spettatore avvertito è una costante di molto cinema
americano contemporaneo. Questo spettatore è una sorta di evoluzione e
banalizzazione del vecchio cinefilo che, perdute le peculiari caratteristiche
feticistiche e rituali per l'avvento demistificatorio del piccolo schermo, si
muove ormai con agilità e leggerezza nel vasto territorio del passato
cinematografico, per il quale non prova più nessuna timorosa soggezione, nessun
reverenziale culto per immagini diventate quotidiane. E' uno spettatore non più
ingenuo, che ben poche novità, soprattutto nei contenuti, si aspetta dai film
che vede al cinema. Caduto l'asso nella manica della possibilità di sorprendere,
il cinema punta allora decisamente sulla evidente abilità dello spettatore di
ritrovare nel nuovo il già visto e di stabilire collegamenti, agire quindi
attivamente con la pellicola stessa sulla base di uno schema spesso largamente
previsto e costruito ad hoc:
coscientemente, il divertimento è trasferito dalla sorpresa al riconoscimento ,
dalla novità alla ripetizione, a variazioni su temi noti e già dati.
Tutto ciò non ha niente a che vedere
con un generico allargamento della cultura ma direttamente dipende dalla
maggiore divulgazione dei film attraverso il loro quotidiano consumo in ambito
domestico: è la logica conseguenza di un innalzamento del generale livello di
alfabetizzazione cinematografica. All'interno di un mercato e di un'attività produttiva
che sin dalle origini hanno ben differenziato e con precisione catalogato i
generi di appartenenza dei singoli film, l'industria cinematografica
statunitense non poteva far a meno di tener conto del fatto che i suoi prodotti
ormai si rivolgono a spettatori comunque smaliziati, sebbene spesso
giovanissimi, capaci di cogliere autonomamente nessi e riferimenti, e ha finito
con lo sfruttare questa consapevolezza costruendo pellicole che esaltano e
portano sfacciatamente alla ribalta questo dato di fatto: è nata così quella
che è stata definita la "génération Rank-Xerox" (1).
Esasperazione del 'cinema di
riferimento', del quale fa già parte l'antichissima distinzione per generi, è
senza dubbio il sequel il quale non
rimanda però più ad un certo filone cinematografico (pur facendone a volte
parte integrante) ma, addirittura, ad un singolo film da cui, solitamente,
ricava stile, temi e personaggi. Il sequel,
appunto seguito seriale di un primo film di successo, è decisamente passato da
una condizione di eccezionalità alla prassi corrente, pressoché generalizzata
(e che finisce col contagiare anche certa produzione europea). conseguenza
della stessa poetica del riferimento, è il concetto di remake, riproposta e rifacimento di un film precedente, riprodotto
letteralmente o con l'adeguamento del plot
originale ad una diversa ambientazione. In entrambi i casi, il punto di
partenza e di costante confronto è nel passato cinematografico e, più
specificamente, in un singolo film, riscritto o riletto in termini
contemporanei e 'nuovi'. Nel suo consapevole rimando al passato, il cinema
americano denuncia e consuma il suo caratteristico imbarazzo nei confronti
dell'originalità; è per questo che un film come Ritorno al futuro ne
diventa il significativo emblema nel suo tentativo, peraltro riuscitissimo, di
crearsi una trama originale all'interno di un soffocante cumulo di materiale
cinematografico di riporto (2).
La seconda parte della trilogia si
presenta come attiva e funzionante drammatizzazione della sua stessa identità e
definizione: il secondo tempo del film è un perfetto manuale di messinscena ed
in sceneggiatura della teoria e pratica del sequel.
Marty McFly, muovendosi avanti ed indietro nel tempo, attorno al primo film, è
infine costretto ad entrarvi fisicamente. Marty non può agire liberamente
all'interno del primo Ritorno al futuro perché ne cambierebbe
l'andamento e provocherebbe un paradosso che porterebbe all'
"annientamento dell'universo", o meglio, dell'universo di riferimento
del film di cui anche lui è parte. L'alterazione indebita di materiale
preesistente, convenzionalmente accettato come valido (il primo film),
inficierebbe ogni sua diretta conseguenza (il seguito), che cesserebbe di
esistere. Marty così, non solo deve contrastare il cattivo (che nei tre film è
sempre lo stesso, per una grottesca esagerazione del principio di serialità),
ma deve anche evitare il suo alter ego
in quanto attore del primo film. Si tratta quindi di una parossistica
esasperazione del concetto stesso di sequel
diventato contenuto, tema del film, con ovvi effetti esilaranti, funzionanti
proprio nell'incessante riferimento all'episodio precedente (3): Marty deve
muoversi con estrema circospezione nel film già fatto per trovarvi quegli spazi
ancora liberi che gli permettano di intervenire autonomamente senza cambiare
niente, di imbastire trama nuova parallela ma continuatamente intersecantesi
con l'altra: egli deve scegliere tra le infinite varietà di film -e di presenti- possibili proprio quella che nulla
effettivamente altera del passato.
Anche l'estetica del remake fa parte integrante di Ritorno
al futuro, vi si sprecano rimandi ai film degli anni Cinquanta, alla
fantascienza, al genere mitologico del western;
vi si ritrovano precise citazioni di altri film, l'uso di situazioni tipiche,
di luoghi comuni, tutti costantemente tendenti all'eccesso,
all'aggrovigliamento caricaturale. Il primo tempo della seconda parte del film
trasporta ancora una volta un concetto cinematografico a livello narrativo in
quanto la trama del primo film viene ripetuta identica, con sottili o
ironicamente enormi variazioni, rimanendo comunque fortemente identificabile.
Ciò che allora Ritorno al futuro
si rivela essere , è un movimento nello spazio cinematografico, mascherato e
reso plausibile dallo spostamento nel tempo. Nella terza parte infatti, Marty
si proietta nel passato attraverso uno schermo cinematografico (uno specchio di
Alice) per piombare nel più classico inseguimento tra indiani e cowboy: Zemeckis organizza un viaggio
nel mondo dei luoghi comuni americani, e non solo cinematografici, uno spazio
con delle coordinate ben riconoscibili da parte dello spettatore, e tale,
quindi, da coinvolgerlo nel gioco di
assonanze e somiglianze. Ritorno al futuro saccheggia e fa un uso
esasperato di ogni possibile codice di riferimento, portandolo sino alle più
estreme conseguenze, e i personaggi diventano solo pretesti narrativi (veicoli,
come la macchina del tempo), indispensabili però per movimentare e dare
credibilità all'insieme, così sapientemente costruito sull'alternanza tra
ripetizione ed innovazione, sulla prevedibile sorpresa della reiterazione. La
bravura del regista e del suo sceneggiatore
è nel saper modulare con intelligenza, arguzia, infine originalità, ogni
variazione sul medesimo tema. E in effetti, l'unica trama impossibile tra le
tante ipotizzabili in mezzo alle quali
Marty si muove, è quella realmente, totalmente imprevedibile, quella
completamente nuova ed originale. Le varie complicazioni narrative che
scaturiscono dal paradosso temporale non funzionano infatti che da conferma di
uno statu quo intimamente
inalterabile, una molteplicità di apparenze che cela l'invariabilità della
sostanza.
I tre capitoli del Ritorno al futuro
-titolo estremamente ironico, soprattutto per la seconda e terza parte- offrono
anche l'occasione per una presa di
coscienza della generalizzata immutabilità (anche) cinematografica americana:
personaggi sempre identici si ritrovano nello stesso posto coinvolti in
situazioni sostanzialmente analoghe (4). E' un film (uno solo perché il terzo
confluisce nel primo per continuarlo e concluderlo) estremamente emblematico di
un cinema che ha il suo futuro
pesantemente già scritto nel passato, del quale da una summa ed una ricapitolazione rivelandone il modus operandi; è un film che constata, sottolinea e sfrutta la
consapevolezza della impossibilità di un presente (e di un futuro originale).
Il cinema, cioè, è tutto già scritto e visto.
Uscito nel corso del 1990 e passato
sostanzialmente inosservato, Alla ricerca dell'assassino di Karel Reisz
è un thriller atipico, che rientra
con le dovute distanze all'interno del cinema di riferimento. Il film ci
permette di seguire le tracce di un omicida noto a tutti e dichiarato sin quasi
dall'inizio, in compagnia di un Nick Nolte dimagrito ed invecchiato, stupito
spettatore di una realtà sospetta e in cerca di una verità cangiante ed
ambigua. Il film ha tutti gli elementi di un thriller tradizionale: un caso poliziesco narrativamente trainante
con un assassinio sospetto ed un innocente in prigione, una donna misteriosa,
un ex-poliziotto diventato secondo consuetudine investigatore privato, l'ovvio
coinvolgimento sentimentale tra i due. Il film segue fedelmente il progredire
delle indagini, ha un montaggio piuttosto rapido, le scene si succedono
velocemente e la musica sottolinea abilmente i momenti di tensione. Il
risultato è un thriller costruito secondo le regole eppure deludente ed
inefficace, carente in suspense, emozione ed azione e che si conclude con toni
da commedia, da farsa anzi, commentati da un'ironica musichetta che rivela,
nell'ultima scena, come il film non sia che un consapevole gioco con i luoghi
comuni del 'genere'. I veli cadono completamente proprio quando anche la
sconfitta del poliziotto si è resa palese: egli se ne va dalla festa a cui
tutti partecipano, la macchina da presa si alza su un dolly per lasciarlo passare ed insieme inquadrare interamente la
casa del giudice che non porterà giustizia.
Quella chiara chiave di lettura posta
alla fine incita a ripercorrere tutto il film alla ricerca di elementi che la
confermino. Così si nota che le inquadrature spesso contengono elementi
dissonanti, stridenti con il loro contenuto effettivo: oggetti confinati in un
angolo o sullo sfondo (giocattoli, pacchiane e colorate statuine religiose,
insegne al neon che si riflettono sui vetri della macchina mentre vi si svolge
un dialogo serio), o addirittura violentemente esposti in primissimo piano,
come il calice ed il messale sull'altare della chiesa, e tali, perché tagliati
e così evidenti, da rendere 'sbagliata' l'inquadratura. Vi è poi la presenza di
piani superflui, non di semplice raccordo e contrari quindi alla tesa
sinteticità del thriller,
inquadrature gratuitamente sorprendenti (la macchina stranamente inclinata sul
piano stradale in discesa). sono tutti fattori che dissipano la tensione e
dirottano lo sguardo su particolari accessori, che accennano alla caricatura
(5).
L'ambientazione non metropolitana
allontana l'atmosfera del thriller:
calando l'azione nella provincia americana, vista altrove come luogo di
desolate e sottaciute depravazioni (Velluto blu, ad esempio), ne fa
scaturire un'aria da abile complotto di famiglia che sembra avvicinare il film
ad un classico di divertito cinismo quale è La congiura degli innocenti.
Alla ricerca dell'assassino è un thriller
rustico, come il suo protagonista che vive in campagna lontano dalla città,
estraneo a quel mondo, che gioca con il
cane, si muove su una vecchia fuoristrada anch'essa goffa e sproporzionata.
Nolte, con la sua recitazione molto 'fisica' e priva di sfumature, crea un
impaccio, un senso di imbarazzo che è perfettamente intonato al personaggio di
quest'eroe beffato. Egli è spesso ripreso a rimuginare sul caso che lo assilla
ossessivamente, ingarbugliato dall'incomprensibile ambiguità di Angela,
sorpreso da quello che vive e scopre, fino alla fine illuso di poter risolvere
l'enigma, convinto addirittura di poter finalmente far giustizia e ripulire
interamente la città. Ma la verità è rivelata a bocconcini fuorvianti e
contraddittori dalla donna che lo trascina in opposte direzioni facendogli
perdere l'orientamento ed il senso critico: totalmente manovrato da lei,
O'Toole esegue le sue istruzioni senza in realtà capirle, comportandosi come il
suo stesso cane, sempre pronto a riportare indietro il bastone lanciato lontano
e ricominciare daccapo quel gioco inconcludente. Personaggio ad una dimensione,
sfruttato proprio per la sua rozza e
sincera ingenuità, si confronta con una donna sospetta sin dai suoi tentativi
-riusciti- di seduzione, da quelle avances di poco successive alla confessione
del purificatore voto di castità, così ostentate da apparire ridicole e che
comunque riescono a far immediatamente soccombere O'Toole. Da quel momento, che
si situa nei primi minuti del film, Angela agisce come l'indecifrabile demiurgo
della storia, la quale avanza con l'aggiunta paratattica di elementi spesso
incoerenti, con una verità che si modifica via via, a piacere, adeguandosi alle
scoperte del detective guidate e
corrette dalle informazioni della donna. Ciò dà alla tessitura del film un
senso di tangibile precarietà, la sensazione di una continua improvvisazione.
Debra Winger, ormai abituata a ruoli di doppio gioco, si adatta perfettamente
alla parte della dark lady un po'
vissuta ed invecchiata, offrendo stili di recitazione diversi a seconda delle
esigenze del ruolo.
Reisz si diverte a prendersi gioco di
alcuni dei più triti cliché del thriller. La tipica sparatoria non c'è:
O'Toole è costretto a nascondersi a causa di colpi esplosi da un posto ed una
persona imprecisati, in realtà diretti ad una marmotta. Angela, per
giustificare la palese contraddittorietà
delle sue affermazioni, ricorre alla finzione della schizofrenia, che
viene spiegata come la conseguenza di un trauma precedente, espediente che
risente, parodizzandolo, del facile psicologismo del cinema statunitense, dove
spesso il momento di maggior tensione è nella spiegazione di un comportamento
anomalo con la confessione catartica di una tragedia passata: il luogo comune
cinematografico viene usato come ulteriore elemento attivo nella finzione del
personaggio di Angela, il quale sembra un catalogo di tutti gli stereotipi noti
(6).
E' l'eroe solitario, il generoso
investigatore pronto a combattere per una giusta causa, l'emblema dell'America
onesta non vince; vorrebbe ristabilire la giustizia ma è costretto a sottostare
alla logica dei più (l'altra America) ed il promesso 'duello' con l'avvocato
cattivo non ci sarà: il film si scioglie senza sangue, senza traumi: solo le
illusioni di O'Toole sono state soppresse, l'eroe è stato fatto fesso. Everybody
Wins, tutto si è aggiustato, e in fondo anche il buon poliziotto è riuscito
nella missione affidatagli di liberare e salvare il ragazzo ingiustamente
incriminato dell'omicidio. Quando i due alla fine si incontrano, O'Toole non sa
che dirgli, e la scena, anche per la stretta di mano, diventa il passaggio di
una staffetta: il detective è ora la vittima, il nuovo capro espiatorio, ma ne
è ben consapevole e sopravvivrà.
Al pari di O'Toole nei confronti di
Angela, anche lo spettatore si trova di
fronte a qualcosa di ambiguo, che si presenta in un modo senza esserlo
realmente (il titolo italiano e lo stesso trailer
in circolazione invitano a cercarvi un semplice e movimentato giallo); lo
spettatore è stato ingannato e costretto a seguire per un'ora e mezza un film
che non è mai veramente esistito o che si è rapidamente dissolto sotto i suoi
occhi perché l'intenzione del regista è quella di fare una parodia seria di un
genere noto, pur rimanendo di questi definiti limiti. Se il film è impaginato
all'americana, correttamente, e sembra aver l'aspetto di un thriller, la sua sostanza è diversa: la
vera rivelazione finale non è la scoperta dell'identità dell'assassino ma nello
svelamento della vera natura ironica e beffarda del film stesso. Anch'esso,
sebbene diversamente da Ritorno al futuro, si rivolge ad uno spettatore
attento ed avvertito, consapevole delle regole e cosciente quindi della loro
trasgressione, che rimanda ad un passato sedimentato di riferimenti
cinematografici, ad una 'tradizione' messa in berlina e tradita. Everybody
Wins, è un film che non pretende ne potrebbe funzionare ad un primo livello
e la sola fruizione possibile è di secondo grado, prettamente intellettuale e non
emotiva perché niente nel film riesce a trascinare lo spettatore.
Nel 1981 Lawrence Kasdan firma
Brivido Caldo (Body Heat), un film noir in piena regola che ha il vantaggio di presentare una trama a
grandi linee analoga a quella del film di Reisz permettendo un confronto. Una
bella donna seduce e raggira un uomo, trascinandolo di peso in una vicenda
poliziesca dalla quale viene travolto. Kathleen Turner è nel film una ricca e
sofisticata dark lady che coinvolge
William Hurt nell'omicidio del marito di cui l'amante alla fine risulterà
l'unico colpevole: il film rappresenta un perfetto e preciso recupero (con
qualche aggiornamento) di un genere cinematografico, i cui classici stilemi
vengono sfruttati appieno dal regista per ricreare quella particolare e ben
riconoscibile atmosfera che lo spettatore deve accettare in toto. In effetti, sia Brivido caldo che Alla ricerca
dell'assassino spostano il loro centro d'interesse dalla trama,
sostanzialmente prevedibile, alle modalità della narrazione. Se Kasdan si propone
la riesumazione in odor di remake di
certo cinema (mai comunque del tutto scomparso, sempre integrato parzialmente
in trame diverse per un confluire dei vecchi rigidi generi cinematografici),
Reisz al contrario muove alla sua
distruzione, che si attua mediante la progressiva vanificazione della qualità
narrativa dei topoi. Lo spettatore,
deluso dalla trama, non può che focalizzare la sua attenzione proprio sulle
stesse stonature, quelle sfasature rispetto ad una ben nota norma che
funzionano così da segnali e spronano alla ricerca della vera identità del
film. La semplice fascinazione
narrativa non è più possibile, ed è proprio questa insoddisfacente capacità
affabulatoria ad imporre allo spettatore uno scarto critico ed ironico, al
quale però non è inizialmente preparato e che lo sorprende nel corso del film.
Questo annovera numerosi tentativi,
volutamente fallimentari, in direzione di un coinvolgimento diretto dello
spettatore, tentativi che nella loro infondatezza ne evidenziano l'essenza
ironica (7). La storia non è altro che una metafora della continua frustrazione
dello spettatore, alle prese con un film contraddittorio e difficilmente
identificabile e catalogabile. Per comprenderlo, lo spettatore deve abdicare al suo consueto e consunto ruolo passivo per interagire con esso e
saper recepire, decifrare e correttamente leggere i messaggi più o meno
codificati in esso contenuti. Kasdan
vuole essere apprezzato per l'abilità con cui riesce a rievocare e dare
nuovo vigore, eleganza e credibilità ad un cinema passato, Reisz, rivelando
come spudorate mistificazioni simili convenzioni attenta all'essenza stessa
dell'operazione di recupero. Egli costringe a veder quelle convenzioni nella
loro vera natura di cliché usandole
in funzione straniante, ciò che comporta nella visione l'intromissione di una
nuova distanza obiettiva ed analitica. L'America del film non possiede più le
classiche e comode distinzioni, le categorie perfettamente riconoscibili; la
cittadina apparentemente dignitosa ben
nasconde la corruzione che vi serpeggia, ed il traffico di droga sembra essere
l'ultima riconversione di un'industria ormai fiacca. Reisz guarda all'America
attraverso il polemico disincanto di Arthur Miller (e il film è importante
perché costituisce, dopo decenni di assenza, il suo ritorno al cinema), e
allarga il suo discorso sull'apparenza e la verità applicandolo alla stessa
struttura del film, prendendosi sul serio solamente in apparenza, in
superficie, in realtà raccogliendo e sovrapponendo, per distorcerli e deviarli,
numerosi luoghi comuni, cinematografici
e non.
Con Alla ricerca dell'assassino,
Reisz si muove in un contesto di riconoscibile ripetizione, ma con un proposta
polemica, l'invito al superamento del semplice luogo comune. Quel thriller sfatto ed inconcludente è in
realtà il tentativo di oltrepassare i limiti che un genere si autoimpone. L'uso
corrosivo che Reisz fa del luogo comune entro il film fa sì che l'unico film
veramente impossibile, nel suo caso, sia quello prevedibile in cui tutti i cliché sono al loro posto e funzionanti,
sebbene questo sembri sempre sul punto di realizzarsi.
Nel far ciò forse Reisz recupera parte
dello spirito del "Free Cinema" inglese da cui ha preso le mosse,
trapiantandolo nel sistema divistico e produttivo americano. Egli non si limita
ad inserire nel suo discorso la ripetitività del cinema ma tenta di farla
esplodere dimostrandone lo sterile esaurimento. non volendo inutilmente
rammendare stremate e lise convenzioni. Vi è implicito nel suo tentativo anche
l'intento di svecchiare lo spettatore, quello spettatore avvezzo ad un cinema
di riferimento per il quale lo stereotipo rischia di diventare una
claustrofobica forma mentis, un
meccanismo che funziona assurdamente da aprioristico condizionamento.
NOTE.
1. IANNIS KATSAHNIAS, Génération
Rank-Xerox, "Cahiers du Cinéma", nn. 434 e 435, luglio-agosto e
settembre 1990.
Abbiamo anche tenuto conto di
MARCELLO WALTER BRUNO, Critica atto impuro,
"Segnocinema", n. 43, maggio 1990.
2. L'esigenza di proporre
continui sequel e remake deriva da una forte pigrizia
drammaturgica, aggravata dallo scarso coraggio imprenditoriale dell'industria
americana. Ma è una tendenza della cultura statunitense nel suo insieme quella di essere
naturalmente più incline al riciclaggio e decisamente refrattaria
all'innovazione e all'originalità.
3. In una scena del film,
Marty viene messo k.o. da se stesso protagonista dell'altro film di cui una
sequenza è visibile attraverso il riquadro (riquadro-schermo cinematografico o
televisivo) della porta che Marty I sbatte in faccia a Marty II, il primo
intervenendo nel secondo a complicarlo passando da sfondo a primo piano.
4. Da ciò deriva anche la
moltiplicazione cui è sottoposto Michael J. Fox in Ritorno al futuro II
e III: vi diventa, di volta in volta, suo figlio, sua figlia, suo
bisnonno.
5. La limpida fotografia
tende a dar rilievo all'ambientazione autunnale, alla ruggine spesso inquadrata
o simbolicamente evidente, in tono con i colori delle costruzioni della
cittadina, per poi dar spazio alla violenza cromatica della festa dove macchie
di colore, sin lì sapientemente evitate o solo leggermente accennate,
esplodono, ironicamente, nel momento della rivelazione.
6. Reisz prende
spudoratamente in giro lo spettatore. Prima di andare a letto con Angela,
O'Toole telefona a casa, commentando la giornata e dicendo che non tarderà,
conversazione che fa calare su di lui il sospetto di marito fedifrago, mentre
in realtà è vedovo e vive con la sorella. Reisz continua a divertirsi uccidendo
l'assassino proprio dopo che aveva deciso di confessare tutto, anche i loschi
intrighi nascosti, e non lo fa sopprimere dai sicari degli uomini che sta per
denunciare, ma morire suicida, in un banale incidente della strada. La logica
stessa si sfalda nella assurda sequenza di personaggi strani che il film
presenta, nel ricorrente elemento religioso (il fratello prete, la setta
mistica dell'assassino e la sua aspirazione ad identificarsi con Dio -morirà
infatti con le braccia allargate, come crocifisso-, la presenza di Angela in chiesa, di molti oggetti di
devozione in casa sua), che forse rimanda (ma quanto seriamente?) ad una
superiore giustizia, più equa di quella casereccia ed accomodante di Highbury.
7. La storia di Alla
ricerca dell'assassino, inconcludente, con personaggi piuttosto schematici
e pretestuosi è un abbassamento parodico dei topoi tradizionali del thriller; Brivido caldo, al
contrario, li riprende seriamente, in una trama densa e drammatica.
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