Non
è la prima volta che Eastwood si cimenta col paranormale, avendo già fatto
un’incursione nel mondo dei fantasmi (e delle ossessioni derivate) già in Mezzanotte nel giardino del bene e del male.
Se in quella prima pellicola mostrava la cattiveria degli spiriti mentre in
questa afferma una solidarietà tra viventi e trapassati, in entrambi i film si
concentra sui vivi, lasciando sullo sfondo le problematiche inerenti alla
contaminazione tra i due universi.
Hereafter, al di là di brevi squarci ultraterreni e sintetiche
descrizioni di sensazioni in termini fisici, non si cimenta nell’analisi della
veridicità delle affermazioni, dandole narrativamente per scontate, ma si
sofferma sugli effetti che la vicinanza della morte, per sensibilità, affinità
o diretta esperienza, procura. Nell’incrocio dei destini dei tre protagonisti,
separati nello spazio ma le cui vicende procedono in contemporanea, i diversi
capitoli del film finiscono per integrarsi e sovrapporsi, per portare
all’incontro tra le persone e alla reciproca influenza sino alla convergenza in
un unico film che racconta la differente traiettoria della comune esperienza di
una prossimità con l’aldilà. Hereafter
parla di comunicazione, intermittente o angosciante, equivoca o indecente, tra
anime e persone, tra ricordi e pulsioni, sino alla scoperta di un’armonia
all’interno delle dissonanze.
Come
sempre, è un cinema umanista quello di Eastwood, rivolto ad indagare volti e
situazioni, spesso limitandosi ad illustrarle senza la pesantezza delle parole,
ritraendo brevi momenti di dolorosa e pensosa solitudine. È un cinema in cui
spiccano figure secondarie, necessarie allo sviluppo dei personaggi principali,
ipotesi narrative deviate dal malinteso o dal dolore, dalla verità che si vorrebbe
(Bryce Dallas Howard) o dovrebbe (Marthe Keller) tacere ma che imprimono ai
protagonisti, come i più prossimi familiari, una velocità di fuga verso una
deviazione improvvisa dell’esistenza, la cui spinta è analoga al trauma
iniziale.
Pur
narrato al solo presente, il film vive in una bolla temporale che accomuna
disparati eventi di cronaca (lo tsunami, gli attentati di Londra, la crisi
economica), che gioca con le dominanti cromatiche, cangianti a seconda
dell’ambientazione, quasi cambiando stile (e lingua) per segmento. Se la morte
si imprime dal passato dei personaggi sul loro rispettivo presente per
condizionarlo, col ricordo della premorte, con le visioni ultraterrene di vite
altrui, o con l’affetto del legame gemellare, è su uno scorcio improvviso di
futuro da parte del sensitivo (Matt Damon) che Hereafter si conclude, inaugurando un capitolo non mostrato di
inedita serenità per tutti i protagonisti, una promessa di happy end che sposta la narrazione su un asse temporale inesplorato
ma che l’intera narrazione ha preparato.
La
positività percepita nel finale nulla cancella del dolore provato ma lo rende
necessario al completamento di una parabola esistenziale (come di una nuova e
casuale “unità familiare” priva di vincoli parentali, tema ricorrente nell’ultimo
Eastwood) e narrativa non consolatoria, il sereno raggiungimento di una meta
che, a posteriori, risulta inevitabile.
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