è
singolare che un film che narra l’esistenza di guardiani del destino,
esecutori e garanti di un progetto prestabilito che a loro spetta mantenere
fedele alle intenzioni del Presidente e rendere reale, sia così tristemente
privo di regia. L’esordiente Nolfi si limita alla messa in immagini di un plot potenzialmente intrigante (grazie
alla matrice di Philip K. Dick) ma svolto senza mistero, esibendo un
razionalismo spicciolo che, per timore dell’esoterismo, provvede a spiegare e a
risolvere molto con l’ausilio del solo dialogo, cerca di compensare
l’aspirazione metafisica della trama circoscrivendola all’interno del melò.
Privato di mistero, il film viene
ulteriormente appiattito da una fotografia senza spessore né qualità evocativa,
infine del tutto affondato da una colonna sonora che si limita a commentare le
immagini ridondando inefficacemente con tintinnii nei momenti più lievi e cupi
ritmati nelle scene d’azione. Soltanto una certa lungimiranza scenografica,
debitrice dell’architettura d’inizio Novecento, e alcune trovare costumistiche
rendono giustizia al racconto, assieme alla credibilità dell’ingenuità
consapevole di Damon e della divertita levità della Blunt.
Ma il film, nel complesso,
fallisce ogni aspirazione realmente cinematografica scegliendo la via del
telefilm e optando per la variante Shonda Rhymes (dramedy sentimentale) invece di privilegiare la soluzione Abrams (sfondo
metafisico per azione e coinvolgimento) pur avendo graficamente mutuato i
guardiani dagli osservatori di Fringe.
Eric Kripke, creatore di Supernatural
e, qui, produttore esecutivo, si limita a riciclare volti televisivi (tutti i comprimari),
a ribadire tematiche sovrannaturali e a indirizzare la messinscena verso la
sola funzionalità dell’illustrazione. L’ormai consueta eco di Mad Men si incarna negli abiti dei
guardiani e nel volto di John Slattery, diventato sinonimo filmico degli Anni
Sessanta (Iron Man 2), a cui si
aggiunge l’icona Stamp, angelo decaduto sin da Teorema.
Il pregevole gioco delle porte
mobili e comunicanti evoca il medesimo stratagemma di Monster & Co, le uniformi rimandano ai pompieri illetterati di Fahrenheit 451, le scenografie alle
geometrie razionali del cinema (e della serialità) degli Anni Sessanta ma
l’insieme non sembra amalgamarsi in visione pop o trascendere nel postmoderno
bensì in puro modernariato, una ‘seconda mano’ che guida con poca fermezza gli
inseguimenti e le fughe che riempiono un film mai all’altezza delle esibite
ambizioni. Tutte le potenzialità della trama e alcuni pregi della confezione si
perdono nell’assenza di quella salutare stilizzazione che avrebbe potuto
sollevare una pellicola che, così, avanza per faticose accelerazioni verso il
suo posticcio e sereno finale.
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