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di antonio fabbri

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Gran Torino
di Clint Eastwood


Crepuscolare e rabbioso, l’ultimo film di Eastwood è dominato dal suo regista che vi recita, letteralmente e volutamente, da cane, ringhiando e ciondolando annoiato, guardando il mondo degli uomini con il rancore di chi è bloccato dal guinzaglio degli anni e dell’incomprensione, pronto a balzare al collo di chiunque lo offenda o a regalare sguardi dolci e commoventi per coloro che ritiene degni del proprio affetto. È un cane fedele al proprio allenamento, abituato a vedere il mondo esterno attraverso uno sguardo offuscato dal rimorso e dal dolore, cercando solo il noto nel nuovo per stanchezza e abitudine, eppure capace di sorprendersi curioso.
Il rigoroso misantropo di Eastwood riesce a risvegliarsi al mondo e al vicinato, a scegliere la dignità a dispetto della parentela, la speranza a confronto con il determinismo soffocante della società e dell’etnia, si sbarazza del paraocchi dell’abitudine e dell’ignoranza cercando addirittura una redenzione liberatoria col sacrificio, ironizzando sui duelli di gioventù traslati nel melodramma.
Nella stratificazione di affetti e di coscienza, Eastwood aggiunge un nuovo capitolo al suo cinema umanista e doloroso, gravato – quando personalmente in scena – dall’incombere degli anni che epura la regia da ogni effetto artificiale per lasciarsi trascinare dal flusso di legami inediti per cancellare gli affanni o gli equivoci del personaggio e dell’interprete, di una tipologia a lungo e erroneamente incasellata tra gli eroi parafascisti. Il regista costruisce sul suo corpo segnato un tramonto continuo, anagrafico e simbolico, che rinvia con energia l’ora del congedo, anche da un sogno americano che sempre rintraccia in un’incarnazione vitale e genuina, ancora pregna di dignità comunitaria e che diventa solitaria per disagio e per disperazione.
Datato nella sua imperterrita classicità, il cinema di Eastwood nasconde una complessità che non si vuole immediata dietro la chiarezza e l’apparente leggibilità, sbaraglia le prime impressioni per cercare la profondità interiore, la verità intrecciata delle contraddizioni che sfugge alla banalizzazione dell’evidenza, muovendosi con la curiosità affannata di un regista pronto all’autocritica e all’autodenigrazione divertita per aprirsi al mondo, a tutto tondo.

     (tutti i testi sono proprietà di antonio fabbri)
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