Alla seconda regia (1978), l’ultima prima
dell’esilio cinematografico terminato negli Anni 90, Malick ha
già reso stabili e coerenti una precisa concezione di
messinscena, con una narrazione veicolata fuori campo, da una voce
partecipe, coinvolta ma dotata dell’onniscienza del racconto al
passato, con attori seguiti da vicino, macchina in spalla, sorpresi in
azioni senza manifesto contesto col tracciato della sceneggiatura, la
libertà apparente dello sguardo che si posa con indifferenza
sugli animali o sui corpi dei protagonisti. La fotografia di Nestros
Almentros fissa nella bellezza memore di Hopper le inquadrature di un
film crepuscolare, girato al tramonto e con luce quasi perennemente
obliqua, sul finire della civiltà organizzata al confine con la
natura grezza, onnipresente ed indifferente, come sempre in Malick.
Così come gli animali, gli insetti o i cambiamenti meteorologici
si muovono e si trasformano per logiche estranee alle direttrici e
intenzioni umane, così la macchina da presa sembra interessarsi
distrattamente alle vicende che il film racconta, lasciandosi
trascinare dal flusso delle stesse inquadrature, con la leggerezza di
un montaggio emancipato da coordinate spaziali e temporali costanti e
coercitive. Se solo con l’ultimo Albero della vita la
libertà si fa digressione completa, diventa vagare sconsolato
nel silenzio del divino alla ricerca dei suoi indelebili segnali e
soltanto in parte il film si incarna in narrazione, nei Giorni del
cielo il melodramma della vita agra sembra ancora poter prevalere, con
l’ausilio dell’accompagnamento musicale di Morricone e
degli sguardi spaesati dei protagonisti. Ma nelle parole che fondano e
formano il racconto indirizzando il senso delle immagini, quei quesiti
universali sul destino e sul divino, sulla vita e sull’attesa
della morte si fanno già avanti, stratificate nella
neutralità del tono che si affianca, a contrasto, alla voluta
partecipazione emotiva delle riprese ravvicinate.
Il cinema di Malick rimane fortemente americano per
l’imperterrita ricerca di un’innocenza perduta, di volta in
volta indagata nel passato storico degli Stati Uniti (il Boom
economico, la Depressione, la Guerra, la Conquista), infine guardata
emergere e spegnersi con la vita stessa nell’elucubrazione
cosmico-esistenziale dell’ultima opera. Forse
quell’innocenza esiste, anche se non sembra alla portata degli
esseri umani; ma quello che sembra pessimismo ontologico è, in
realtà, un aspetto dell’affannosa ricerca di poesia a
tutti i costi. Così, pur muovendosi in un ambito affine a 2001:
Odissea nello Spazio, al sardonico sberleffo di Kubrick, per cui
l’evoluzione dell’intelligenza nasceva dalla
capacità di imporre la morte, l’Albero della vita di
Malick tenta la via salvifica della speranza, nel riconoscimento della
dignità di ogni forma di vita.
Ed è infatti la vita che prevale anche nei Giorni del cielo, il
cui scorrere persiste al di là della tragedia che la invade,
allontanando i protagonisti con la morte o con la separazione nella
ricerca di un futuro, sebbene non necessariamente migliore ma comunque
incombente, da qualche parte. Quella famiglia orizzontale, riunita
all’inizio per affetto o interesse con veri o mentiti legami di
fratellanza e di sesso, si sfalda nel tempo e nello spazio. Il resto,
il mondo attorno e la società stessa, rimane indifferente mentre
la macchina da presa sospende quei fili ancora tesi della narrazione.
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