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di antonio fabbri

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GAME OVER
(1994)

Due film statunitensi recenti, e due cocenti fallimenti al botteghino d'oltreoceano, basano il loro impianto narrativo sulla messinscena della fruizione e della stessa percezione audiovisiva, guardando alla percezione televisiva (Sliver di Phillip Noyce) o dedicandosi alla serializzazione convenzionale hollywoodiana (Last Action Hero di John McTiernan). Entrambi, vistosamente, si propongono come metatesti, capaci di rivolgersi direttamente allo spettatore in sala (o in salotto, dove, ad esempio, la visione di Sliver acquista migliore pregnanza) per attivamente coinvolgerlo nel proprio impianto narrativo.
   All'interno di una complessiva generica tendenza ad attribuire validità cronachistica indubitabilmente veritiera alla televisione, finestra aperta sulla realtà del mondo esterno cui compete l'informazione e il monopolio della verità, e che lascia al cinema la gestione del solo ambito fantastico e mitopoietico, fonte incessante di evasione e distrazione, nei due film il diritto alla fruizione pura, appagante e divertente in quanto divergente ed autonoma dal mondo circostante, viene inequivocabilmente revocato, e lo spettatore è costretto a guardarsi mentre il film scorre, riconoscersi nei personaggi e, al contempo, svolgere un ruolo criticamente attivo di messa in abisso della percezione convenzionale, infrangendo il patto di consueta non belligeranza e reciproca indipendenza tacitamente convenuto tra lo schermo e la realtà di chi vi siede di fronte.

Lo specchio delle brame.
   In modo diverso, i due film, procedendo ad un simile disvelamento dei meccanismi fondanti la fruizione dello spettacolo cinematografico e televisivo, palesano e, tramite il funzionale veicolo della finzione, possono permettersi di concretizzare, i desideri dei loro specifici 'interlocutori' grazie al tramite di un personaggio-guida che fa attivamente le veci dello spettatore diventandone l'estensione fantastica dall'altra parte dello schermo.
   Questi è Danny Madigan, il bambino di Last Action Hero, consumato spettatore di action movie, avvezzo ad ogni tranello di sceneggiatura, capace di intuire un cattivo in base al complessivo vincolante retaggio attoriale, di prevedere ogni sviluppo possibile della trama in base agli episodi trascorsi di un serial cinematografico che si rinnova solo ripetendo variate le convenzioni evidenti, spettatore consapevolmente a conoscenza del passato di personaggi noti sin nei più intimi dettagli, estraneo onnisciente arruolato per forza nel circuito avventuroso del film stesso per tramite di un misterioso magico biglietto regalatogli da un sonnacchioso proiezionista: grazie ad esso, egli stesso incarna l'ennesima variante dell'onnivora genia del buddy movie, abbinato proprio all'amatissimo eroe di cui è indefesso ammiratore e profondo conoscitore. Inoltre, facendo parte della fascia d'età dai 10 ai 19 anni, il ragazzino rappresenta il tipico fruitore cinematografico americano contemporaneo, al cui immaginario contribuiscono e si indirizzano tutte le più dispendiose e pirotecniche produzioni hollywoodiane.
   In Sliver William Baldwin esemplifica invece la tipologia del moderno telespettatore, destinatario di un continuum di immagini provenienti dal suo personale palazzo, tridimensionale vivente versione di un televisore interamente gestito grazie ad un onnipotente telecomando che lo mantiene in diretto contatto con le private verità dei singoli suoi inquilini, scandagliati con noncurante curiosità per mezzo delle telecamere a circuito chiuso domestico attraverso cui l'estraneo onniscente carpisce ogni più intimo segreto. Baldwin vive di vite riflesse, nutrendosi selvaggiamente di altrui perversioni, sbirciate anonimamente da telecamere occulte, grande fratello eccentrico che indifferente e noncurante guarda gli altri muoversi ed agire senza intervenire, appagato dal semplice atto di guardare.
   La struttura dell'edificio dello Sliver, grazie alla continuità elettronica della visione, restituisce la frammentata fluidità della soap-opera dove si intersecano storie dal variabile comun denominatore, guardate brevemente con short cuts e continui balzi ad un'altra vicenda, su una base di una più o meno relativa reciproca interferenza e contemporaneità, in cui gli amati personaggi possono cambiare volto e identità attoriale, ma mai di ruolo, inserendosi nella propria piccola calibrata casella narrativa come i differenti inquilini nello Sliver. Ma questa soap-opera vivente, perché perennemente live ed interpretata da persone reali, immediatamente si connota anche come un ipertrofico reality show, acceso ad indagare con golosa indiscrezione nei fatti degli altri, inserendo forti tinte sadiche nella continua (tele) visione.
   Il personaggio interpretato da Baldwin vive dentro un personale palinsesto televisivo nel quale sporadicamente interviene in qualità di ricorrente special guest, agente secondo le convenzioni della soap-opera, ripetendo le solite battute con le stesse intonazioni in analoghe situazioni riprese da simili angolature, cambiando soltanto partner (anch'ella comunque solo variante della originale matrice materna, ultima ripetitiva varante della circolarità televisiva). Egli realizza pertanto il desiderio dello spettatore televisivo di penetrare nello schermo, passare in tv, divenendo direttamente partecipe del proprio mondo fantastico, diventandone effettivamente parte. e poiché ogni spettatore di reality show aspira anche alla sua personale ribalta catodica, le coloriture semplicemente sadiche della sola 'visione', subiscono un drastico viraggio masochistico, tingendo il voyeurismo di esibizionismo narcisistico. Lo stesso capita al protagonista in carne ed ossa de L'ultimo grande eroe, catapultato suo malgrado nel mondo di celluloide, dove crea interesse e scompiglio realizzando l'impensabile sogno di convivere le medesime improbabili avventure del suo sovrumano eroe. 

Oltre lo specchio: la variante reale.
   Jack Slater, personaggio di puro parto fantastico, in inedite circostanze reali si trova in grosse difficoltà e necessita di una guida consapevole e critica, ossia di uno spettatore illuminato che lo guidi per il film e nei meandri di una narrazione complicata dalla innovativa variante del percorso nella sinistra concretezza del mondo vero. Danny assume quindi il duplice ruolo di demiurgo ed esegeta, incarnando la proiezione fantastica dello spettatore sullo schermo, ma conservandone la capacità demistificatrice delle convenzioni, muovendosi comunque all'interno di una finzione accettata e vissuta come reale.
   Sharon Stone rappresenta in Sliver un simile punto di vista consapevolmente lucido, contrapposto alla fruizione acritica ed indiscriminata di Baldwin, infine suo malgrado liberato dalla dipendenza televisiva dall'intervento catartico e distruttore della donna. Rivelandole la verità e l'esistenza delle onnipresenti telecamere, Baldwin si trova infatti costretto ad optare per uno dei due lati dello schermo, per una conduzione diretta e responsabile della propria vita invece di fagocitare in modo parassitario altrui esistenze, e a smantellare lo strumento della penetrazione fantastica per ristabilire, dopo averli svelati e varcati, i relativi confini tra mondo vissuto e guardato, tra vita vera e riflessa. Entrambi i film infatti presentano e realizzano il concreto trapasso oltre lo specchio dello schermo, permettendo la diretta messa in comunicazione di due mondi inizialmente separati, fornendo una dialettica opposizione tra un punto di vista ciecamente acritico ed uno consapevolmente scettico e disilluso, facendoli entrambi coabitare in un ambiente unico al fine di svelarne i condizionamenti, consapevolmente affrontando il tema della verità della visione e la possibilità di una sua manipolazione, e dibattendo sulla costruzione della visione in quanto percezione del mondo esterno o fruizione di un universo fittizio temporaneamente coincidenti: entrambi i film terminano con la novella stipula del contratto di reciproca non intromissione. tra i distinti ambiti, della visione e del vissuto, si concludono con la strenua riaffermazione delle relative separazioni e l'inderogabile scelta di uno soltanto dei due ambiti.
   La temporanea sosta nell'incerto territorio in costante bilico tra verità e menzogna o tra realtà e fantasia, ossia tra il mondo vissuto e il mondo visto, è il terreno minato in cui i due film prendono corpo e svolgono la loro trama. L'universo epico del grande schermo confluisce nella sordida e buia concreta città del bambino, la patinata visione a distanza di Baldwin si sporca nel toccare la brutalità della reale esterno: in entrambi i casi, i due lati dello schermo confluiscono per l'intrusione di un punto di vista straniante perché appartenente ad una dimensione alternativa sino allora ignota, e la normalità della percezione si incrina, messa definitivamente in crisi dall'inserimento di una variante sconosciuta che fa virare verso il disordine e l'imprevedibilità la trama nota precedentemente destinata a solo ripetersi. La consuetudine alla visione ne distrugge la consapevolezza: in Sliver, la verità conclusiva della rebus poliziesco rimane relegata allo sfondo, pretesto narrativo pressoché ininfluente ed irrilevante nel flusso indistinto di equivalenti ininterrotte immagini senza importanza, il cui scorrere parallelo al trascorrere del tempo reale, le priva della densità drammatica che ne risaltarebbe l'importanza.
   L'individuo reale che irrompe nel contesto fittizio, reticente a rispettare le restrizioni assegnate al proprio ruolo, si pone come ponte tra il mondo vero e quello irreale solo percepito in cui sia Jack Slater che il personaggio di Baldwin sono pacificamente inseriti, mettendone pericolosamente in crisi la consistenza psicologica nel rivelare la duplicità della visione che comporta una schizofrenia della percezione, la quale narrativamente si traduce nella messa a repentaglio delle vita stessa di questi personaggi. Alternando la distanza critica alla diretta effettiva partecipazione, l' 'alieno' entra nel contesto estraneo brandendo la propria diversità e mettendo conseguentemente in crisi tutto l'univoco universo di riferimento del compagno.
   Ed è proprio grazie a quest'inedito impulso che la macchina narrativa di entrambi i film si mette realmente in funzione, producendo una fonte d'interesse che esubera la semplice ripetizione di schemi noti, innesca il motore dell'attenzione e catalizza il racconto (in un funambolico nuovo e più complesso action movie e, nell'altra pellicola, all'interno di un contesto genericamente più realistico, in una pretestuosa trama gialla, un falso whodunit in partenza ironicamente già risolto) che comunque si svolge nel limbo dell'intersezione tra realtà e fantasia, nell'insidioso territorio di confine tra i due ambiti.

Compagini realistiche.
   Viene così a definirsi un terreno dai contorni indeterminati, in cui elementi realistici convivono ed agiscono in collaborazione con altri puramente fantastici, una realtà virtuale in cui il mondo fisico effettivamente interagisce con l'artificio. Come la mano in un guanto virtuale (presente in Sliver tra i giocattoli che abitano l'appartamento di Baldwin), dati fisici concreti si inseriscono, per tramite di un artificio (elettronico: il sistema di telecamere; magico: il biglietto fatato), in un contesto puramente fittizio, ma capace di evocare in modo credibile quello reale, in una complessiva efficace illusione di verità in cui viene mimata e imitata la percezione del mondo reale. L'oggetto della fruizione, grazie ad un espediente, diventa quindi interrattivo con il fruitore ed il luogo stesso della fruizione, consentendo continui trapassi e innovative varianti al gioco noto. L'inedita permeabilità tra i due mondi paralleli trasforma le vere persone in personaggi, agenti nella finzione, sottoponendole a pericoli concreti in contesti peraltro finti, senza pertanto privarli della consapevolezza della propria natura e di quella del luogo in cui agiscono, a fianco di personaggi al contrario acriticamente integrati nel fittizio, dei quali possono influenzare il comportamento per renderli partecipi della falsità del contesto di appartenenza.
   L'identificazione dello spettatore con i protagonisti delle due pellicole risulta difficilmente realizzabile, ed è forse all'origine dei loro clamorosi insuccessi commerciali. Per ovvie necessità di narrazione, Last Action Hero presenta una finzione incompleta, in cui tutti i personaggi risultano sempre fuori luogo e contesto. In Sliver invece, affinche la trama gialla minimamente funzioni, è richiesto di identificarsi con Sharon Stone, per in fine, all'interno del generale ribaltamento e ridefinizione nei rispettivi ruoli, lasciarle modo di rivolgere a Baldwin il suo potente atto d'accusa, e guardando direttamente in macchina e negli occhi lo spettatore, puntare addosso alla sala il telecomando rivelandola il vero soggetto ed oggetto del film. Ma nel far ció, Sliver ribadisce ed amplifica entro la propria stessa struttura, la schizofrenia dell'ingenuo protagonista maschile, debilitando pertanto la portata del contrito autodafé che voleva stimolare. 

Evoluzione della specie.
   Con il comune rifiuto del personaggio proveniente dal mondo reale ed esterno al contesto della visione, privato ambito del coprotagonista 'fantastico', del ruolo che per consuetudine gli competerebbe che ne fa il disvelatore dei meccanismi della fruizione della finzione ed estensione dello spettatore all'interno dell'universo della percezione, i due film precorrono, in una forma ancora per esigenze tecniche conclusa ed in se autonoma, le prossime e già annunciate forme di evoluzione della visione, in cui di una trama data, gli sviluppi possibili e i relativi esiti finali non sono dati per scontati ma unicamente dipendenti dal volere dell'utente spettatore interferente con lo schermo: il cinema interattivo offrirà una forma non più narrativamente conclusa, bensì un'opera diegeticamente aperta. In essa, lo sguardo 'critico' (in quanto allenato ad una concezione 'meccanica' dell'opera) si farà costruttore non soltanto di soli percorsi interpretativi, ma anche concretamente narrativi, di cui l'autore si limiterà a definire l'ambito generico di percorso, ma senza stabilire nei dettagli le diverse variazioni, l'originalità di sviluppo restando solo nella imprevedibilità dell'intervento dell'interlocutore reale, effettivo co-autore. Il testo sarà quindi capace di dialogare direttamente con il suo fruitore, abilitato a cambiarlo a piacimento completando quell'interazione qui teoricamente solo suggerita, versione complessa e articolata del moderno videogioco.
   Del mezzo d'attuazione dell'interazione umana, viene data in Sliver un'attendibile immagine nel telecomando, estensione elettro-meccanica della mano, capace di azionare tutti gli apparecchi domestici dominati dallo schermo video del computer e della tv i quali a loro volta consentono l'onnipotenza dell'ubiquità elettronica nella contemporanea visione di vite separate, concretamente realizzato dall'ascensore dell'edificio, nella cui cabina, che porta ai relativi piani di abitazione indicati come i canali del televisore da una numerazione elettronica progressiva, possono avvenire scambi di sguardi e tentazioni di intervento. 

Acta est fabula.
   Perfetta realizzazione di una realtà del interamente virtuale, data ed accettata come falsa perché concretamente irrealizzabile, ma percepita come vera e concreta e in cui effettivamente attori veri convivono con esseri fantastici ed immaginari meccanici se non del tutto assenti, Jurassic Park, a differenza degli altri due film, non autorizza un'ipotesi di interazione tra lo spettatore utente e lo schermo, obbligando la sala alla sola passiva inalterabile visione di ciò che in quella distante ma visibile alternativa realtà si svolge. Sebbene anche Last Action Hero e Sliver, essendo film tradizionali su pellicola, non possano subire una vera interpolazione da parte dello spettatore, nel loro mondo fittizio, essi presentano un personaggio che oltrepassando i limiti fisici dello schermo rende effettiva, sebbene univoca e non ulteriormente alterabile, la possibilità di cangiare lo scorrere narrativo: questa figura è invece assente nell'ultima pellicola di Spielberg che ribadisce i termini di una fruizione cinematografica classica postulante l'inalterabilità della fabula.
   L'esistenza passata dei dinosauri essendo indiscutibile e a tutti nota, alimentata dalla florida messe di noti film sull'argomento, il parco dei divertimenti creato da Spielberg risulta in effetti abitato da immagini, provenienti da un  patrimonio fantastico collettivo, retaggio di antiquate pellicole, che assumono finalmente moderno rilievo e credibile concretezza, emanazioni del comune desiderio di vedere i grandi mitici mastodonti estinti finalmente vivi ed in azione. Il film realizza quindi un sogno molto più diffuso di quello dei soli paleontologi finalmente in diretto contatto con il soggetto dei loro approfonditi e solamente teorici studi che trovano un'insperata tangibile conferma.
   Sebbene gli spettatori possano perfettamente identificarsi nei personaggi in quanto specchio dei propri desideri, il piano della finzione del film non accetta la permeabilità della platea: I protagonisti del film non drammatizzano infatti la posizione reale dello spettatore nei confronti dello spettacolo in quanto tale, o la sua consapevole emanazione all'interno di quel contesto, non hanno la consapevolezza critica della irrealtà del loro universo di appartenenza, ma vi vivono percependolo come l'unica dimensione esistente ed accettabile. Il contatto che lo schermo deve pertanto instaurare con gli astanti è puramente emotivo, funzionante sulla sola proiezione ed identificazione emotiva, che conduce all'illusione della conpartecipazine, non alla sua 'effettiva' realizzazione.
   Il trapasso oltre lo 'schermo' del reale si traduce all'interno di questo film nell'annullamento dell'iniziale segregazione dei dinosauri nelle gabbie sorvegliate, dai cui confini facilmente poi evadono per irrompere all'esterno ed invadere il resto di un'isola (e del mondo, come il libro suggerisce) altrimenti deputata al pacifico turistico soggiorno umano. Lo schermo non sconfinando più nella realtà, all'interno dell'unico universo di riferimento del film stesso, i dinosauri, frutto della manomissione artificiale imposta dall'uomo e interamente fantastici, escono dal loro coatto confino per filtrare nel mondo e sconvolgerlo, riportandolo ad un equilibrio per loro naturale ma in cui gli uomini sono fuori luogo.
   Il parco di divertimenti tecnologico creato da Hammond e la clonazione su cui si basa, rappresentano l'artificio attraverso il quale la fantasia (il sogno degli spettatori, il soggetto di studio dei paleontologi) può prendere vita e miscelarsi alla realtà dei personaggi dello schermo. Anche qui, il caos (causato dall sabotaggio del sistema difensivo computerizzato), teorizzato dalla solamente funzionale presenza in scena del matematico Malcolm, permette l'effettivo avvio di un racconto che era sin lì sostato nella semplice presentazione dell'impianto (narrativo del film, tecnologico del parco) nell'accorto prolungamento dell'assenza dei dinosauri, evocati o sbirciati, ma mai del tutto veramente visti nel pieno della loro potenza devastante, in uno spettacolo che si negava poiché i dinosauri non davano mostra di quanto era possibile aspettarsi: come nelle due pellicole precedentemente citate, il pericolo e la narrazione iniziano con il rifiuto da parte di uno dei protagonisti di rispettare le restrizioni deputate. Ancora una volta, all'interno dell'artificio che permette l'esplosiva coesistenza di entità inconciliabili, la conseguente crisi d'identità della 'realtà quotidiana' si traduce nella messa a repentaglio dell'integrità fisica di parte dei protagonisti.
   I due paleontologi, in quanto conoscitori dei dinosauri e delle loro abitudini, possono, in base a questa consapevolezza culturale, adeguatamente leggere il comportamento animale e guidare loro stessi ed i bambini verso la salvezza e la conclusione del film. Essi incarnano il consapevole principio di realtà che può guidare tra le insidie di un mondo anacronistico, arcaico e contemporaneo insieme, derivato dalla manipolazione tecnologica di dati reali.
   A differenza degli altri due film, in Jurassic Park gli esseri umani, convivendo con le creature fantastiche, non collaborano con esse ma devono quasi sempre combatterle, pena la loro sopravvivenza: il sogno diventa un terribile incubo, perversamente attraversato dal contrastante sentimento di ammirato affetto per creature estinte capaci di tornare in vita e riprodursi prepotentemente e l'odio per la loro pericolosità. E se anche questo, come gli altri film, si chiude con la rinnovata separazione tra i due mondi (l'isola, destinata all'annientamento, e il resto), l'inevitabile distruzione dei dinosauri è lasciata fuoricampo, solo suggerita e non, come crudelmente nel libro, dettagliatamente descritta. 

Paradosso temporale.
   A molti lo scarto tra il film ed il testo di partenza è parso inaccettabile, paradigma della tipica inequivocabile egemonia delle mercificate esigenze dell'industria cinematografica a confronto con l'artistica purezza dell'opera letteraria. Ma diversamente dal libro, il cui senso risiede nella esemplificazione del pericolo di un progresso scientifico selvaggiamente promosso da uno sconsiderato interesse capitalistico, il film si sposta e risiede tutto in un piano eminentemente metacinematografico, parlando dello stato attuale dell'industria cinematografica (americana), e della sua eccessiva dipendenza dalla mediazione tecnologica: non un film sui pericoli della scienza, ma sui pericoli del destino del cinema, in cui la scienza assume sempre maggiore rilievo ed preponderante importanza.
   Anche in questa pellicola assistiamo alla messa in scena dei meccanismi della fruizione audiovisiva, postulando una percezione cinematografica scettica, svezzata dalla quotidiana domestica revisione delle pellicole: l'intervento del dispendioso ingombrante apparato di sofisticati trucchi tecnologici è diventato un inevitabile obbligo, paradossalmente utile soltanto a 'mostrare' la finzione senza svelarne l'artificio, renderela vera e credibile quantunque più fiabesca. L'occhio attento ed indagatore del moderno spettatore cinematografico, del tutto simile (anche per l'età) al bambino di Last Action Hero, molto facilmente ormai individua le pecche che incrinano l'illusione ed evidenziano la convenzione, le quali inevitabilmente poi portano ad una fruizione mediata, non più diretta e partecipe ma critica e distante. La fiducia nell'illusione cinematografica, inficiata dalla sola grossolanità della sua narrazione, dalla tecnica superficialità del trucco, viene immediatamente meno, come una nota dissonante insistita. In Jurassic Parc invece, l'effettiva esistenza dei dinosauri non è mai minimamente messa in dubbio dalla fallacia dei trucchi, cosí che sullo schermo e davanti agli occhi degli spettatori, gli animali realmente esistono, e la paura che trasmettono diventa indiscussa e tangibile.
   Jurassic Park mette in scena ed in mostra la macchina del film stesso, con tanto degli inevitabili accessori del miliardario merchandising che affianca ogni grossa produzione, messi in mostra ed in vendita prima che il film stesso e il parco prendano vita per sfruttarne le potenzialità economiche. La clonazione altro non è che l'immagine metaforica degli espedienti della "Industrial Light and Magic" per ridonare 'vera' consistenza a dinosauri in precedenza fatti vivere con i dubbiosi trucchi di vecchie pellicole, ormai del tutto inaccettabili. L'antagonismo di Hammond nei confronti degli avvocati, burocrati delle banche e di potenti finanzieri, non sembra molto diverso dai dissidi dei registi con i produttori. E non è infine un caso se il titolo del film ricopia, anche nei caratteri, il nome del parco, con tanto del vero simbolo del trade mark in apice, rimescolando profondamente verità e fantasia ad un livello non dissimile da Last Action Hero.

In via d'estinzione.
   La figura del dottor Hammond, il cui ritratto presenta innumerevoli divergenze dall'originale letterario, non possiede l'aura unicamente satanica e calcolatrice primitiva, ma acquista un'apparenza quasi bonariamente sognante, diventa un mago infantile, capace di muovere ingenti mezzi e capitali al solo fine di dar vita ai propri più remoti sogni, di cui i dinosauri sono l'esempio più significativo. Da sempre interessato a personaggi trascinati nel tentativo folle di realizzare i propri sogni ossessivi e della difficile coesitenza di questi nell'ostilità scettica del mondo reale esterno, Spielberg pare disegnare nel vecchio artefice del parco un candido autoritratto. In una scena del tutto assente nel pretesto letterario, il vecchio si confessa alla giovane paleobotanica rammentandosi della semplice felicità derivata del suo primo parco di intrattenimento, costituito da assenti pulci addomenticate, ma funzionante talmente bene da far credere all'esistenza effettiva delle bestiole. Alla nostalgia del ricordo, si affianca il rammarico di dover necessariamente ormai disporre di un imponente armamentario tecnologico al solo stesso fine di poter divertire. La medesima triste nostalgia per una forma di intrattenimento oramai estinta che sia soltanto emozione ed evocazione e non volgare messa in mostra, si ritrova forse nel film nel procrastinamento del palesamento dei dinosauri che costringe gli spettatori a temporaneamente solo immaginarli. Lascia difatti sorpreso e deluso l'anziano uomo di spettacolo l'insurrezione degli scienzati chiamati a verificare la validità della creazione di Hammond che fuggono dal cinema e dall'intattenimento appositamente preparato (cosí come dalla canonica passività dello spettatore), per andare direttamente a vedere con i propri occhi i dinosauri, che diventa cosí significativa immagine del generalizzato bisogno di una visione diretta che fa a meno della mediazione affabulatrice del narratore, per trasformarsi in immediata esperienza personale.
   Nel suo rammarico per la fine uno spettacolo dalla innocente pura semplicità (in cui è peró insita la necessità della finzione), pare facile in filigrana svelare un intento polemicamente nostalgico dello stesso Spielberg e la triste constatazione della morte di certo cinema, in quanto spettacolo direttamente coinvolgente e capace di evocare una "magia" che ancora anche Last Action Hero dà come assunto. E i dinosauri, nella loro tardiva ribellione al mondo circostante e all'imposizione di artificiali determinazioni e delimitazioni alla loro libertà, corrispondono ad una implicita quanto vana rivincita del cinema e della sua carica di libera evocazione fantastica, capace di funzionare senza artifici nè restrizioni o a dispetto di esse, ció che rende il finale del film piú consapevolmente positivo del lugubre esito del libro. E paradossalmente, questi dinosauri, sia nella finzione cinematografica che nella realtà produttiva del film, sono proprio il frutto della più raffinata e sofisticata tecnologia scientifica. Non a caso l'altra figura vicaria del regista nella narrazione, il paleontologo Alan Grant, è costretto non soltanto ad accettare le leggi del mercato nelle generose interessate elargizioni di Hammond, ma anche capitolare all'autorità dell'odiatissimo computer che, almeno temporaneamente, gli salva la vita.    

     (tutti i testi sono proprietà di antonio fabbri)
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