Due film statunitensi recenti, e
due cocenti fallimenti al botteghino d'oltreoceano, basano il loro impianto
narrativo sulla messinscena della fruizione e della stessa percezione
audiovisiva, guardando alla percezione televisiva (Sliver di Phillip Noyce) o dedicandosi alla serializzazione
convenzionale hollywoodiana (Last Action
Hero di John McTiernan). Entrambi, vistosamente, si propongono come
metatesti, capaci di rivolgersi direttamente allo spettatore in sala (o in
salotto, dove, ad esempio, la visione di Sliver
acquista migliore pregnanza) per attivamente coinvolgerlo nel proprio impianto
narrativo.
All'interno di una complessiva
generica tendenza ad attribuire validità cronachistica indubitabilmente
veritiera alla televisione, finestra aperta sulla realtà del mondo esterno cui
compete l'informazione e il monopolio della verità, e che lascia al cinema la
gestione del solo ambito fantastico e mitopoietico, fonte incessante di
evasione e distrazione, nei due film il diritto alla fruizione pura, appagante
e divertente in quanto divergente ed autonoma dal mondo circostante, viene
inequivocabilmente revocato, e lo spettatore è costretto a guardarsi mentre il
film scorre, riconoscersi nei personaggi e, al contempo, svolgere un ruolo
criticamente attivo di messa in abisso della percezione convenzionale,
infrangendo il patto di consueta non belligeranza e reciproca indipendenza
tacitamente convenuto tra lo schermo e la realtà di chi vi siede di fronte.
Lo specchio delle brame.
In modo diverso, i due film,
procedendo ad un simile disvelamento dei meccanismi fondanti la fruizione dello
spettacolo cinematografico e televisivo, palesano e, tramite il funzionale
veicolo della finzione, possono permettersi di concretizzare, i desideri dei
loro specifici 'interlocutori' grazie al tramite di un personaggio-guida che fa
attivamente le veci dello spettatore diventandone l'estensione fantastica
dall'altra parte dello schermo.
Questi è Danny Madigan, il bambino
di Last Action Hero, consumato
spettatore di action movie, avvezzo
ad ogni tranello di sceneggiatura, capace di intuire un cattivo in base al
complessivo vincolante retaggio attoriale, di prevedere ogni sviluppo possibile
della trama in base agli episodi trascorsi di un serial cinematografico che si rinnova solo ripetendo variate le
convenzioni evidenti, spettatore consapevolmente a conoscenza del passato di
personaggi noti sin nei più intimi dettagli, estraneo onnisciente arruolato per
forza nel circuito avventuroso del film stesso per tramite di un misterioso
magico biglietto regalatogli da un sonnacchioso proiezionista: grazie ad esso,
egli stesso incarna l'ennesima variante dell'onnivora genia del buddy movie, abbinato proprio
all'amatissimo eroe di cui è indefesso ammiratore e profondo conoscitore. Inoltre,
facendo parte della fascia d'età dai 10 ai 19 anni, il ragazzino rappresenta il
tipico fruitore cinematografico americano contemporaneo, al cui immaginario
contribuiscono e si indirizzano tutte le più dispendiose e pirotecniche
produzioni hollywoodiane.
In Sliver William Baldwin esemplifica invece la tipologia del moderno
telespettatore, destinatario di un continuum
di immagini provenienti dal suo personale palazzo, tridimensionale vivente
versione di un televisore interamente gestito grazie ad un onnipotente
telecomando che lo mantiene in diretto contatto con le private verità dei
singoli suoi inquilini, scandagliati con noncurante curiosità per mezzo delle
telecamere a circuito chiuso domestico attraverso cui l'estraneo onniscente
carpisce ogni più intimo segreto. Baldwin vive di vite riflesse, nutrendosi
selvaggiamente di altrui perversioni, sbirciate anonimamente da telecamere
occulte, grande fratello eccentrico che indifferente e noncurante guarda gli
altri muoversi ed agire senza intervenire, appagato dal semplice atto di
guardare.
La struttura dell'edificio dello
Sliver, grazie alla continuità elettronica della visione, restituisce la
frammentata fluidità della soap-opera
dove si intersecano storie dal variabile comun denominatore, guardate
brevemente con short cuts e continui
balzi ad un'altra vicenda, su una base di una più o meno relativa reciproca
interferenza e contemporaneità, in cui gli amati personaggi possono cambiare
volto e identità attoriale, ma mai di ruolo, inserendosi nella propria piccola
calibrata casella narrativa come i differenti inquilini nello Sliver. Ma questa
soap-opera vivente, perché
perennemente live ed interpretata da
persone reali, immediatamente si connota anche come un ipertrofico reality show, acceso ad indagare con
golosa indiscrezione nei fatti degli altri, inserendo forti tinte sadiche nella
continua (tele) visione.
Il personaggio interpretato da
Baldwin vive dentro un personale palinsesto televisivo nel quale sporadicamente
interviene in qualità di ricorrente special
guest, agente secondo le convenzioni della soap-opera, ripetendo le solite battute con le stesse intonazioni
in analoghe situazioni riprese da simili angolature, cambiando soltanto partner (anch'ella comunque solo
variante della originale matrice materna, ultima ripetitiva varante della
circolarità televisiva). Egli realizza pertanto il desiderio dello spettatore
televisivo di penetrare nello schermo, passare in tv, divenendo direttamente
partecipe del proprio mondo fantastico, diventandone effettivamente parte. e
poiché ogni spettatore di reality show
aspira anche alla sua personale ribalta catodica, le coloriture semplicemente
sadiche della sola 'visione', subiscono un drastico viraggio masochistico,
tingendo il voyeurismo di esibizionismo narcisistico. Lo stesso capita al
protagonista in carne ed ossa de L'ultimo
grande eroe, catapultato suo malgrado nel mondo di celluloide, dove crea
interesse e scompiglio realizzando l'impensabile sogno di convivere le medesime
improbabili avventure del suo sovrumano eroe.
Oltre lo specchio: la variante reale.
Jack Slater, personaggio di puro
parto fantastico, in inedite circostanze reali si trova in grosse difficoltà e
necessita di una guida consapevole e critica, ossia di uno spettatore
illuminato che lo guidi per il film e nei meandri di una narrazione complicata
dalla innovativa variante del percorso nella sinistra concretezza del mondo
vero. Danny assume quindi il duplice ruolo di demiurgo ed esegeta, incarnando
la proiezione fantastica dello spettatore sullo schermo, ma conservandone la
capacità demistificatrice delle convenzioni, muovendosi comunque all'interno di
una finzione accettata e vissuta come reale.
Sharon Stone rappresenta in Sliver un simile punto di vista
consapevolmente lucido, contrapposto alla fruizione acritica ed indiscriminata
di Baldwin, infine suo malgrado liberato dalla dipendenza televisiva
dall'intervento catartico e distruttore della donna. Rivelandole la verità e
l'esistenza delle onnipresenti telecamere, Baldwin si trova infatti costretto
ad optare per uno dei due lati dello schermo, per una conduzione diretta e
responsabile della propria vita invece di fagocitare in modo parassitario
altrui esistenze, e a smantellare lo strumento della penetrazione fantastica
per ristabilire, dopo averli svelati e varcati, i relativi confini tra mondo
vissuto e guardato, tra vita vera e riflessa. Entrambi i film infatti
presentano e realizzano il concreto trapasso oltre lo specchio dello schermo,
permettendo la diretta messa in comunicazione di due mondi inizialmente
separati, fornendo una dialettica opposizione tra un punto di vista ciecamente
acritico ed uno consapevolmente scettico e disilluso, facendoli entrambi
coabitare in un ambiente unico al fine di svelarne i condizionamenti,
consapevolmente affrontando il tema della verità della visione e la possibilità
di una sua manipolazione, e dibattendo sulla costruzione della visione in
quanto percezione del mondo esterno o fruizione di un universo fittizio
temporaneamente coincidenti: entrambi i film terminano con la novella stipula
del contratto di reciproca non intromissione. tra i distinti ambiti, della
visione e del vissuto, si concludono con la strenua riaffermazione delle
relative separazioni e l'inderogabile scelta di uno soltanto dei due ambiti.
La temporanea sosta nell'incerto
territorio in costante bilico tra verità e menzogna o tra realtà e fantasia,
ossia tra il mondo vissuto e il mondo visto, è il terreno minato in cui i due
film prendono corpo e svolgono la loro trama. L'universo epico del grande
schermo confluisce nella sordida e buia concreta città del bambino, la patinata
visione a distanza di Baldwin si sporca nel toccare la brutalità della reale
esterno: in entrambi i casi, i due lati dello schermo confluiscono per
l'intrusione di un punto di vista straniante perché appartenente ad una
dimensione alternativa sino allora ignota, e la normalità della percezione si
incrina, messa definitivamente in crisi dall'inserimento di una variante
sconosciuta che fa virare verso il disordine e l'imprevedibilità la trama nota
precedentemente destinata a solo ripetersi. La consuetudine alla visione ne
distrugge la consapevolezza: in Sliver,
la verità conclusiva della rebus poliziesco rimane relegata allo sfondo,
pretesto narrativo pressoché ininfluente ed irrilevante nel flusso indistinto
di equivalenti ininterrotte immagini senza importanza, il cui scorrere
parallelo al trascorrere del tempo reale, le priva della densità drammatica che
ne risaltarebbe l'importanza.
L'individuo reale che irrompe nel
contesto fittizio, reticente a rispettare le restrizioni assegnate al proprio
ruolo, si pone come ponte tra il mondo vero e quello irreale solo percepito in
cui sia Jack Slater che il personaggio di Baldwin sono pacificamente inseriti,
mettendone pericolosamente in crisi la consistenza psicologica nel rivelare la
duplicità della visione che comporta una schizofrenia della percezione, la
quale narrativamente si traduce nella messa a repentaglio delle vita stessa di
questi personaggi. Alternando la distanza critica alla diretta effettiva
partecipazione, l' 'alieno' entra nel contesto estraneo brandendo la propria
diversità e mettendo conseguentemente in crisi tutto l'univoco universo di
riferimento del compagno.
Ed è proprio grazie a quest'inedito
impulso che la macchina narrativa di entrambi i film si mette realmente in
funzione, producendo una fonte d'interesse che esubera la semplice ripetizione
di schemi noti, innesca il motore dell'attenzione e catalizza il racconto (in
un funambolico nuovo e più complesso action
movie e, nell'altra pellicola, all'interno di un contesto genericamente più
realistico, in una pretestuosa trama gialla, un falso whodunit in partenza ironicamente già risolto) che comunque si
svolge nel limbo dell'intersezione tra realtà e fantasia, nell'insidioso
territorio di confine tra i due ambiti.
Compagini realistiche.
Viene così a definirsi un terreno
dai contorni indeterminati, in cui elementi realistici convivono ed agiscono in
collaborazione con altri puramente fantastici, una realtà virtuale in cui il
mondo fisico effettivamente interagisce con l'artificio. Come la mano in un
guanto virtuale (presente in Sliver
tra i giocattoli che abitano l'appartamento di Baldwin), dati fisici concreti
si inseriscono, per tramite di un artificio (elettronico: il sistema di
telecamere; magico: il biglietto fatato), in un contesto puramente fittizio, ma
capace di evocare in modo credibile quello reale, in una complessiva efficace
illusione di verità in cui viene mimata e imitata la percezione del mondo reale.
L'oggetto della fruizione, grazie ad un espediente, diventa quindi interrattivo
con il fruitore ed il luogo stesso della fruizione, consentendo continui
trapassi e innovative varianti al gioco noto. L'inedita permeabilità tra i due
mondi paralleli trasforma le vere persone in personaggi, agenti nella finzione,
sottoponendole a pericoli concreti in contesti peraltro finti, senza pertanto
privarli della consapevolezza della propria natura e di quella del luogo in cui
agiscono, a fianco di personaggi al contrario acriticamente integrati nel
fittizio, dei quali possono influenzare il comportamento per renderli partecipi
della falsità del contesto di appartenenza.
L'identificazione dello spettatore
con i protagonisti delle due pellicole risulta difficilmente realizzabile, ed è
forse all'origine dei loro clamorosi insuccessi commerciali. Per ovvie
necessità di narrazione, Last Action
Hero presenta una finzione incompleta, in cui tutti i personaggi risultano
sempre fuori luogo e contesto. In Sliver
invece, affinche la trama gialla minimamente funzioni, è richiesto di
identificarsi con Sharon Stone, per in fine, all'interno del generale
ribaltamento e ridefinizione nei rispettivi ruoli, lasciarle modo di rivolgere
a Baldwin il suo potente atto d'accusa, e guardando direttamente in macchina e
negli occhi lo spettatore, puntare addosso alla sala il telecomando rivelandola
il vero soggetto ed oggetto del film. Ma nel far ció, Sliver ribadisce ed amplifica entro la propria stessa struttura, la
schizofrenia dell'ingenuo protagonista maschile, debilitando pertanto la
portata del contrito autodafé che
voleva stimolare.
Evoluzione della specie.
Con il comune rifiuto del
personaggio proveniente dal mondo reale ed esterno al contesto della visione,
privato ambito del coprotagonista 'fantastico', del ruolo che per consuetudine
gli competerebbe che ne fa il disvelatore dei meccanismi della fruizione della
finzione ed estensione dello spettatore all'interno dell'universo della
percezione, i due film precorrono, in una forma ancora per esigenze tecniche
conclusa ed in se autonoma, le prossime e già annunciate forme di evoluzione
della visione, in cui di una trama data, gli sviluppi possibili e i relativi
esiti finali non sono dati per scontati ma unicamente dipendenti dal volere
dell'utente spettatore interferente con lo schermo: il cinema interattivo
offrirà una forma non più narrativamente conclusa, bensì un'opera
diegeticamente aperta. In essa, lo sguardo 'critico' (in quanto allenato ad una
concezione 'meccanica' dell'opera) si farà costruttore non soltanto di soli
percorsi interpretativi, ma anche concretamente narrativi, di cui l'autore si
limiterà a definire l'ambito generico di percorso, ma senza stabilire nei
dettagli le diverse variazioni, l'originalità di sviluppo restando solo nella
imprevedibilità dell'intervento dell'interlocutore reale, effettivo co-autore. Il
testo sarà quindi capace di dialogare direttamente con il suo fruitore,
abilitato a cambiarlo a piacimento completando quell'interazione qui
teoricamente solo suggerita, versione complessa e articolata del moderno
videogioco.
Del mezzo d'attuazione
dell'interazione umana, viene data in Sliver
un'attendibile immagine nel telecomando, estensione elettro-meccanica della
mano, capace di azionare tutti gli apparecchi domestici dominati dallo schermo
video del computer e della tv i quali a loro volta consentono l'onnipotenza
dell'ubiquità elettronica nella contemporanea visione di vite separate,
concretamente realizzato dall'ascensore dell'edificio, nella cui cabina, che
porta ai relativi piani di abitazione indicati come i canali del televisore da
una numerazione elettronica progressiva, possono avvenire scambi di sguardi e
tentazioni di intervento.
Acta est fabula.
Perfetta
realizzazione di una realtà del interamente virtuale, data ed accettata come
falsa perché concretamente irrealizzabile, ma percepita come vera e concreta e
in cui effettivamente attori veri convivono con esseri fantastici ed immaginari
meccanici se non del tutto assenti, Jurassic
Park, a differenza degli altri due film, non autorizza un'ipotesi di
interazione tra lo spettatore utente e lo schermo, obbligando la sala alla sola
passiva inalterabile visione di ciò che in quella distante ma visibile
alternativa realtà si svolge. Sebbene anche Last Action Hero e Sliver,
essendo film tradizionali su pellicola, non possano subire una vera
interpolazione da parte dello spettatore, nel loro mondo fittizio, essi
presentano un personaggio che oltrepassando i limiti fisici dello schermo rende
effettiva, sebbene univoca e non ulteriormente alterabile, la possibilità di
cangiare lo scorrere narrativo: questa figura è invece assente nell'ultima
pellicola di Spielberg che ribadisce i termini di una fruizione cinematografica
classica postulante l'inalterabilità della fabula.
L'esistenza passata dei dinosauri
essendo indiscutibile e a tutti nota, alimentata dalla florida messe di noti
film sull'argomento, il parco dei divertimenti creato da Spielberg risulta in
effetti abitato da immagini, provenienti da un
patrimonio fantastico collettivo, retaggio di antiquate pellicole, che
assumono finalmente moderno rilievo e credibile concretezza, emanazioni del
comune desiderio di vedere i grandi mitici mastodonti estinti finalmente vivi
ed in azione. Il film realizza quindi un sogno molto più diffuso di quello dei
soli paleontologi finalmente in diretto contatto con il soggetto dei loro
approfonditi e solamente teorici studi che trovano un'insperata tangibile
conferma.
Sebbene gli spettatori possano
perfettamente identificarsi nei personaggi in quanto specchio dei propri
desideri, il piano della finzione del film non accetta la permeabilità della
platea: I protagonisti del film non drammatizzano infatti la posizione reale
dello spettatore nei confronti dello spettacolo in quanto tale, o la sua
consapevole emanazione all'interno di quel contesto, non hanno la
consapevolezza critica della irrealtà del loro universo di appartenenza, ma vi
vivono percependolo come l'unica dimensione esistente ed accettabile. Il
contatto che lo schermo deve pertanto instaurare con gli astanti è puramente
emotivo, funzionante sulla sola proiezione ed identificazione emotiva, che
conduce all'illusione della conpartecipazine, non alla sua 'effettiva'
realizzazione.
Il trapasso oltre lo 'schermo' del
reale si traduce all'interno di questo film nell'annullamento dell'iniziale
segregazione dei dinosauri nelle gabbie sorvegliate, dai cui confini facilmente
poi evadono per irrompere all'esterno ed invadere il resto di un'isola (e del
mondo, come il libro suggerisce) altrimenti deputata al pacifico turistico
soggiorno umano. Lo schermo non sconfinando più nella realtà, all'interno
dell'unico universo di riferimento del film stesso, i dinosauri, frutto della
manomissione artificiale imposta dall'uomo e interamente fantastici, escono dal
loro coatto confino per filtrare nel mondo e sconvolgerlo, riportandolo ad un
equilibrio per loro naturale ma in cui gli uomini sono fuori luogo.
Il parco di divertimenti
tecnologico creato da Hammond e la clonazione su cui si basa, rappresentano
l'artificio attraverso il quale la fantasia (il sogno degli spettatori, il
soggetto di studio dei paleontologi) può prendere vita e miscelarsi alla realtà
dei personaggi dello schermo. Anche qui, il caos (causato dall sabotaggio del
sistema difensivo computerizzato), teorizzato dalla solamente funzionale
presenza in scena del matematico Malcolm, permette l'effettivo avvio di un
racconto che era sin lì sostato nella semplice presentazione dell'impianto
(narrativo del film, tecnologico del parco) nell'accorto prolungamento
dell'assenza dei dinosauri, evocati o sbirciati, ma mai del tutto veramente
visti nel pieno della loro potenza devastante, in uno spettacolo che si negava
poiché i dinosauri non davano mostra di quanto era possibile aspettarsi: come
nelle due pellicole precedentemente citate, il pericolo e la narrazione
iniziano con il rifiuto da parte di uno dei protagonisti di rispettare le
restrizioni deputate. Ancora una volta, all'interno dell'artificio che permette
l'esplosiva coesistenza di entità inconciliabili, la conseguente crisi
d'identità della 'realtà quotidiana' si traduce nella messa a repentaglio
dell'integrità fisica di parte dei protagonisti.
I due paleontologi, in quanto
conoscitori dei dinosauri e delle loro abitudini, possono, in base a questa
consapevolezza culturale, adeguatamente leggere il comportamento animale e
guidare loro stessi ed i bambini verso la salvezza e la conclusione del film. Essi
incarnano il consapevole principio di realtà che può guidare tra le insidie di
un mondo anacronistico, arcaico e contemporaneo insieme, derivato dalla
manipolazione tecnologica di dati reali.
A differenza degli altri due film,
in Jurassic Park gli esseri umani,
convivendo con le creature fantastiche, non collaborano con esse ma devono
quasi sempre combatterle, pena la loro sopravvivenza: il sogno diventa un
terribile incubo, perversamente attraversato dal contrastante sentimento di
ammirato affetto per creature estinte capaci di tornare in vita e riprodursi
prepotentemente e l'odio per la loro pericolosità. E se anche questo, come gli
altri film, si chiude con la rinnovata separazione tra i due mondi (l'isola,
destinata all'annientamento, e il resto), l'inevitabile distruzione dei
dinosauri è lasciata fuoricampo, solo suggerita e non, come crudelmente nel libro,
dettagliatamente descritta.
Paradosso temporale.
A molti lo scarto tra il film ed il
testo di partenza è parso inaccettabile, paradigma della tipica inequivocabile
egemonia delle mercificate esigenze dell'industria cinematografica a confronto
con l'artistica purezza dell'opera letteraria. Ma diversamente dal libro, il
cui senso risiede nella esemplificazione del pericolo di un progresso
scientifico selvaggiamente promosso da uno sconsiderato interesse
capitalistico, il film si sposta e risiede tutto in un piano eminentemente
metacinematografico, parlando dello stato attuale dell'industria
cinematografica (americana), e della sua eccessiva dipendenza dalla mediazione
tecnologica: non un film sui pericoli della scienza, ma sui pericoli del
destino del cinema, in cui la scienza assume sempre maggiore rilievo ed
preponderante importanza.
Anche in questa pellicola
assistiamo alla messa in scena dei meccanismi della fruizione audiovisiva,
postulando una percezione cinematografica scettica, svezzata dalla quotidiana
domestica revisione delle pellicole: l'intervento del dispendioso ingombrante
apparato di sofisticati trucchi tecnologici è diventato un inevitabile obbligo,
paradossalmente utile soltanto a 'mostrare' la finzione senza svelarne
l'artificio, renderela vera e credibile quantunque più fiabesca. L'occhio
attento ed indagatore del moderno spettatore cinematografico, del tutto simile
(anche per l'età) al bambino di Last
Action Hero, molto facilmente ormai individua le pecche che incrinano
l'illusione ed evidenziano la convenzione, le quali inevitabilmente poi portano
ad una fruizione mediata, non più diretta e partecipe ma critica e distante. La
fiducia nell'illusione cinematografica, inficiata dalla sola grossolanità della
sua narrazione, dalla tecnica superficialità del trucco, viene immediatamente
meno, come una nota dissonante insistita. In Jurassic Parc invece, l'effettiva esistenza dei dinosauri non è mai
minimamente messa in dubbio dalla fallacia dei trucchi, cosí che sullo schermo
e davanti agli occhi degli spettatori, gli animali realmente esistono, e la
paura che trasmettono diventa indiscussa e tangibile.
Jurassic Park mette in scena ed in mostra la macchina del film
stesso, con tanto degli inevitabili accessori del miliardario merchandising che affianca ogni grossa
produzione, messi in mostra ed in vendita prima che il film stesso e il parco
prendano vita per sfruttarne le potenzialità economiche. La clonazione altro
non è che l'immagine metaforica degli espedienti della "Industrial Light
and Magic" per ridonare 'vera' consistenza a dinosauri in precedenza fatti
vivere con i dubbiosi trucchi di vecchie pellicole, ormai del tutto inaccettabili.
L'antagonismo di Hammond nei confronti degli avvocati, burocrati delle banche e
di potenti finanzieri, non sembra molto diverso dai dissidi dei registi con i
produttori. E non è infine un caso se il titolo del film ricopia, anche nei
caratteri, il nome del parco, con tanto del vero simbolo del trade mark in apice, rimescolando
profondamente verità e fantasia ad un livello non dissimile da Last Action Hero.
In via d'estinzione.
La figura del dottor Hammond, il
cui ritratto presenta innumerevoli divergenze dall'originale letterario, non
possiede l'aura unicamente satanica e calcolatrice primitiva, ma acquista
un'apparenza quasi bonariamente sognante, diventa un mago infantile, capace di
muovere ingenti mezzi e capitali al solo fine di dar vita ai propri più remoti
sogni, di cui i dinosauri sono l'esempio più significativo. Da sempre
interessato a personaggi trascinati nel tentativo folle di realizzare i propri
sogni ossessivi e della difficile coesitenza di questi nell'ostilità scettica
del mondo reale esterno, Spielberg pare disegnare nel vecchio artefice del
parco un candido autoritratto. In una scena del tutto assente nel pretesto
letterario, il vecchio si confessa alla giovane paleobotanica rammentandosi
della semplice felicità derivata del suo primo parco di intrattenimento,
costituito da assenti pulci addomenticate, ma funzionante talmente bene da far
credere all'esistenza effettiva delle bestiole. Alla nostalgia del ricordo, si
affianca il rammarico di dover necessariamente ormai disporre di un imponente
armamentario tecnologico al solo stesso fine di poter divertire. La medesima
triste nostalgia per una forma di intrattenimento oramai estinta che sia
soltanto emozione ed evocazione e non volgare messa in mostra, si ritrova forse
nel film nel procrastinamento del palesamento dei dinosauri che costringe gli
spettatori a temporaneamente solo immaginarli. Lascia difatti sorpreso e deluso
l'anziano uomo di spettacolo l'insurrezione degli scienzati chiamati a
verificare la validità della creazione di Hammond che fuggono dal cinema e
dall'intattenimento appositamente preparato (cosí come dalla canonica passività
dello spettatore), per andare direttamente a vedere con i propri occhi i
dinosauri, che diventa cosí significativa immagine del generalizzato bisogno di
una visione diretta che fa a meno della mediazione affabulatrice del narratore,
per trasformarsi in immediata esperienza personale.
Nel suo rammarico per la fine uno
spettacolo dalla innocente pura semplicità (in cui è peró insita la necessità
della finzione), pare facile in filigrana svelare un intento polemicamente nostalgico
dello stesso Spielberg e la triste constatazione della morte di certo cinema,
in quanto spettacolo direttamente coinvolgente e capace di evocare una
"magia" che ancora anche Last
Action Hero dà come assunto. E i dinosauri, nella loro tardiva ribellione
al mondo circostante e all'imposizione di artificiali determinazioni e
delimitazioni alla loro libertà, corrispondono ad una implicita quanto vana
rivincita del cinema e della sua carica di libera evocazione fantastica, capace
di funzionare senza artifici nè restrizioni o a dispetto di esse, ció che rende
il finale del film piú consapevolmente positivo del lugubre esito del libro. E
paradossalmente, questi dinosauri, sia nella finzione cinematografica che nella
realtà produttiva del film, sono proprio il frutto della più raffinata e
sofisticata tecnologia scientifica. Non a caso l'altra figura vicaria del
regista nella narrazione, il paleontologo Alan Grant, è costretto non soltanto
ad accettare le leggi del mercato nelle generose interessate elargizioni di
Hammond, ma anche capitolare all'autorità dell'odiatissimo computer che, almeno
temporaneamente, gli salva la vita.
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