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di antonio fabbri

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Chiaro diario
 (1995)

A quattro anni di distanza dal precedente Palombella rossa, verso la fine del 1993, Nanni Moretti propone al pubblico italiano, poi mondiale dopo aver vinto il premio per la migliore regia al Festival di Cannes 1994, Caro diario, un film apparentemente anomalo nella sua produzione, ma per molti versi decisamente ‘morettiano’, e con il quale ottiene un importante successo al botteghino.
Alla vigilia della trasmissione televisiva del film sul primo canale Rai, e dell’uscita nelle sale de La seconda volta, pellicola prodotta ed interpretata da Nanni Moretti, ma diretta da Mimmo Calopresti al suo esordio, è forse interessante tornare a rivolgere una certa attenzione a Caro diario.
 

Opus sette.
Tutti i lavori cinematografici di Moretti mostrano un andamento fratturato ed intimamente episodico, una scrittura sincopata che procede per accumulo di scene concluse al loro interno, ma dove la narrazione è comunque raccolta entro una struttura unitaria. Questa, nelle sue linee generiche, vede Michele Apicella -alias Nanni Moretti- a confronto con diversi altri personaggi (in senso lato ‘con il mondo esterno’), ossia, in sostanza, con moduli di comportamento (che si traducono anche in diverse forme e scelte di espressione verbale) alternativi ai propri, e con i quali Apicella si trova quasi sempre in acceso e spesso comico contrasto.
In Caro diario, invece, la narrazione è volutamente frazionata in capitoli ben separati e tra loro poco connessi, con tanto di stacco di cesura sottolineato da un cartello introduttivo con il titolo (una pagina a righe del diario), e da un andamento stilistico autonomo, diverso per ogni sezione. I tre espliciti episodi (nell’ordine: “In vespa”, “Isole” e “Medici”) in cui è partito il film, sono tenuti insieme dal filo diaristico e dalla presenza dello stesso Moretti che legge direttamente agli spettatori le pagine di questo quaderno di memorie (aperto all’inizio del primo e dell’ultimo capitolo, e chiuso alla fine): da ciò naturalmente consegue l’assunzione della prima persona narrante.
A conferire maggiore autenticità a quest’assunto iniziale, è il fatto che Moretti, questa volta, si mostra spoglio della nota maschera del consueto alter ego, facendo quindi mancare il filtro pressoché costante[1]che il regista aveva sempre interposto tra sé ed il pubblico.
Non vi è pertanto in Caro diario una frattura, decisa o polemica, con gli altri film, ma l’accentuazione di elementi preesistenti: la tendenza episodica si conferma e chiarisce; il difficile, spesso angosciante confronto tra il protagonista e gli altri personaggi è ribadito come schema narrativo basilare; si ripete inoltre la preminenza di un ruolo-guida interpretato dallo stesso regista, con in più la nuova completa rinuncia, semplice ed audace insieme, a rivestire panni fittizi.
Eppure Caro diario è anche un film intimamente nuovo, e presumibilmente liminare ad una svolta nella produzione morettiana. 

“In vespa”.
I tre capitoli, apparentemente così distinti, si lasciano comunque riunire e ricucire insieme da sottili fili connettivi, da assonanze e precisi rimandi che costruiscono e mantengono una forte unità tematica e formale.
Nel primo capitolo, la libertà fisica di percorrere a proprio piacimento la città vuota si traduce in mobilità anche stilistica e narrativa: unico pretesto costitutivo è il resoconto del piacere di andare in vespa per Roma, meglio se deserta. Il film e l’episodio iniziano come l’avvio di un tema scolastico (“C’è una cosa che preferisco fare più di tutte!”), che prelude ad uno svolgimento apparentemente alieno da ogni costrizione costruttiva di trama, in cui la vespa si pone come unico elemento ricorrente e connettivo.
“In vespa” si profila comunque sin dall’inizio, più che come un semplice percorso motociclistico per le vie della capitale, soprattutto come un viaggio nel cinema contemporaneo:
“d’estate a Roma i cinema sono tutti chiusi, oppure ci sono film come Sesso amore e pastorizia, Desideri bestiali, Biancaneve e i sette negri, oppure qualche film dell’orrore come Henry, oppure qualche film italiano”. Il cinema italiano corrente viene prontamente illustrato da un finto estratto in cui palese é l’allusione al lamentoso ‘giovane cinema’ di Marino, di Barzini, anche di Salvatores e delle altre vittime del riflusso sessantottino. I loro film sono pieni di adulti insoddisfatti perché incapaci di realizzare i sogni o i progetti giovanili, di mantener fede alle antiche certezze, imbruttiti e delusi dagli anni e dalla vita, privi adesso dei rassicuranti dogmi dell’ideologia e con la sola compagnia di malesseri più o meno esistenziali. Con loro, Moretti rifiuta energicamente di identificarsi: “VOI gridavate cose orrende e violentissime, e VOI siete imbruttiti. Io gridavo cose giuste, e ora sono uno splendido quarantenne”.
Girando per la città, a volte stufo di guardare la case da fuori (più tardi nell’episodio esprimerà il desiderio di fare un film di sole case), Moretti dice di provare a suonare alle porte per il semplice gusto di vedere anche “come sono fatte dentro” le abitazioni che lo attirano, e per giustificare la visita e farsi aprire, giocando con la propria immagine ‘pubblica’, improvvisa improbabili ma plausibili trame di un film in procinto di fare (“un musical su un pasticciere trotzkista nell’Italia conformista degli anni Cinquanta”) per il quale starebbe compiendo dei sopralluoghi.
In una disertata sala del Circuito Cinque, Moretti vede Henry, pioggia di sangue (Henry: Portrait of a Serial Killer) di John McNaughton, di cui mostra un
paio di macabri brani, disturbato ed imbarazzato dall’abuso di sangue e violenza. Egli nega al film qualsiasi interesse[2] tanto da prendesela con l’esaltata critica cinematografica che lo ha osannato (impersonata poi da Carlo Mazzacurati piangente a cui il regista legge, come capi d’accusa, stralci da veri giudizi giornalistici), colpevole di ridurre ogni recensione ad un sillabario ideologico farneticante, zuppo di ostentati neologismi e febbricitanti anglicismi in una prosa violenta ed imbonitoria, ma soprattutto incapace di valutare l’effettivo valore delle pellicole.
L’episodio parte da ciò che a Moretti piace (andare in vespa; Roma), si accanisce quindi con ciò che gli dispiace (il cinema, la critica cinematografica italiana), passando da quello che gli piacerebbe avere (un attico) o fare bene (ballare). “In vespa” distilla i particolari giudizi del regista (soprattutto negativi, che si trasformano in aperte invettive) distinguendo quel poco con cui concorda dal molto restante, ne registra le abitudini e le ambizioni o i progetti (reali e fittizi, cinematografici come quotidiani), in un percorso libero e privato che giunge a destinazione e si cristallizza nella massima che è anche il vero fulcro dell’episodio, e in fondo nucleo vitale di tutto il cinema di Nanni Moretti: “anche in una società più decente di questa, mi ritroverò sempre con una minoranza di persone [...] Non credo nella maggioranza delle persone; mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d’accordo con una minoranza”.
In perfetta consonanza con questo assioma, il capitolo termina con un omaggio a Pier Paolo Pasolini. “Non so perché, ma non ero mai stato nel posto dove hanno ammazzato Pasolini”: e Moretti vi si reca con un lungo piano-sequenza, accompagnato dal toccante brano del Köln Concert di Keith Jarrett, raggiungend, in vespa quel tratto del lungomare di Ostia dove il poeta venne assassinato (e ancora non si sa bene da chi, né perché[3]), e dove solo una piccola scultura astratta, persa nell’erba alta di un campo di calcio abbandonato, lo ricorda. Autore cinematograficamente diversissimo da Moretti, Pasolini immetteva in ogni scritto o film una partecipazione personale ed un’intimità inusitate, quasi impudiche, unite ad un severo ed inattaccabile rigore intellettuale politico e morale, l’irrinunciabile necessità della verità e della denuncia, l’odio profondo per ogni corruzione o compromesso, facendo di ogni opera l’espressione diretta e inconfutabile del proprio parere e posizione, a costo dell’antipatia e dell’avversione. Non sorprende che Moretti si rivolga alla sua memoria e a quell’esempio, troppo presto e facilmente dimenticato, per rammentarlo e forse anche rivendicare una parentela ed un’eredità, soprattutto in un film per molti versi ‘estremo’ come Caro diario

“Isole”.
La leggerezza e semplicità del primo episodio, che rinuncia a personaggi o a schemi drammaturgici classici, può quasi essere letta come un implicito invito a fare cinema, avendo idee e pur non disponendo di ingenti mezzi: quasi tutto è girato con macchina fissa o in camera-car a seguire la vespa per la città, utilizzando come colonna sonora la voce fuori campo del regista intercalata a brani musicali preesistenti, quasi senza audio in presa diretta, come un piccolo film ‘amatoriale’ che potrebbe essere facilmente girato in video o in superotto, chiedendo ad amici e conoscenti di interpretare piccole parti.
Nel secondo episodio, “Isole”, Moretti, pur ripresentandosi in vesti spoglie di maschera e continuando nella stesura del diario, ricorre ad una struttura più elaborata, ad un racconto vero e proprio, seppur breve, dal tono molto simile ai film precedenti: è l’episodio che più degli altri potrebbe essere tacciato di ‘morettismo’. “Isole” era infatti anche il titolo del progetto iniziale da cui è infine nato Caro diario, accantonato, poi riscritto e trasformato, bloccato forse dallo scrupolo di non volersi ripetere tornando a stile e schemi noti, in parte già superati con Palombella rossa.
In “Isole” la ricerca formale e fotografica appare più avanzata (il passaggio della nave dietro al campo di calcio; il variare del sole sulla spiaggia di Stromboli, ad esempi); Nicola Piovani scrive espressamente almeno quattro diversi brani musicali per accompagnare le immagini; personaggi veri e propri si muovono accanto al regista: è insomma, in un’accezione comune, un film di fiction, seppur piccolo.
Ma sostanziale differenza rispetto ai precedenti lavori è la già accennata assenza di ‘personaggio’ per il protagonista: Moretti è un regista di nome Nanni Moretti, un po’ in crisi perché a corto della tranquillità necessaria alla stesura della prossima sceneggiatura, tanto da dover andare a Lipari da un amico, Gerardo, interpretato da Renato Carpentieri, arroccato da undici anni in snobistico isolamento per studiare l’Ulisse di Joyce. I due, poiché è impossibile concentrarsi nella improvvisa confusione dell’isola, iniziano un viaggio tra le Eolie, ognuna dotata di una particolare caratteristica.
Ad ogni isola corrisponde infatti un atteggiamento estremo, radicale e senza concessioni, assoluto sino al fanatismo, che imita in forma parodica l’evoluzione di molti reduci della contestazione: il ripiegamento intellettualistico nella cultura più alta (o in quella televisiva), la devozione completa e totalizzante alla famiglia, la necessità di essere visibilmente ‘à la page’, l’intraprendente edonismo esibizionista, l’ostico geloso ed irriducibile isolazionismo, l’abbandono del passato (il “viaggio” nell’accezione di Salvatores, che di quest’opzione ha fatto un marchio) ed il ritiro spirituale, preferibilmente ad imitazione di un personaggio esemplare e mistico. Questi comportamenti compongono una specie di catalogo delle scelte di molti non ‘splendidi’ quarantenni[4], e riallacciano l’episodio ad analoghi ritratti ‘generazionali’ proposti da quasi tutti i film di Moretti.
La peculiarità maggiore ed innovativa di “Isole” rispetto al resto del cinema di Moretti, é il fatto che il vero protagonista dell’episodio non sia il regista, bensì Gerardo, l’amico all’improvviso vittima del fascino perverso e semplice della televisione: Moretti funge quasi da spalla di Carpentieri, servendo ad innescare la narrazione, a motivarla e muoverla da isola ad isola, ma con un intervento limitato. Ne é esempio significativo la scena del rapimento estatico di Gerardo nei confronti della televisione, durante il primo trasbordo: la macchina da presa inquadra entrambi gli amici intenti a leggere, ma abbandona Moretti per seguire Gerardo che si avvicina a brevi e nervosi tratti, sempre il libro alla mano, al teleschermo.
Similmente emblematica è la sequenza delle fallite  telefonate intercettate dai “figli unici”, dove ai vani sforzi di Moretti di farsi passare i genitori dai bambini, rispondono simili tentativi di molti altri adulti: il regista, un adulto tra i tanti, si limita ad innescare e chiarire la situazione col commento della lettura ad alta voce -in campo- delle pagine del diario, confermando le parole con gli altri esempi; alla fine della scena, mentre molti rimangono ancora al telefono, Moretti si aggira tra loro, quasi a controllare e insieme dimostrare la veridicità di quanto scritto nel diario, senza più intervenire direttamente.
Moretti agisce poco anche nel resto dell’episodio, limitandosi ad ascoltare i lamenti e le osservazioni degli apprensivi genitori di Salina, ad interrogare a Stromboli alcuni turisti americani di passaggio sulle ultime novità dell’avviluppata trama di Beautiful, o ad intervenire saltuarmente con brani del diario (che qui diventa resoconto di viaggio) al cambiare dell’isola: è infine addirittura abbandonato ad Alicudi da Gerardo in fuga isterica per troppa astinenza da tv[5].

“Medici”.
“Isole” è l’episodio che più facilmente potrebbe far riconoscere stilemi morettiani, ma fornisce anche elementi inediti, soprattutto di allontanamento da quell’‘egocentrismo’ (nel senso di riduzione di tutto a sé ed enfatizzazione del proprio punto di vista) che a Moretti è stato spesso rinfacciato[6]. Ed è interessante notare la progressione del ‘personaggio’ nel passaggio dal primo al secondo episodio: “In vespa” è mosso e portato innanzi dal regista, il quale in “Isole” si trova ad avere un ruolo quasi marginale e praticamente privo di battute. Questa posizione si acuisce dolorosamente in “Medici”, in cui, suo malgrado e pur essendo sempre in scena, Moretti è in letterale balia degli specialisti ai quali si rivolge con la fiduciosa impotenza del profano[7]. Progressivamente quindi, all’interno di Caro diario, Moretti perde ‘il controllo’ dell’episodio, si allontana dal centro motore venendo sempre più ‘agito’ dagli eventi e dalle persone che ha intorno.
“Medici” è il capitolo di Caro diario che più di tutti si avvicina al genere di dolorosa privata confessione che è frequente riscontrare tra le pagine di un diario. “Nulla di questo capitolo è inventato”, premette lo stesso Moretti che inserisce nell’episodio anche un frammento di registrazione, in pellicola 16mm, della chemioterapia a cui è stato sottoposto al termine di infruttuose e frustranti -oltre che pericolose- ricerche sull’origine dell’infernale prurito che lo assillava. Il frammento di verità, a dispetto della logica cronologica, è posto in testa all’episodio, a conferma della effettiva veridicità, peraltro affermata in voce off, del resoconto che il regista , per necessità di narrazione, è costretto a ricostruire.
Nel seguire le tappe dell’odissea medica, ricercando il massimo di verità, il racconto assume comunque toni assurdi e grotteschi (ma mai decisamente comici), non molto dissimili dalla vaga accentuazione caricaturale che il regista spesso imprime alle proprie invenzioni cinematografiche: qui la verità è infatti già da sé talmente sorprendente e paradossale che Moretti, per sottolinearla, elimina ogni enfasi recitativa e spoglia di ogni orpello vistoso la regia: basta uno sguardo sconsolato nel bagno di cereali, o lo sconcerto con cui rovista nel frigo, dopo essere risultato allergico ad un’infinità di cibi, per raccontarci egregiamente il suo stato d’animo.
In questo episodio, ancor più che in “In vespa”, l’assunzione della prima persona narrante acquista senso, poiché è lo stesso Giovanni Moretti[8], marginalmente di mestiere regista cinematografico, ad aver sofferto e subito le sbagliate diagnosi e le tentate cure di qualificati incompetenti. Egli non assume nessun ruolo, né avrebbe potuto farlo parlando della propria malattia, e si mette in scena solo per raccontare, negli stessi luoghi (l’ospedale, la casa) dove i fatti si sono svolti, con rigore quasi documentaristico (e diaristico) i fatti e le vicissitudini.
In conclusione di “Medici”, Moretti è in un bar, circondato dalle scatole di medicinali inutili e delle relative prescrizioni mediche, a tirare le somme della vicenda -e di tutto il film-, dopo aver scritto l’ultima parola sul quadernetto. Iniziato come un tema scolastico, Caro diario si chiude con la morale della favola, l’insegnamento che il regista ha tratto da quello che ha passato: “una cosa però l’ho imparata. No, anzi, due: la prima è che i medici sanno parlare, però non sanno ascoltare [...]; la seconda cosa che ho imparato, è che la mattina, prima di colazione, fa bene bere un bicchier d’acqua”.
“Inevitabilmente”, come canta Fiorella Mannoia sui titoli di coda, il film si congeda dai suoi spettatori con uno sguardo in macchina: era lecito aspettarselo sin dall’inizio in un film che rinuncia in partenza a qualsiasi filtro o artificio narrativo classico per rivolgersi direttamente allo spettatore. Ma è solo alla fine che Moretti si decide ad annullare l’ultima convenzione cinematografica residua, denunciando il film in quanto mera finzione, rivelando -guardandola- l’ubicazione e l’esistenza della macchina da presa. 

Chiaro diario.
Nelle precedenti vesti di Michele Apicella, Moretti si è sempre trovato a combattere a schiaffi o urla contro i luoghi comuni, le soluzioni facili, le vuote convenzioni linguistiche, gli odiati abusati prestiti lessicali da altre lingue per cercare di arrivare ad una limpida chiarezza, giungere all’essenziale nella comunicazione. A questa medesima ricerca di fedeltà e semplice sincerità è improntato anche Caro diario, dove l’epurazione stilistica raggiunge livelli inediti per la caduta di ogni cortina tra il regista ed il suo ‘personaggio’[9]. Anche l’accesa polemica con il critico cinematografico interpretato da Carlo Mazzacurati nel primo capitolo é improntata ad un’identica necessità di chiarezza espositiva, troppo spesso volutamente -quindi colpevolmente- assente nel giornalismo (cinematografico)[10]. In “Isole”, ogni personaggio è chiuso in una privata mania che gli impedisce di comunicare egregiamente con chi non la condivide: non è solo l’improvvisa telefilia di Gerardo, ma anche la timorosa sottomissione dei genitori di Salina, “dominata dai figli unici”, o la forsennata voglia del sindaco di Stromboli di dare un’identità comunque vistosamente riconoscibile all’isola, oppure l’artificiosa festosità ‘kitsch’ di Panarea, quanto l’ostentato e ricercato isolamento di Alicudi. Di fronte a tanta eccentrica stranezza, Moretti confessa: “mi sento felice solo in mare, nel tragitto tra un’isola che ho appena lasciato e una che devo ancora raggiungere”.
Caro diario, nel suo complesso, è un invito alla semplicità, che non fa deviare minimamente il percorso cinematografico fin qui tracciato dal regista perché, anzi, lo approfondisce. E questo attraverso una struttura ad episodi che ripercorre le tappe fondamentali della sua carriera. “In vespa” ha infatti un andamento simile ai primi lavori in superotto, a cui rimanda per semplicità d’impianto e di narrazione; “Isole” ricorda il periodo successivo e più noto dei lungometraggi, da Io sono un autarchico (ancora in superotto, manifesto programmatico, sin dal titolo, di una precoce indipendenza produttiva e ideologica nel pieno degli anni Settanta, con l’aggiunta di una palese provocazione nella scelta lessicale) in poi, sino a Palombella rossa, in cui il ricorrente schema dall’andamento ‘paratattico’ si complica con un uso complesso ed articolato dei flash-back e dell’unità di luogo nell’ambiente, metaforico e reale, della piscina; “Medici” apre invece un nuovo capitolo, la cui urgenza é nel resoconto -realmente diaristico- della malattia.
Forse quest’ultima evoluzione è in parte anche influenzata dall’esperienza documentaria de La cosa, sul travaglio del trapasso del PCI, dove non vi è manomissione nei materiali utilizzati, ed il montaggio diventa puro assemblaggio di brani ‘registrati’ in 16mm. Ma in “Medici” questa accezione letterale di ‘cinema-verità’ si complica ed articola. Di fronte ad un ennesimo dottore, ad esempio, Moretti, nel bel mezzo di una ulteriore prescrizione visibilmente inutile, si alza, riveste e se ne va, mentre il dermatologo continua a compilare la ricetta. Si tratta di un gesto decisamente contrastante con lo stile dell’episodio, perché la veridicità dell’insieme viene contraddetta dall’irrealtà di un’azione non plausibile a livello letterale, accettabile solamente su un piano traslato in quanto espressione di un desiderio di fuga evidente, inespresso a parole, ed unica stanca risposta all’ennesimo inutile verdetto medico.
Questo breve frammento è quasi un piccolo (as)saggio di regia, di stile morettiano, un semplice gesto simbolico, con cui il regista si riappropria della verità per leggerla a suo modo, con licenze che all’inizio dell’episodio non sembrava volersi concedere. Simili contravvenzioni alla convenzione narrativa cinematografica si ritrovano invece disseminate ovunque nell’episodio, perché vi è spesso l’introduzione verbale (con brani diaristici) di molte scene direttamente in campo -ed in presenza del medico-, senza timore di contagiare l’integralità ed integrità della finzione, o la sua plausibilità. Questo crea una continua frattura temporale che miscela il presente del diario ed il passato della malattia, il quale viene così automaticamente riattualizzato dalla enunciazione dei brani del quaderno che interrompono la scena per commentarla come dei vistosi a parte. Inoltre, dei tre episodi, “Medici” è l’unico che ha una precisa ‘giustificazione’ narrativa, identificandosi come un flash-back dello stesso Moretti durante la stesura del diario, aperto infatti all’inizio e richiuso alla fine del capitolo[11].

Caro diario è un film sull’immagine che Moretti ha e dà di sé, assunta come tale e criticata, una messinscena della propria persona ed identità. Non solo egli ripercorre le grandi linee della propria produzione, ma tratta, quasi più che della propria intimità, di come viene percepito dagli altri: di sé, quindi, in quanto personaggio, e del ‘morettismo’ come riduzione a cliché delle tipologie narrative e comportamentali ricorrenti nel suo cinema. “Isole”, in questo senso, incarna il morettismo più propriamente stilistico, mentre “In vespa” conferma impressioni sul suo carattere che possono trarsi dai film[12], tanto che é Moretti stesso a suonare alle porte fingendo di girare un film su un “pasticciere trotzkista”, assumendo pertanto in toto il ruolo del ‘Moretti’ noto. Nel primo episodio, il regista compila appunto un autoritratto che riassume e precisa i tratti noti di Michele che si sono automaticamente travasati nel personaggio ‘Moretti’, aggiungendovi elementi privati ed inediti.
Nel suo ultimo film, Moretti si disfa forse della nota maschera di Apicella, ma mantiene ed amplifica quella che automaticamente gli viene attribuita: e tra le pieghe di essa, inserisce brani di assoluta sincerità, che comprendono la quasi interezza del primo e del terzo capitolo del diario, forse anche giocando con lo spettatore e la sua accortezza nel disvelare il piano ‘ludico’ del film: ed è anche in questo senso che va forse inteso lo sguardo ambiguamente ironico che conclude “Medici” e sigilla Caro diario, terminando la finzione narrativa per presentare Moretti in fine privo anche delle ultime protezioni conferite dall’artificio cinematografico. Esse sono state appieno utilizzate nel terzo capitolo, con il quale perfino il cinema si spoglia delle sue convenzionali falsificazioni.
Per il già notato progressivo allontanamento dal centro dinamico di ogni episodio, Caro diario potrebbe essere inteso come un congedo catartico di Moretti, non solo da Michele Apicella -di cui sembra smettere per sempre gli abiti- e dal ‘morettismo’ che il personaggio ha contribuito a creare, ma anche della propria centralità narrativa: se già in “Isole” egli funge da semplice invito al racconto[13] e al viaggio, in “Medici” è mosso dalle diagnosi e dalle relative cure prescritte, ed è totalmente dipendente dalle parole dei dottori, per quanto incompetenti o superficiali. E se vogliamo, forse forzando, estrapolare questa tendenza, si potrebbe pensare ad un successivo prossimo film in cui il regista-attore, non più Apicella né ‘Moretti’, assuma un diverso ruolo e crei un altro -e quindi nuovo- personaggio[14]. O addirittura assuma la sola regia del film.

Caro diario appare comunque un punto di non ritorno nella produzione di Moretti, che lascia sospettare una svolta ed un rinnovamento totale nel suo cinema, dopo un riepilogo per molti versi già introduttivo di sostanziali varianti.




[1]Michele Apicella è il nome del protagonista di Io sono un autarchico, Ecce bombo, Sogni d’oro, Bianca e Palombella rossa. Il personaggio centrale de La messa è finita si chiama invece don Giulio.
[2]Il giudizio di Moretti è troppo severo per un film che sceglie di raccontare le assurde esplosioni di cieca e forsennata violenza di un assassino plurimo, ma senza assumerne il punto di vista, bensì cercando di ritrarlo con obiettiva distanza, affinché la brutalità delle scene sia funzionale alla creazione di un orrore straniante che impedisca l’identificazione e la compiacenza. Purtroppo, il film è alla fine avvilito da un’americanissima spiegazione psicanalitica delle azioni di Henry, che rischia, banalizzando l’intero racconto, addirittura di giustificare il serial killer.
[3]Poco dopo la conclusione dell’ultimo Festival di Venezia dov’era presentato, è uscito sugli schermi italiani il film di Marco Tullio Giordana dedicato alla morte di Pasolini, il cui sottotitolo emblematico è “un delitto italiano”. Il film, più utile che bello, emulando la struttura investigativa di JFK, riapre il caso di un delitto eccellente la cui soluzione giudiziaria (l’accusa del solo Pelosi) non è mai stata soddisfacente ed è stata la prima delle ripetute censure che hanno quasi cancellato la scomodissima figura dell’artista dalla vita culturale italiana. Il tipo di cinema proposto da Pasolini (soprattutto nelle ultime opere: la “trilogia della vita” e Salò), poiché improponibile in televisione, non esiste praticamente più, ora che il piccolo schermo ha preso il posto dei vecchi cineclub assumendosi il ruolo di educatore e detentore della memoria collettiva (anche) cinematografica. La tv, dettando inoltre legge in materia di produzione cinematografica, impedesce già preventivamente la realizzazione di film che non può trasmettere: non ci sarebbe quindi più spazio nel cinema contemporaneo per Pasolini. Tra i ringraziamenti, nei titoli di coda di Pasolini, tra gli altri figurano anche i nomi di Angelo Barbagallo e Nanni Moretti.
[4] Si tratta quindi di un legame, stretto e sostanziale, con il primo capitolo, in cui si articola la dimensione esistenziale dei personaggi intravisti nello scorcio di film italiano. Inoltre, all’inizio di “Isole”, mentre aspetta una spremuta d’arancia e un panino con mozzarella e pomodoro (e non una fetta di Sacher o di un’altro dolce, come potremmo aspettarci), Moretti si mette a guardare in televisione parte di un vecchio film con Silvana Mangano che in un flash-back, balla un mambo in un locale: di rimando, anche il regista, dall’altro lato dello schermo, accenna a qualche passo sulla musica accattivante del film. Questo momento di “Isole” funziona effettivamente da ponte tra i due episodi, sull’eco della passione per il ballo manifestata in precedenza (che porta Moretti a riabilitare un film bruttino e di poco conto come Flashdance, “un film solo sul ballo”), e a preannunciare uno dei temi portanti del nuovo capitolo: la televisione, e la conseguente metamorfosi involutiva di Gerardo.
[5]Gerardo infatti rimane totalmente soggiogato dal piccolo schermo, che lo attrae e contamina con la sua intricata ed elementare affabulazione (una soap opera) sin dal primo traghettamento, da rinnegare il colto isolamento in cui si era barricato per trent’anni durante i quali si era orgogliosamente rifiutato di guardare la tv. Egli cerca inizialmente di giustificare la nuova passione esibendo criptiche citazioni dotte, ma a poco a poco smarrisce ogni residuo critico o distacco intellettuale per alimentarsi di sola televisione, confondendo il contenuto delle trasmissioni con il loro contenitore catodico, che tutto comprende ed omologa. Gerardo, perdendo infine grottescamente ogni residuo inibitorio, si annulla nella contemplazione della tv, al contrario di Moretti. Questi infatti, sin dall’inizio, dimostra e mantiene la capacità di ‘personalizzare’ tutto, compresa la tv, riscattandone così anche la banalità. Dopo la scena del ballo di riflesso alla tv, con disprezzo Gerardo gli chiede se stava guardando la televisione; Moretti risponde che “non era la televisione, era un film strano [...]”.
[6]Non vi è quasi più nulla di diaristico in “Isole”, e l’uso della prima persona narrante appare quasi solo come un espediente retorico narrativo necessario per collegare il capitolo agli altri.
[7]I medici ricambiano la fiducia di Moretti trattandolo come un paziente ignorante, ma soprattutto cercando la malattia senza realmente leggerne i segnali nei sintomi descritti o riscontrati, ricorrendo a cure spesso di comodo e mai totalmente risolutive, sebbene la risposta fosse talmente semplice ed evidente da potersi reperire nell’Enciclopedia Medica Garzanti.
[8]Nel terzo episodio, vengono espressamente dette le sue generalità: “Giovanni Moretti, nato a Brunico il 19 agosto 1953, abitante a Roma”.
[9]Percorre tutto il film (e la produzione intera di Moretti) una sottile pellicola di angoscia e solitudine. Per Michele Apicella la solitudine è spesso scelta inevitabile per chi, come lui, totalmente e con rabbioso orgoglio, rifiuta banalità e generalizzazioni, correndo così sempre il rischio di rimanere incompreso per non voler essere frainteso.
[10]Cercando altri sotterranei punti di contatto tra gli episodi, uno dei film di cui Moretti legge le nebulose onanistiche recensioni in “In vespa” è Cuore selvaggio di David Lynch, un film che volutamente assume lo stile o la grammatica televisiva (e l’argomento della tv richiama il secondo capitolo), con un’operazione di perfetta mimesi che rimanda al destino dei film in tv, trasformati in specifico televisivo al momento del loro passaggio. Per ulteriori approfondimenti sul film cfr. ANTONIO FABBRI, Psicopatologia americana, in “Plurale”, n. 2 (luglio-dicembre 1991), Anno 1, Firenze.
[11]Poiché il diario viene aperto anche all’inizio di “In vespa, tutto il film potrebbe essere giustificato allo stesso modo: per “Medici” vi sono però precise ‘parentesi’ che sono assenti negli altri episodi, e che quindi gli conferiscono un diverso rilievo.
[12] Jennifer Beals riassume, traducendo il termine inglese “off”, la sua prima impressione del “feet-maniac” che li ha abbordati: “speciale, particolare, verso ‘pazzo’ ma non ancora”: “quasi scemo” in sintesi, agli occhi dei più. La ricorrenza delle medesime caratteristiche caratteriali (e dello stesso personaggio) da film a film ha aiutato la facile completa identificazione tra l’interprete ed il suo camuffamento protettivo e liberatorio. Michele Apicella è sempre parso, più che un fedele autoritratto di Moretti o un personaggio del tutto separato, un’accentuazione parossistica e masochistica delle caratteristiche e dei difetti dello stesso regista.
[13]Con estrema frequenza Moretti si inquadra di spalle, intento a guardare altrove verso qualcosa di più importante del suo volto, come se la macchina da presa dovesse seguirlo, anche fisicamente, per procedere nel racconto. Numerose sono anche le inquadrature che lo riprendono da lontano, quasi perso nella profondità di campo.
[14]Cosa che, con Il portaborse e La seconda volta, sta già facendo nel cinema di altri, sebbene entrambi i film siano riconducibili alla sua casa di produzione.

     (tutti i testi sono proprietà di antonio fabbri)
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