A quattro anni di distanza dal
precedente Palombella rossa, verso la fine del 1993, Nanni Moretti
propone al pubblico italiano, poi mondiale dopo aver vinto il premio per la
migliore regia al Festival di Cannes 1994, Caro diario, un film
apparentemente anomalo nella sua produzione, ma per molti versi decisamente
‘morettiano’, e con il quale ottiene un importante successo al botteghino.
Alla vigilia della trasmissione
televisiva del film sul primo canale Rai, e dell’uscita nelle sale de La
seconda volta, pellicola prodotta ed interpretata da Nanni Moretti, ma
diretta da Mimmo Calopresti al suo esordio, è forse interessante tornare a
rivolgere una certa attenzione a Caro diario.
Opus sette.
Tutti i lavori cinematografici
di Moretti mostrano un andamento fratturato ed intimamente episodico, una
scrittura sincopata che procede per accumulo di scene concluse al loro interno,
ma dove la narrazione è comunque raccolta entro una struttura unitaria. Questa,
nelle sue linee generiche, vede Michele Apicella -alias Nanni Moretti- a confronto con diversi altri personaggi (in
senso lato ‘con il mondo esterno’), ossia, in sostanza, con moduli di
comportamento (che si traducono anche in diverse forme e scelte di espressione
verbale) alternativi ai propri, e con i quali Apicella si trova quasi sempre in
acceso e spesso comico contrasto.
In Caro diario, invece,
la narrazione è volutamente frazionata in capitoli ben separati e tra loro poco
connessi, con tanto di stacco di cesura sottolineato da un cartello
introduttivo con il titolo (una pagina a righe del diario), e da un andamento
stilistico autonomo, diverso per ogni sezione. I tre espliciti episodi
(nell’ordine: “In vespa”, “Isole” e “Medici”) in cui è partito il film, sono
tenuti insieme dal filo diaristico e dalla presenza dello stesso Moretti che
legge direttamente agli spettatori le pagine di questo quaderno di memorie
(aperto all’inizio del primo e dell’ultimo capitolo, e chiuso alla fine): da
ciò naturalmente consegue l’assunzione della prima persona narrante.
A conferire maggiore autenticità
a quest’assunto iniziale, è il fatto che Moretti, questa volta, si mostra
spoglio della nota maschera del consueto alter
ego, facendo quindi mancare il filtro pressoché costanteche
il regista aveva sempre interposto tra sé ed il pubblico.
Non vi è pertanto in Caro
diario una frattura, decisa o polemica, con gli altri film, ma
l’accentuazione di elementi preesistenti: la tendenza episodica si conferma e
chiarisce; il difficile, spesso angosciante confronto tra il protagonista e gli
altri personaggi è ribadito come schema narrativo basilare; si ripete inoltre
la preminenza di un ruolo-guida interpretato dallo stesso regista, con in più
la nuova completa rinuncia, semplice ed audace insieme, a rivestire panni
fittizi.
Eppure Caro diario è
anche un film intimamente nuovo, e presumibilmente liminare ad una svolta nella
produzione morettiana.
“In vespa”.
I tre capitoli, apparentemente
così distinti, si lasciano comunque riunire e ricucire insieme da sottili fili
connettivi, da assonanze e precisi rimandi che costruiscono e mantengono una
forte unità tematica e formale.
Nel primo capitolo, la libertà
fisica di percorrere a proprio piacimento la città vuota si traduce in mobilità
anche stilistica e narrativa: unico pretesto costitutivo è il resoconto del
piacere di andare in vespa per Roma, meglio se deserta. Il film e l’episodio
iniziano come l’avvio di un tema scolastico (“C’è una cosa che preferisco fare
più di tutte!”), che prelude ad uno svolgimento apparentemente alieno da ogni
costrizione costruttiva di trama, in cui la vespa si pone come unico elemento
ricorrente e connettivo.
“In vespa” si profila comunque
sin dall’inizio, più che come un semplice percorso motociclistico per le vie
della capitale, soprattutto come un viaggio nel cinema contemporaneo: “d’estate a Roma i cinema
sono tutti chiusi, oppure ci sono film come Sesso amore e pastorizia, Desideri
bestiali, Biancaneve e i sette negri, oppure qualche film
dell’orrore come Henry, oppure qualche film italiano”. Il cinema
italiano corrente viene prontamente
illustrato da un finto estratto in cui palese é l’allusione al lamentoso
‘giovane cinema’ di Marino, di Barzini, anche di Salvatores e delle altre
vittime del riflusso sessantottino. I loro film sono pieni di adulti
insoddisfatti perché incapaci di realizzare i sogni o i progetti giovanili, di
mantener fede alle antiche certezze, imbruttiti e delusi dagli anni e dalla
vita, privi adesso dei rassicuranti dogmi dell’ideologia e con la sola compagnia
di malesseri più o meno esistenziali. Con loro, Moretti rifiuta energicamente
di identificarsi: “VOI gridavate cose orrende e violentissime, e VOI siete
imbruttiti. Io gridavo cose giuste, e ora sono uno splendido quarantenne”.
Girando per la città, a volte
stufo di guardare la case da fuori (più tardi nell’episodio esprimerà il
desiderio di fare un film di sole case), Moretti dice di provare a suonare alle
porte per il semplice gusto di vedere anche “come sono fatte dentro” le
abitazioni che lo attirano, e per giustificare la visita e farsi aprire,
giocando con la propria immagine ‘pubblica’, improvvisa improbabili ma
plausibili trame di un film in procinto di fare (“un musical su un pasticciere trotzkista nell’Italia conformista degli
anni Cinquanta”) per il quale starebbe compiendo dei sopralluoghi.
In una disertata sala del
Circuito Cinque, Moretti vede Henry, pioggia di sangue (Henry:
Portrait of a Serial Killer) di John McNaughton, di cui mostra un paio di macabri brani, disturbato ed imbarazzato dall’abuso di
sangue e violenza. Egli nega al film qualsiasi interesse
tanto da prendesela con l’esaltata critica
cinematografica che lo ha osannato (impersonata poi da Carlo Mazzacurati
piangente a cui il regista legge, come capi d’accusa, stralci da veri giudizi
giornalistici), colpevole di ridurre ogni recensione ad un sillabario
ideologico farneticante, zuppo di ostentati neologismi e febbricitanti
anglicismi in una prosa violenta ed imbonitoria, ma soprattutto incapace di
valutare l’effettivo valore delle pellicole.
L’episodio parte da ciò che a
Moretti piace (andare in vespa; Roma), si accanisce quindi con ciò che gli
dispiace (il cinema, la critica cinematografica italiana), passando da quello
che gli piacerebbe avere (un attico) o fare bene (ballare). “In vespa” distilla
i particolari giudizi del regista (soprattutto negativi, che si trasformano in
aperte invettive) distinguendo quel poco con cui concorda dal molto restante,
ne registra le abitudini e le ambizioni o i progetti (reali e fittizi,
cinematografici come quotidiani), in un percorso libero e privato che giunge a
destinazione e si cristallizza nella massima che è anche il vero fulcro
dell’episodio, e in fondo nucleo vitale di tutto il cinema di Nanni Moretti:
“anche in una società più decente di questa, mi ritroverò sempre con una
minoranza di persone [...] Non credo nella maggioranza delle persone; mi sa che
mi troverò sempre a mio agio e d’accordo con una minoranza”.
In perfetta consonanza con
questo assioma, il capitolo termina con un omaggio a Pier Paolo Pasolini. “Non
so perché, ma non ero mai stato nel posto dove hanno ammazzato Pasolini”: e
Moretti vi si reca con un lungo piano-sequenza, accompagnato dal toccante brano
del Köln Concert di Keith Jarrett, raggiungend, in vespa quel tratto del
lungomare di Ostia dove il poeta venne assassinato (e ancora non si sa bene da
chi, né perché), e dove
solo una piccola scultura astratta, persa nell’erba alta di un campo di calcio
abbandonato, lo ricorda. Autore cinematograficamente diversissimo da Moretti,
Pasolini immetteva in ogni scritto o film una partecipazione personale ed
un’intimità inusitate, quasi impudiche, unite ad un severo ed inattaccabile
rigore intellettuale politico e morale, l’irrinunciabile necessità della verità
e della denuncia, l’odio profondo per ogni corruzione o compromesso, facendo di
ogni opera l’espressione diretta e inconfutabile del proprio parere e
posizione, a costo dell’antipatia e dell’avversione. Non sorprende che Moretti
si rivolga alla sua memoria e a quell’esempio, troppo presto e facilmente
dimenticato, per rammentarlo e forse anche rivendicare una parentela ed
un’eredità, soprattutto in un film per molti versi ‘estremo’ come Caro
diario.
“Isole”.
La leggerezza e semplicità del
primo episodio, che rinuncia a personaggi o a schemi drammaturgici classici,
può quasi essere letta come un implicito invito a fare cinema, avendo idee e
pur non disponendo di ingenti mezzi: quasi tutto è girato con macchina fissa o
in camera-car a seguire la vespa per
la città, utilizzando come colonna sonora la voce fuori campo del regista
intercalata a brani musicali preesistenti, quasi senza audio in presa diretta,
come un piccolo film ‘amatoriale’ che potrebbe essere facilmente girato in
video o in superotto, chiedendo ad amici e conoscenti di interpretare piccole
parti.
Nel secondo episodio, “Isole”,
Moretti, pur ripresentandosi in vesti spoglie di maschera e continuando nella
stesura del diario, ricorre ad una struttura più elaborata, ad un racconto vero
e proprio, seppur breve, dal tono molto simile ai film precedenti: è l’episodio
che più degli altri potrebbe essere tacciato di ‘morettismo’. “Isole” era
infatti anche il titolo del progetto iniziale da cui è infine nato Caro
diario, accantonato, poi riscritto e trasformato, bloccato forse dallo
scrupolo di non volersi ripetere tornando a stile e schemi noti, in parte già
superati con Palombella rossa.
In “Isole” la ricerca formale e
fotografica appare più avanzata (il passaggio della nave dietro al campo di
calcio; il variare del sole sulla spiaggia di Stromboli, ad esempi); Nicola
Piovani scrive espressamente almeno quattro diversi brani musicali per
accompagnare le immagini; personaggi veri e propri si muovono accanto al
regista: è insomma, in un’accezione comune, un film di fiction, seppur piccolo.
Ma sostanziale differenza
rispetto ai precedenti lavori è la già accennata assenza di ‘personaggio’ per
il protagonista: Moretti è un regista di nome Nanni Moretti, un po’ in crisi
perché a corto della tranquillità necessaria alla stesura della prossima
sceneggiatura, tanto da dover andare a Lipari da un amico, Gerardo,
interpretato da Renato Carpentieri, arroccato da undici anni in snobistico
isolamento per studiare l’Ulisse di Joyce. I due, poiché è impossibile
concentrarsi nella improvvisa confusione dell’isola, iniziano un viaggio tra le
Eolie, ognuna dotata di una particolare caratteristica. Ad ogni isola corrisponde
infatti un atteggiamento estremo, radicale e senza concessioni, assoluto sino
al fanatismo, che imita in forma parodica l’evoluzione di molti reduci della
contestazione: il ripiegamento intellettualistico nella cultura più alta (o in
quella televisiva), la devozione completa e totalizzante alla famiglia, la
necessità di essere visibilmente ‘à la
page’, l’intraprendente edonismo esibizionista, l’ostico geloso ed
irriducibile isolazionismo, l’abbandono del passato (il “viaggio”
nell’accezione di Salvatores, che di quest’opzione ha fatto un marchio) ed il
ritiro spirituale, preferibilmente ad imitazione di un personaggio esemplare e
mistico. Questi comportamenti compongono una specie di catalogo delle scelte di
molti non ‘splendidi’ quarantenni, e riallacciano l’episodio ad analoghi ritratti
‘generazionali’ proposti da quasi tutti i film di Moretti.
La peculiarità maggiore ed
innovativa di “Isole” rispetto al resto del cinema di Moretti, é il fatto che
il vero protagonista dell’episodio non sia il regista, bensì Gerardo, l’amico
all’improvviso vittima del fascino perverso e semplice della televisione:
Moretti funge quasi da spalla di Carpentieri, servendo ad innescare la
narrazione, a motivarla e muoverla da isola ad isola, ma con un intervento
limitato. Ne é esempio significativo la scena del rapimento estatico di Gerardo
nei confronti della televisione, durante il primo trasbordo: la macchina da
presa inquadra entrambi gli amici intenti a leggere, ma abbandona Moretti per
seguire Gerardo che si avvicina a brevi e nervosi tratti, sempre il libro alla
mano, al teleschermo. Similmente emblematica è la sequenza delle fallite telefonate intercettate dai “figli unici”,
dove ai vani sforzi di Moretti di farsi passare i genitori dai bambini,
rispondono simili tentativi di molti altri adulti: il regista, un adulto tra i
tanti, si limita ad innescare e chiarire la situazione col commento della
lettura ad alta voce -in campo- delle pagine del diario, confermando le parole
con gli altri esempi; alla fine della scena, mentre molti rimangono ancora al
telefono, Moretti si aggira tra loro, quasi a controllare e insieme dimostrare
la veridicità di quanto scritto nel diario, senza più intervenire direttamente.
Moretti agisce poco anche nel
resto dell’episodio, limitandosi ad ascoltare i lamenti e le osservazioni degli
apprensivi genitori di Salina, ad interrogare a Stromboli alcuni turisti
americani di passaggio sulle ultime novità dell’avviluppata trama di Beautiful,
o ad intervenire saltuarmente con brani del diario (che qui diventa resoconto
di viaggio) al cambiare dell’isola: è infine addirittura abbandonato ad Alicudi
da Gerardo in fuga isterica per troppa astinenza da tv.
“Medici”.
“Isole”
è l’episodio che più facilmente potrebbe far riconoscere stilemi morettiani, ma
fornisce anche elementi inediti, soprattutto di allontanamento da
quell’‘egocentrismo’ (nel senso di riduzione di tutto a sé ed enfatizzazione
del proprio punto di vista) che a Moretti è stato spesso rinfacciato.
Ed è interessante notare la progressione del ‘personaggio’ nel passaggio dal
primo al secondo episodio: “In vespa” è mosso e portato innanzi dal regista, il
quale in “Isole” si trova ad avere un ruolo quasi marginale e praticamente
privo di battute. Questa posizione si acuisce dolorosamente in “Medici”, in
cui, suo malgrado e pur essendo sempre in scena, Moretti è in letterale balia
degli specialisti ai quali si rivolge con la fiduciosa impotenza del profano.
Progressivamente quindi, all’interno di Caro diario, Moretti perde ‘il
controllo’ dell’episodio, si allontana dal centro motore venendo sempre più
‘agito’ dagli eventi e dalle persone che ha intorno.
“Medici”
è il capitolo di Caro diario che più di tutti si avvicina al genere di
dolorosa privata confessione che è frequente riscontrare tra le pagine di un
diario. “Nulla di questo capitolo è inventato”, premette lo stesso Moretti che
inserisce nell’episodio anche un frammento di registrazione, in pellicola 16mm,
della chemioterapia a cui è stato sottoposto al termine di infruttuose e
frustranti -oltre che pericolose- ricerche sull’origine dell’infernale prurito
che lo assillava. Il frammento di verità, a dispetto della logica cronologica,
è posto in testa all’episodio, a conferma della effettiva veridicità, peraltro
affermata in voce off, del resoconto
che il regista , per necessità di narrazione, è costretto a ricostruire.
Nel seguire le tappe dell’odissea
medica, ricercando il massimo di verità, il racconto assume comunque toni
assurdi e grotteschi (ma mai decisamente comici), non molto dissimili dalla
vaga accentuazione caricaturale che il regista spesso imprime alle proprie
invenzioni cinematografiche: qui la verità è infatti già da sé talmente
sorprendente e paradossale che Moretti, per sottolinearla, elimina ogni enfasi
recitativa e spoglia di ogni orpello vistoso la regia: basta uno sguardo
sconsolato nel bagno di cereali, o lo sconcerto con cui rovista nel frigo, dopo
essere risultato allergico ad un’infinità di cibi, per raccontarci egregiamente
il suo stato d’animo.
In questo episodio, ancor più
che in “In vespa”, l’assunzione della prima persona narrante acquista senso,
poiché è lo stesso Giovanni Moretti,
marginalmente di mestiere regista cinematografico, ad aver sofferto e subito le
sbagliate diagnosi e le tentate cure di qualificati incompetenti. Egli non
assume nessun ruolo, né avrebbe potuto farlo parlando della propria malattia, e
si mette in scena solo per raccontare, negli stessi luoghi (l’ospedale, la
casa) dove i fatti si sono svolti, con rigore quasi documentaristico (e
diaristico) i fatti e le vicissitudini.
In conclusione di “Medici”,
Moretti è in un bar, circondato dalle scatole di medicinali inutili e delle
relative prescrizioni mediche, a tirare le somme della vicenda -e di tutto il
film-, dopo aver scritto l’ultima parola sul quadernetto. Iniziato come un tema
scolastico, Caro diario si chiude con la morale della favola, l’insegnamento
che il regista ha tratto da quello che ha passato: “una cosa però l’ho
imparata. No, anzi, due: la prima è che i medici sanno parlare, però non sanno
ascoltare [...]; la seconda cosa che ho imparato, è che la mattina, prima di
colazione, fa bene bere un bicchier d’acqua”.
“Inevitabilmente”, come canta
Fiorella Mannoia sui titoli di coda, il film si congeda dai suoi spettatori con
uno sguardo in macchina: era lecito aspettarselo sin dall’inizio in un film che
rinuncia in partenza a qualsiasi filtro o artificio narrativo classico per
rivolgersi direttamente allo spettatore. Ma è solo alla fine che Moretti si
decide ad annullare l’ultima convenzione cinematografica residua, denunciando
il film in quanto mera finzione, rivelando -guardandola- l’ubicazione e
l’esistenza della macchina da presa.
Chiaro diario.
Nelle
precedenti vesti di Michele Apicella, Moretti si è sempre trovato a combattere
a schiaffi o urla contro i luoghi comuni, le soluzioni facili, le vuote
convenzioni linguistiche, gli odiati abusati prestiti lessicali da altre lingue
per cercare di arrivare ad una limpida chiarezza, giungere all’essenziale nella
comunicazione. A questa medesima ricerca di fedeltà e semplice sincerità è
improntato anche Caro diario, dove l’epurazione stilistica raggiunge
livelli inediti per la caduta di ogni cortina tra il regista ed il suo
‘personaggio’. Anche
l’accesa polemica con il critico cinematografico interpretato da Carlo
Mazzacurati nel primo capitolo é improntata ad un’identica necessità di
chiarezza espositiva, troppo spesso volutamente -quindi colpevolmente- assente
nel giornalismo (cinematografico). In
“Isole”, ogni personaggio è chiuso in una privata mania che gli impedisce di
comunicare egregiamente con chi non la condivide: non è solo l’improvvisa
telefilia di Gerardo, ma anche la timorosa sottomissione dei genitori di
Salina, “dominata dai figli unici”, o la forsennata voglia del sindaco di
Stromboli di dare un’identità comunque vistosamente riconoscibile all’isola,
oppure l’artificiosa festosità ‘kitsch’
di Panarea, quanto l’ostentato e ricercato isolamento di Alicudi. Di fronte a
tanta eccentrica stranezza, Moretti confessa: “mi sento felice solo in mare,
nel tragitto tra un’isola che ho appena lasciato e una che devo ancora
raggiungere”.
Caro diario, nel
suo complesso, è un invito alla semplicità, che non fa deviare minimamente il
percorso cinematografico fin qui tracciato dal regista perché, anzi, lo
approfondisce. E questo attraverso una struttura ad episodi che ripercorre le
tappe fondamentali della sua carriera. “In vespa” ha infatti un andamento
simile ai primi lavori in superotto, a cui rimanda per semplicità d’impianto e
di narrazione; “Isole” ricorda il periodo successivo e più noto dei
lungometraggi, da Io sono un autarchico (ancora in superotto, manifesto
programmatico, sin dal titolo, di una precoce indipendenza produttiva e
ideologica nel pieno degli anni Settanta, con l’aggiunta di una palese
provocazione nella scelta lessicale) in poi, sino a Palombella rossa, in
cui il ricorrente schema dall’andamento ‘paratattico’ si complica con un uso
complesso ed articolato dei flash-back
e dell’unità di luogo nell’ambiente, metaforico e reale, della piscina;
“Medici” apre invece un nuovo capitolo, la cui urgenza é nel resoconto
-realmente diaristico- della malattia.
Forse quest’ultima evoluzione è
in parte anche influenzata dall’esperienza documentaria de La cosa, sul
travaglio del trapasso del PCI, dove non vi è manomissione nei materiali
utilizzati, ed il montaggio diventa puro assemblaggio di brani ‘registrati’ in
16mm. Ma in “Medici” questa accezione letterale di ‘cinema-verità’ si complica
ed articola. Di fronte ad un ennesimo dottore, ad esempio, Moretti, nel bel
mezzo di una ulteriore prescrizione visibilmente inutile, si alza, riveste e se
ne va, mentre il dermatologo continua a compilare la ricetta. Si tratta di un
gesto decisamente contrastante con lo stile dell’episodio, perché la veridicità
dell’insieme viene contraddetta dall’irrealtà di un’azione non plausibile a
livello letterale, accettabile solamente su un piano traslato in quanto
espressione di un desiderio di fuga evidente, inespresso a parole, ed unica
stanca risposta all’ennesimo inutile verdetto medico.
Questo breve frammento è quasi
un piccolo (as)saggio di regia, di stile morettiano, un semplice gesto
simbolico, con cui il regista si riappropria della verità per leggerla a suo
modo, con licenze che all’inizio dell’episodio non sembrava volersi concedere.
Simili contravvenzioni alla convenzione narrativa cinematografica si ritrovano
invece disseminate ovunque nell’episodio, perché vi è spesso l’introduzione
verbale (con brani diaristici) di molte scene direttamente in campo -ed in
presenza del medico-, senza timore di contagiare l’integralità ed integrità
della finzione, o la sua plausibilità. Questo crea una continua frattura
temporale che miscela il presente del diario ed il passato della malattia, il
quale viene così automaticamente riattualizzato dalla enunciazione dei brani
del quaderno che interrompono la scena per commentarla come dei vistosi a
parte. Inoltre, dei tre episodi, “Medici” è l’unico che ha una precisa
‘giustificazione’ narrativa, identificandosi come un flash-back dello stesso Moretti durante la stesura del diario,
aperto infatti all’inizio e richiuso alla fine del capitolo.
Caro diario è un
film sull’immagine che Moretti ha e dà di sé, assunta come tale e criticata,
una messinscena della propria persona ed identità. Non solo egli ripercorre le
grandi linee della propria produzione, ma tratta, quasi più che della propria
intimità, di come viene percepito dagli altri: di sé, quindi, in quanto
personaggio, e del ‘morettismo’ come riduzione a cliché delle tipologie narrative e comportamentali ricorrenti nel
suo cinema. “Isole”, in questo senso, incarna il morettismo più propriamente
stilistico, mentre “In vespa” conferma impressioni sul suo carattere che
possono trarsi dai film,
tanto che é Moretti stesso a suonare alle porte fingendo di girare un film su
un “pasticciere trotzkista”, assumendo pertanto in toto il ruolo del ‘Moretti’ noto. Nel primo episodio, il regista
compila appunto un autoritratto che riassume e precisa i tratti noti di Michele
che si sono automaticamente travasati nel personaggio ‘Moretti’, aggiungendovi
elementi privati ed inediti.
Nel suo ultimo film, Moretti si
disfa forse della nota maschera di Apicella, ma mantiene ed amplifica quella
che automaticamente gli viene attribuita: e tra le pieghe di essa, inserisce
brani di assoluta sincerità, che comprendono la quasi interezza del primo e del
terzo capitolo del diario, forse anche giocando con lo spettatore e la sua
accortezza nel disvelare il piano ‘ludico’ del film: ed è anche in questo senso
che va forse inteso lo sguardo ambiguamente ironico che conclude “Medici” e
sigilla Caro diario, terminando la finzione narrativa per presentare
Moretti in fine privo anche delle ultime protezioni conferite dall’artificio
cinematografico. Esse sono state appieno utilizzate nel terzo capitolo, con il
quale perfino il cinema si spoglia delle sue convenzionali falsificazioni.
Per il già notato progressivo
allontanamento dal centro dinamico di ogni episodio, Caro diario
potrebbe essere inteso come un congedo catartico di Moretti, non solo da
Michele Apicella -di cui sembra smettere per sempre gli abiti- e dal
‘morettismo’ che il personaggio ha contribuito a creare, ma anche della propria
centralità narrativa: se già in “Isole” egli funge da semplice invito al
racconto e al
viaggio, in “Medici” è mosso dalle diagnosi e dalle relative cure prescritte,
ed è totalmente dipendente dalle parole dei dottori, per quanto incompetenti o
superficiali. E se vogliamo, forse forzando, estrapolare questa tendenza, si
potrebbe pensare ad un successivo prossimo film in cui il regista-attore, non
più Apicella né ‘Moretti’, assuma un diverso ruolo e crei un altro -e quindi
nuovo- personaggio.
O addirittura assuma la sola regia del film.
Caro diario appare
comunque un punto di non ritorno nella produzione di Moretti, che lascia
sospettare una svolta ed un rinnovamento totale nel suo cinema, dopo un
riepilogo per molti versi già introduttivo di sostanziali varianti.
|