Cloverfield è considerato un progetto
produttivo ben prima che registico; pertanto, da un punto di vista autoriale,
il film va inserito all’interno della filmografia di JJ Abrams. Se regista e
sceneggiatore si sono fatti le ossa in varie serie del creatore di Lost e Alias, Cloverfield continua Six Degrees, l’ultima produzione televisiva di Abrams (fermata per
insuccesso a metà della prima stagione), che seguiva le vicende incrociate di
un ristretto gruppo di abitanti di Manhattan. Il film prende le mosse da questo assunto generico con un tipico
incipit soap modellato su Felicity (vicende sentimentali giovanili
a protagonista multiplo), scacciato poi dall’avvento della creatura che
sbaraglia vite e destini trascinando i personaggi in una catastrofe
inspiegabile e imprevedibile. Di questo retaggio telefilmico rimane la memoria
digitale del nastro, inciso per due volte, con in sottofondo la storia d’amore
agli albori, fisicamente cancellata dalla registrazione degli eventi più recenti
e che solo a tratti riemerge, quando la telecamera si ferma per ripartire a
testimoniare gli ultimi fatti, come scorie di un vissuto migliore.
Soltanto per i protagonisti di quella vicenda
precedente i fotogrammi del passato rivestivano qualche importanza. Non c’è più
vita ormai perché è stata divorata dal mostro, perché, letteralmente e
simbolicamente, il nastro è stato registrato due volte, perché nessuno può più
dare la propria versione di quanto è successo. Tutto è ormai avvenuto. Rimane
soltanto la testimonianza elettronica che costituisce l’essenza stessa del
film, un materiale che si è accidentalmente trasformato da documentazione
intima ad oggetto di analisi scientifica e militare, da diario privato in
elemento di studio. L’intero film altro non è che quel nastro perduto ritrovato
dal governo, diventato preziosa documentazione di quanto successo. Il senso di
quel video è adesso tutto è solo nelle riprese del mostro che sopprime ogni
punto di vista. Perché in Cloverfield
l’unica soggettiva evidente è quella, fredda e meccanica, della telecamera in
funzione. Gli eventi vengono registrati secondo una continuità temporale che
sottrae ogni qualifica narrativa al montaggio, i personaggi diventano i
figuranti di un evento straordinario che toglie loro qualsiasi valenza
drammaturgica, vittime e testimoni inconsapevoli, preziosi proprio perché
ripresi dall’occhio elettronico portatile che li segue e registra.
Prima dell’Undici Settembre, New York sembrava la
città prediletta da distruggere in tanti film catastrofe, da Godzilla a Deep Impact o Independence
Day. Ma la memoria collettiva dell’attentato alle due torri si sovrappone
ormai alla cinefilia nel corpo unico di un immaginario comune, consapevolmente
riattivato dal film stesso in cui si vedono grattacieli collassare e la paura
del dejà-vu riemergere inconfessata e prepotente tra i protagonisti. Tanto che
l’origine presumibilmente extraterrestre del mostro risulta quasi rassicurante
e, pur nell’apparente veridicità del contesto, enfatizzata dal pretesto videoamatoriale,
assume un senso metaforico di riedizione di quel caos crudele che ha spezzato
vite destinate ad essere diverse e forse anche felici, che ha cancellato la
normalità.
Il film, parallelamente, travolge l’abbozzo di
vicenda sentimentale con una tragedia collettiva, come un flash-back post mortem involontario (con vaghe
reminescenze di Lost) di una storia
d’amore intrappolata in un film di fantascienza che, a sua volta, si
riappropria di molta materia precedente. Cloverfield
parte proprio dalla presunzione di quotidianità per travolgerla con gli effetti
speciali, da un terreno seriale che si tramuta in cinema, rifacendosi
all’assunto di The Blair Witch Project
del video ritrovato per trafugare Alien
e Godzilla e sommando ai riferimenti
cinematografici le reminescenze televisive e l’effetto inquietante della presa
diretta di un evento sconvolgente e inatteso. Quella memoria del 2001 è come la
storia d’amore, inglobata dal tessuto stesso del film, punto di partenza noto
trascinato da una deviazione imprevista ad una destinazione sconosciuta, un
viaggio attraverso una paura variamente declinata (l’attacco terroristico,
l’horror, il film catastrofico) sino ad un terrore più profondo che
quell’indicibile e incomprensibile mostro incarna, anche a livello metaforico,
con estrema efficacia.
Su quanto sia successo dopo il definitivo
spegnimento della videocamera o sull’origine della creatura non si sa niente: i
dettagli saranno delegati, più che alla fantasia dello spettatore o ad un
rarefatto fuoricampo, ad un sequel
già in programma. |