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di antonio fabbri

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"Casi caldi"

Con la primavera torna a sbocciare su RaiDue Cold Case, serie ideata da Meredith Stiehm e prodotta da Jerry Bruckheimer, già all'origine dei C.S.I. e di Senza Traccia. Strutturalmente classico, ogni episodio di Cold Case presenta una squadra invariabile di investigatori che indaga su un omicidio, diverso ogni volta. Ma la peculiarità della serie riguarda il carattere di questi crimini: casi freddi, come dice il titolo, vecchi e dimenticati perché irrisolti, i cui fascicoli sono stati ammassati nell'archivio del distretto di polizia, quindi risuscitati e infine chiariti, a distanza di anni, da Lilly Rush e dai colleghi della squadra omicidi di Philadelphia.
Ogni episodio inizia con una scena fotograficamente trattata e datata, squarci di normalità e preludio ad un assassinio; quindi un grido lancinante apre la concitata sigla e avviene il salto ad oggi: qualcuno coinvolto in quella vicenda si rivolge alla detective Rush e chiede di riaprire il caso. Gli omicidi non cadono mai in prescrizione, pertanto gli incartamenti chiusi senza l'individuazione di un colpevole rimangono virtualmente in attesa di una soluzione, di una giustizia sospesa e teoricamente soltanto posposta. I poliziotti scendono nel ventre silenzioso del distretto a riesumare i faldoni giudiziari archiviati in scatoloni bianchi tutti uguali, urne di cartone da cui emergono fantasmi e immagini del passato. Sono esistenze troncate e corpi cambiati, vicende antiche o recenti, vite incompiute nelle loro morti inesplicate, altre drammaticamente alterate da quella violenza, raffreddata dagli anni ma solo inabissata nella memoria e pronta a riaffiorare con i giusti stimoli investigativi. L’immagine seminale della serie è l'anonima archiviazione, quindi il recupero dello stesso raccoglitore bianco tra i corridoi di un’algida catacomba giudiziaria assiepata da tanti simili contenitori, unico elemento di transizione e staffetta tra passato e presente, da un diritto alla verità interrotto alla sua ripresa dopo un’apnea temporale.
Come in Senza traccia, per molti aspetti serie sorella, i personaggi principali, benché densi di umanità, non invadono il breve lasso dell'episodio con il proprio vissuto. Di loro si sa molto poco (anche se nella seconda serie, attualmente in onda, qualche ombra si chiarisce ed alcuni elementi personali vengono ad illuminare la cornice), solo sporadici dettagli sono disseminati nelle reciproche battute tra colleghi, nelle sfumature di uno sguardo o di un sorriso. Lilly Rush o Scotty Valens vivono nel solo presente dell'indagine, sono quasi comprimari di ogni episodio, pretestuosamente necessari alla finzione narrativa di cui a pieno titolo diventano protagonisti le vittime e i loro familiari, il caso stesso, che riprende vita e forma nei flash-back che costellano ogni singola puntata. Poiché i dati a disposizione per ricostruire l’accaduto e trovare il colpevole sono pochi, tutto è già successo e spesso sbiadito nella memoria, la serie è quasi priva d'azione mentre è molto dialogata, alterna interrogatori e ricostruzioni in un puzzle di elementi che infine portano all'individuazione del criminale, e i poliziotti sono per lo più ripresi a conversare, congetturare e avanzare ipotesi sullo svolgimento dei fatti e sul prosieguo dell'indagine.

Ma ciò che colpisce e coinvolge in questa serie investigativa, tesissima e mai noiosa, è l'enorme potenziale drammatico ed emotivo che contiene. Le tragedie in miniatura di ogni episodio evidenziano implacabilmente le umane debolezze e le ineguaglianze di una società che si vuole democratica, affrontano temi scottanti (la discriminazione sociale, razziale, sessuale, politica), fanno i conti con i lati oscuri del sogno americano. Ogni ricostruzione storica si accompagna ad un accorto uso di una colonna sonora che, con immediatezza, precisione e potenza evocativa, situa il momento dell'azione attraverso le canzoni del tempo; sullo schermo si avvicendano inoltre i due volti di un medesimo personaggio, ripreso in due momenti della propria vita, ora e allora, quando si svolsero i fatti, con un cortocircuito emotivo e culturale tra diverse età anagrafiche a confronto, il paradosso di due identità in mostrate in contemporanea che segnala quanto e quanto poco sia nel frattempo cambiato, fuori e dentro quell'essere umano. La morte, da cui l’episodio e l’indagine hanno preso inizio, è stata il momento di rottura di molte vite, fonte di inevitabili cambiamenti e trasformazioni per personaggi che di quel sangue si sono macchiati o del quale hanno subito le conseguenze; la sua evocazione diviene il recupero di un cardine fondamentale di varie esistenze accomunate da una ferita inguaribile. I poliziotti diventano allora solo i catalizzatori della verità emotiva del caso che, fragorosamente, riemerge nel presente e lo contamina. Non c'è pace sino alla catarsi finale della confessione, quando la realtà dei fatti, per lo più drammatica e dura, viene allo scoperto e riporta pace all'anima inquieta della vittima: questa, simbolicamente, guarda sorridendo chi le ha reso giustizia e concesso il riposo sino ad allora negato. Il dolore, di cui la serie è permeata, trova alla fine uno sfogo, quantomeno liberatorio.
I detective della omicidi hanno una funzione maieutica di emersione della verità nella confessione del colpevole; se l'ordine viene ricostituito tramite la classica e conciliatoria individuazione del criminale, il processo investigativo ha fatto emergere ben più di uno spunto di riflessione sulla storia recente e sul complesso sociale, diventa una seduta di psicanalisi collettiva (e individuale per i protagonisti della vicenda) che scoperchia numerose flatulenze del melting pot americano. La riapertura di quei casi e, fisicamente, degli scatoloni che li contengono, diventa la liberazione di un vaso di Pandora di umori e dolori compressi, di inconfessabili verità private e sociali, che l'indagine mette a nudo e mostra nei costanti flash-back con l'apparente indifferenza di un pretesto narrativo, mentre si trasforma nel rito della riesumazione e provvisoria restituzione alla vita di un'anima persa tra gli interstizi del tempo, della memoria e della giustizia.
Quei casi sono, in fondo, ancora caldi, agitano le viscere dei personaggi e della società. Lilly Rush li tratta con empatia (un aspetto del suo personaggio molto accentuato nei primi episodi, poi diluito nella collettività del gruppo), con umano calore, come corpi ancora vivi, traumi e ferite aperti -in senso letterale quanto traslato- da guarire o lenire, per quanto possibile, di cui i poliziotti sono inopinati e involontari spettatori e dalla cui visione emergono (come noi, al di là del piccolo schermo) con l'acquisizione di una maggiore, sebbene dolorosa e sempre partecipe, consapevolezza. Cold case è una serie di limpida ed enigmatica bellezza.

     (tutti i testi sono proprietà di antonio fabbri)
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