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di antonio fabbri

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Caos calmo

di Antonello Grimaldi

Pietro, colpito dall’inaspettata morte della moglie mentre era a svagarsi in spiaggia e salvava un’altra donna, insegue un dolore colpevolmente sfuggente, tenta di ripristinare una routine diversa ed inedita in una vita che credeva di conoscere e che lascia temporaneamente in sospeso, imbrigliandosi in un’impasse fisica (il parco) ed esistenziale (il lutto) e in apparente attesa di un evento che lo riporti sui binari noti della quotidianità e di quella che, a detta di tutti, è la normalità.
Se la vedovanza non imprime una svolta emotivamente significativa alla sua esistenza, Pietro sceglie di imporle autonomamente una frattura evidente aspettando tutto il giorno la figlia davanti alla scuola, sostando, in attesa della campanella e del segnale d’allarme di un dolore procrastinato e lontano, inspiegabilmente inafferrabile. Mentre il lutto rimanda sine die la sua elaborazione con la minaccia latente di un dolore inesploso, una calma opprimente sembra abitarlo, lo intrappola nel timore di un’indifferenza che non vorrebbe vedere riflessa nella figlia, la quale, invece, reagisce alla morte continuando a vivere, ferita ma non debilitata.
Lasciando la presa sulla vita e permettendo agli eventi e alle persone di trascinarlo, Pietro si mette ad ascoltare e a guardare il mondo, si sorprende a scoprire momenti sfuggiti alle costrizioni degli orari di lavoro e alla divisione domestica dei compiti, vede un universo parallelo di cui non era a conoscenza, abitato da gente a lui vicina ma stranamente ignota.
Caos calmo è fatto di sguardi e di silenzi, di segnali scambiati senza voce o di troppe parole ridotte a segni insensati. È un diverso scrutare l’orizzonte degli eventi, l’agnizione di un altro punto di vista sullo stesso mondo noto e su particelle di uno nuovo in un film tutto giocato sugli occhi di Moretti che guardano e, inevitabilmente, giudicano gli altri, con sofferenza o distacco, imbarazzo o curiosità.

Tutti parlano con Pietro ma nessuno comunica più attorno a lui: i colleghi si separano, le coppie usano codici incomprensibili, il sesso non si allea all’affetto, le lingue si accavallano e confondono, le persone collidono. I vocaboli hanno perso senso e l’intesa, volontariamente o inconsapevolmente, sfugge mentre la difficoltà di comunicare porta all’incomprensione, al tradimento o all’indifferenza. Pietro stesso si sbalordisce di scoprire aspetti inediti della moglie, che supponeva di amare o almeno conoscere, momenti non vissuti, parole non scambiate in una confidenza lontana dall’intimità e trasformata, dallo scorrere dei giorni e degli anni, dall’avvilupparsi degli impegni e dei contrattempi, in vicinanza e coabitazione, l’affetto stesso trasceso nell’abitudine.
Se Pietro è il fulcro narrativo del film, le deviazioni emotive sono quasi tutte squisitamente femminili: la moglie assente, la figlia da scoprire, la cognata ex-amante da tenere a bada, la donna salvata e la sconosciuta nel parco. È un mondo visto da un uomo e riflesso dalle donne, come specchio di una realtà differente, di una prospettiva nuova. Soprattutto Iolanda, la bella ignota, rappresenta un punto di vista inedito, l’unica alternativa allo sguardo del protagonista che non si trasforma mai in narrazione ma rimane una semplice visione accessoria, laterale ed estranea, indolentemente inquisitrice. Tra i due personaggi si instaura una conoscenza profondamente superficiale, fantasticata e leggera, senza sesso né rapporti di forza, un sensuale scambio di sguardi e silenzi, di ipotesi e suggestioni. È l’unica comunicazione sincera del film, muta ed indolore, paritaria e aperta, perfetto contraltare della famigerata scena carnale, lunga e silenziosa, fatta di ansimi e bizza, sesso catartico e privo di amore, un risveglio dei sensi punitivo e non consolatorio con quella donna che, senza saperlo, il protagonista aveva colpevolmente preferito alla moglie, salvandola mentre l’altra moriva.

La diligente regia di Grimaldi bandisce ogni tentativo di coinvolgimento emotivo, forse mettendoci nelle condizioni di Pietro, e lo osserva scartare temporaneamente una forma di vita apparente in cui non se la sente di rientrare, lo scruta guardare l'eco di un mondo in cui non trova più spazio né il conforto della monotonia. Il film, necessariamente dominato da Moretti per esigenze di sceneggiatura, è abitato da un personaggio in cui, a tratti, in uno sguardo o in un atteggiamento, emergono irresistibili Nanni o Michele. Perché Moretti, “corpo” cinematografico evidente e riconoscibile, dà, con la sua sola presenza, forma e voce distinte al film e lo inserisce inequivocabilmente nel suo universo noto. E se Pietro cerca di capire se stesso, Moretti tenta, con il personaggio e questa pellicola, di frapporre un certo distacco dal suo cinema, di porre le dovute distanze con il proprio universo di appartenenza e di riferimento segnalando vistosamente la differenze con la presenza, naturale ma ostentata, del turpiloquio e dall’insistenza sulla lunga scena di sesso, così estranea al suo universo precedente. Anche l’interprete, come il personaggio, cerca una diversa normalità, libera dai lacci di un passato che, inevitabilmente, si manifesta ancora vitale.

     (tutti i testi sono proprietà di antonio fabbri)
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