Capitolo forse conclusivo della trilogia dedicata al
killer smemorato, l’ultimo film di Greengrass, pur non abbandonando il piglio
dinamico della serie, si concentra dettagliatamente sulle fondamenta della
vicenda di Bourne, svelando l’antefatto e rivelando la vera identità dell’eroe.
Action fisico, la cui dinamicità
è accentuata e repressa dalla regia di Greengrass, fautore inossidabile della
macchina in spalla e della repentinità del cambio d’inquadratura che rendono
talmente veloci le scena da impedire la visione d’insieme, il film
approfondisce un assunto palese sin dal primo capitolo: il contrasto tra il
corpo e la macchina, tra la tecnologia schierata all’inseguimento e l’uomo in
fuga, tra la fisicità concreta e il virtuale applicato.
E ironicamente, Bourne stesso
rappresenta una sintesi di questi ossimori, un corpo senza memoria, un file
corrotto, un personaggio senza identità - se non fittizia - che sopravvive e
avanza grazie all’istinto, un addestramento rimasto sottopelle, mentre la mente
cerca una risposta a tanta letale efficacia. La fisicità del suo corpo diventa
l’unica riposta possibile alla tracciabilità del segnale, la variabile umana
capace di depistare e sorprendere, ma anche da reprimere proprio per la sua
unicità. L’Agenzia al suo inseguimento, quella CIA cinematograficamente memore
dei Tre giorni del Condor, non è che
una centrale tecnologica di intercettazione, brulicante di umani obbedienti,
impassibili nei confronti degli ordini impartiti, delle eliminazioni
programmate, strumenti consenzienti di una caccia all’uomo planetaria, in mondo
unico unito dalle tecnologie, interconnesso e anonimo. Quasi nessuno
nell’Agenzia ha una precisa identità. Anzi, l’identificazione corrisponde
sempre alla messa nel mirino, all’ordine di soppressione. Analisti di sistemi
sostituiscono gli agenti sul campo, il telecomando aziona eliminazioni e
distruzioni a distanza, la morte si delocalizza e demanda, si delega e
dimentica.
Il fattore umano Bourne, pedina
ormai consapevole e impazzita, è il pericolo maggiore, il peggior nemico
immaginabile perché imprescrutabile, mosso da esigenze personali e bisognoso di
quella verità così imbarazzante da dover essere elusa, negata ed elisa ad ogni
costo. Eppure la caccia nasconde solo una vacua lotta di potere all’interno
delle istituzioni, una brama di efficienza per cui si predilige barare e
sfuggire alle responsabilità rimanendo sotto la vaga insegna della guerra al
terrorismo, scusa prediletta per vendette private, scudo morale per ogni
nefandezza.
Emerge forte in questo film,
volutamente esplicativo, un fondo ideologicamente antimilitarista e morale, in
cui si fanno evidenti gli echi della situazione odierna, che traduce l’amnesia
del protagonista in sintomo di stress post-traumatico, nella ripercussione
involontaria di un eccesso di addestramento, nella dolorosa epifania di
un’umanità repressa che si scontra con la rivelazione di quella verità negata
dall’istinto di sopravvivenza. La trilogia non è che una terapia regressiva a
tappe verso l’origine del male, del dolore psicologico della propria attitudine
alla morte, la presa di coscienza di un eroe vuoto, forse destinato ad un
impossibile percorso di redenzione fuori campo.
La storia di Bourne è il resoconto della morte e della resurrezione di
un automa dal motore inceppato, infine libero dall’inconsapevolezza ma gravato
dal peso della responsabilità: la volontarietà della scelta iniziale. Vittima
consenziente, Bourne aveva scelto l’arruolamento, ideali e sogni erano stati sfruttati
e deviati, il corpo rafforzato, la mente annichilita, una perfetta macchina
omicida che, inaspettatamente, si ribella al suo creatore alla ricerca di una
umanità negata e repressa, resa con dolorosa impassibilità da Matt Damon,
silenzioso e imperscrutabile, che sopravvive a tutto e a tutti, quasi suo
malgrado. |