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di antonio fabbri

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L’ATTESA

Ogni volta che chiudeva gli occhi sentiva quei rumori. Si trattava di un normalissimo suono di passi regolari sul pavimento del piano superiore; ma di sopra non c’era nessuno. Ogni sera, a letto, cercava di addormentarsi, cosa di per sé già difficile, che richiedeva tutta la sua attenzione, e sempre sentiva quei passi insistenti e dispettosi, li riconosceva anche nel leggero prezioso dormiveglia che precede il vero sonno e si ridestava completamente, richiamato dai suoi sogni confusi.

Pensava fosse un’illusione provocata dallo strano silenzio della notte, quando si sente solo il ticchettio dell’orologio sul comodino. Eppure era troppo preciso e regolare. Ormai ne era sicuro: c’era qualcuno su, in quella grande stanza nella quale entrava di rado, una mansarda più che una soffitta, che veniva sfruttata nelle rare occasioni anche come camera per gli ospiti. In grandi casse vi teneva i vecchi giocattoli di quando era bambino, pieni di polvere, in parte rotti, comunque gelosamente conservati e scordati. Quella stanza di giorno era assolutamente normale, non c’era niente che potesse nuocere. Solo la polvere. Anche qualche insetto. Aveva pensato ai ladri, ma non portavano mai via niente. Era stupido ipotizzare uno scherzo, noioso, inutile, di dubbio gusto. Forse un animale? Ma i gatti si muovono silenziosi, né i topi possono provocare quel rumore, i volatili neppure.

Questi quotidiani ragionamenti si perdevano nel sonno che finiva col trionfare, allorché i passi sembravano cessati, o dimenticati. Ogni notte voleva andare a vedere cosa c’era di sopra, tutte le volte rimandava perché alla fine riusciva ad addormentarsi e sopiva quella curiosità che definiva infantile e grottesca, di cui non parlava mai. Del resto, alla luce del giorno, gli sembrava tutta una grande fesseria. Solo a sera se ne ricordava, mentre stava per andare a letto, come fosse un inveterato appuntamento, una vecchia e fastidiosa abitudine. C’erano delle sere in cui gli pareva di non udire niente e pensava che non lo avrebbe più risentito. L’indomani, con puntuale precisione, quel passo si ripresentava, fedele ed uguale.

Quella notte, forse a causa dell’insonnia tenace, forse per la stanchezza, decise di salire. Non accese la luce delle scale per non tradire il suo arrivo; aprì cautamente la porta, cercando di non far rumore. Sentiva un filo d’aria sfiorargli la guancia, era piuttosto freddo. Trovò l’interruttore della luce e la lampadina non si accese: annotò mentalmente di ricordarsi di cambiarla. Avanzò tentoni. Vicino, ne era sicuro, c’era una candela con dei fiammiferi, la teneva lì apposta. Continuò ad avanzare al buio, le mani in avanti: la candela doveva essere alla sua sinistra, a circa trenta centimetri. L’oscurità era totale. Non si accorse che alle sue spalle, spinta da uno spiffero leggero, la porta si richiudeva. Non vide nemmeno il sorriso. Udì solo la voce, glaciale: «Finalmente. - gli disse - Ti stavo aspettando.»

     (tutti i testi sono proprietà di antonio fabbri)
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