Con la messa in onda della
terza stagione, si è di recente (9 gennaio 2006) conclusa su Jimmy la
diffusione della serie American Dreams (2002-2005). Benché poco citato
anche dalle testate specialistiche, questo serial aveva alcuni elementi
di un certo interesse.
Basata sulle vicende della famiglia Pryor nella
Philadelphia degli anni Sessanta, American Dreams ha una base
sostanzialmente soap, prestando molta attenzione alle vicissitudini
amorose dei giovani figli, ma lascia grandissimo spazio allo sfondo storico su
cui si muovono i personaggi, con i drammi e i cambiamenti che gli anni Sessanta
hanno portato in America e nel mondo, visti attraverso il filtro della
televisione.
La serie nasce infatti sulla
falsariga di American Bandstand, vera trasmissione musicale della Abc
presentata da Dick Clark (qui produttore esecutivo), in cui i più noti gruppi
pop del momento si esibivano davanti ad un pubblico danzante (un tipo di
spettacolo solennemente preso in giro da John Waters in Hairspray). Le
immagini di repertorio di questo "Top of the Pops" ante litteram
si incastonano nelle riprese in studio della serie, in un gioco di rimandi e
falsificazioni nel passaggio dal palco allo schermo in bianco e nero, che
ricordano alcune pellicole di Zemeckis (1964 allarme a New York
arrivano i Beatles! soprattutto, ma anche Ritorno al futuro o Forrest Gump).
Spesso le stesse canzoni sono rivisitate da famosi cantanti contemporanei
(Chris Isaak, Alanis Morrisette e altri) in veste di guest star canora,
con un continuo andirivieni dalla “verità” delle riprese e dei brani d’epoca al
loro adattamento contemporaneo finalizzato alla narrazione. Meg, secondogenita
dei Pryor, diventa ospite fisso di Bandstand, avendo così accesso ad una
certa notorietà catodica, mentre suo padre la vede sulle tv sempre accese nel
suo negozio di elettrodomestici ("Pryor radio & tv"). La
televisione riveste nel telefilm un ruolo cruciale anche per i servizi
giornalistici che trasmette, fornendo ulteriori informazioni sul tempo
dell’azione, riverberando così di eco storiche le vicende dei personaggi e
definendone precisamente lo scenario. La serie, concepita proprio sulla
veritiera ricostruzione di un tempo passato in cui si svolgono storie fittizie,
prendendo a prestito e a pretesto le immagini di repertorio, rende la
televisione (dove essa stessa, oggi, viene trasmessa) una parte integrante
della vita dei suoi protagonisti, come oggetto da vendere e guardare -il
televisore- e come ambientazione -lo studio televisivo-, come luogo di
intrattenimento e di acculturazione. Inoltre, poiché si svolge negli anni in
cui emerge chiaramente la cultura di massa, la televisione diviene quasi il
motore teorico di American Dreams, in quanto mezzo di comunicazione ad
alta diffusione per eccellenza. Negli anni Sessanta giungono a maturazione la
massificazione del gusto e i condizionamenti rappresentati dalla fruizione
televisiva (la pop culture di cui Bandstand è l'incarnazione), ma
le stesse immagini trasmesse dalla tv finiscono però col pesare sulle coscienze
individuali e fornire il materiale di partenza per la creazione di un’opinione
personale indipendente. Così sarà anche per Meg quando si troverà a lavorare
negli studi televisivi all'archiviazione dei filmati giornalistici, proprio
come avvenne nell'opinione pubblica di quegli anni di fronte alle riprese
provenienti dal Vietnam che alimentarono proteste e crearono una nuova
consapevolezza dell'impegno bellico degli Stati Uniti.
American Dreams è una serie estremamente
ben montata: gli spezzoni di Bandstand e i pezzi musicali funzionano da
base ritmica e fungono da raccordo tra le varie linee narrative, passando
facilmente dal diegetico (il brano suonato dal disco o in studio)
all’extradiegetico (capacità evocativa del pezzo). Non solo le storie di
riflettono spesso tematicamente e trovano un'efficace convergenza nei momenti
"musicali", ma i testi delle canzoni scelte arricchiscono il contesto
con ulteriori sfumature. American Dreams è, in effetti, costruita sul
raccordo: musicale e visivo, nell’uso di uno stesso pezzo come elemento
unificante del montaggio in parallelo di ambientazioni diverse; televisivo, nel
miscelare il presente dei personaggi con il passato storico di una nazione (o
di una trasmissione). Le storie dei quattro fratelli Pryor, inoltre, sono quasi
tutte sempre costruite sul dilemma tra le aspirazioni private e le esigenze
istituzionali, siano esse familiari o sociali, come scolastiche o religiose,
sul tentativo di accordare, fin quanto possibile, le istanze di ribellione e gli
appelli al conformismo, la ricerca di un’onesta serenità, o della propria
verità interiore. I Pryor sono infatti cattolici osservanti e vivono in
un’America che ancora non si è adattata al politicamente corretto, in cui le
donne sono agli albori di un’emancipazione imminente, in cui il razzismo
persiste con un'evidente violenza mentre la contestazione sta per fare
capolino, in contemporanea con la vergogna del Vietnam, e creare profondi
dissidi generazionali. JJ, primogenito dei Pryor, è l’incarnazione dell’Eroe
americano: sportivo eccellente, aspirante campione di football poi
infortunatosi, quindi arruolato nei marines e decorato con onore in Vietnam.
Eppure la sua impassibile ostinazione a concretizzare l’orgoglio paterno sembra
minata da un’intima insoddisfazione che lo rende vittima degli eventi. Meg (la
vera protagonista della serie), con la sua presenza fissa a Bandstand,
sembra agire solo per gioco, attratta da tutto ciò che è futile. Tuttavia il
personaggio sviluppa una tendenza ad una visione personale del mondo, sposando
cause impegnative, affrontando scelte difficili, responsabilità e
consapevolezza crescenti. Patty è l'ombrosa saccente incapace di mediazione, e
Will, è il più piccolo e lamentoso dei figli, sembra vivere all'ombra del
fratello più grande. Jack, il padre, baluardo dell'ordine, rimane comunque
capace di concessioni. Helen, la moglie, è invece più intimamente combattuta
tra aspirazioni di affermazione personali e il ruolo di madre di famiglia
(tornare a studiare, impegnarsi per i diritti altrui, scegliere un metodo
contraccettivo). Sebbene coerenti con le caratteristiche del proprio
personaggio, i protagonisti di American Dreams riescono a sviluppare
sfumature convincenti, danno vita a ruoli realistici e sinceri.
In numerose puntate, una
scena ricorrente è il pasto in famiglia, in cui le voci dei figli si
accavallano in una divertente e veritiera cacofonia alla quale è sempre
difficile dare ordine. Al di là dell’ambientazione familiare idilliaca, di una
sigla (My generation) che è un caleidoscopio di superotto veri e
ricostruiti, nostalgie televisive e pranzi in comune, dei toni pop della
colonna sonora e dei colori, dell’apparente leggerezza delle trame, i sogni
americani stanno terminando, si scontrano brutalmente con l’oggettiva realtà
storica, tutti i valori acquisiti o dati per scontati devono essere
riconsiderati e il risveglio, crudo e inaspettato, sta avvenendo. American
Dreams tenta appunto di fare il raccordo tra il sogno e l’incubo
(l’omicidio Kennedy inaugura la serie), tra il radicale cambiamento e l’utopia
di una trasformazione placida e indolore. In effetti, con il procedere delle
tre stagioni, la serenità si va man mano dissipando, crescendo i personaggi si
caricano di responsabilità e sensibilità, i tempi e i toni si incupiscono
mentre Bandstand rimane sempre più sullo sfondo, spunto pop e musicale
insopprimibile.
A bilanciare la quiete
familiare dei Pryor, piena di dissidi o dissapori ma non di insanabili
contrasti, ci sono le parallele storie dei Walker, famiglia di neri coetanei e
colleghi degli altri protagonisti la cui vita deve però fare i conti con la
differenza di classe e di colore, in una struttura binaria che complessivamente
dà maggior risalto al contesto storico ed evidenzia ulteriori problematiche.
Esiste infine un ultimo
raccordo, storico, proposto da American Dreams: tra i presente dei
telespettatori e quello dei personaggi, esplicitato in uno degli episodi della
terza stagione. Mentre suo fratello è al fronte, a scuola Meg deve mettere in
scena Shakespeare; una suora pacifista le propone di mantenere intatto il testo
e fare una scelta di regia, utilizzare abiti e toni moderni e trasformando il
classico in una requisitoria contro la guerra. La messa in onda di American
Dreams è contemporanea all’impegno statunitense in Iraq, ed è difficile non
vedere nel suggerimento della suora l’indicazione a leggere il riferimento
stesso al Vietnam come il rimando alla guerra che in questo momento storico
quello stesso paese, con esiti simili, sta combattendo in Medioriente.
Interpretata da attori
perfettamente consoni ai ruoli, costruita con un montaggio rapido ed
emozionante galvanizzato dai brani dell’epoca, narrata con tono lieve ma mai
zuccheroso, American Dreams è una serie piacevole da vedere e difficile
da cancellare; nell’ultima stagione, purtroppo, ha sofferto dell’introduzione
di personaggi e linee narrative inefficaci che le hanno fatto a volte perdere
coerenza, è stata penalizzata da una successione di correzioni di tiro che
hanno inserito spunti irrisolti nel probabile tentativo di evitare la precoce
chiusura della serie. In realtà, questo atteggiamento ne ha accelerato il
declino fornendo, dopo una serie di prospettive alternative tutte sbaragliate
nel giro di un paio di episodi, un finale, provvisorio, forse incoerente.
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