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di antonio fabbri

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American Dreams

Con la messa in onda della terza stagione, si è di recente (9 gennaio 2006) conclusa su Jimmy la diffusione della serie American Dreams (2002-2005). Benché poco citato anche dalle testate specialistiche, questo serial aveva alcuni elementi di un certo interesse.
Basata sulle vicende della famiglia Pryor nella Philadelphia degli anni Sessanta, American Dreams ha una base sostanzialmente soap, prestando molta attenzione alle vicissitudini amorose dei giovani figli, ma lascia grandissimo spazio allo sfondo storico su cui si muovono i personaggi, con i drammi e i cambiamenti che gli anni Sessanta hanno portato in America e nel mondo, visti attraverso il filtro della televisione.
La serie nasce infatti sulla falsariga di American Bandstand, vera trasmissione musicale della Abc presentata da Dick Clark (qui produttore esecutivo), in cui i più noti gruppi pop del momento si esibivano davanti ad un pubblico danzante (un tipo di spettacolo solennemente preso in giro da John Waters in Hairspray). Le immagini di repertorio di questo "Top of the Pops" ante litteram si incastonano nelle riprese in studio della serie, in un gioco di rimandi e falsificazioni nel passaggio dal palco allo schermo in bianco e nero, che ricordano alcune pellicole di Zemeckis (
1964 allarme a New York arrivano i Beatles! soprattutto, ma anche Ritorno al futuro o Forrest Gump). Spesso le stesse canzoni sono rivisitate da famosi cantanti contemporanei (Chris Isaak, Alanis Morrisette e altri) in veste di guest star canora, con un continuo andirivieni dalla “verità” delle riprese e dei brani d’epoca al loro adattamento contemporaneo finalizzato alla narrazione. Meg, secondogenita dei Pryor, diventa ospite fisso di Bandstand, avendo così accesso ad una certa notorietà catodica, mentre suo padre la vede sulle tv sempre accese nel suo negozio di elettrodomestici ("Pryor radio & tv"). La televisione riveste nel telefilm un ruolo cruciale anche per i servizi giornalistici che trasmette, fornendo ulteriori informazioni sul tempo dell’azione, riverberando così di eco storiche le vicende dei personaggi e definendone precisamente lo scenario. La serie, concepita proprio sulla veritiera ricostruzione di un tempo passato in cui si svolgono storie fittizie, prendendo a prestito e a pretesto le immagini di repertorio, rende la televisione (dove essa stessa, oggi, viene trasmessa) una parte integrante della vita dei suoi protagonisti, come oggetto da vendere e guardare -il televisore- e come ambientazione -lo studio televisivo-, come luogo di intrattenimento e di acculturazione. Inoltre, poiché si svolge negli anni in cui emerge chiaramente la cultura di massa, la televisione diviene quasi il motore teorico di American Dreams, in quanto mezzo di comunicazione ad alta diffusione per eccellenza. Negli anni Sessanta giungono a maturazione la massificazione del gusto e i condizionamenti rappresentati dalla fruizione televisiva (la pop culture di cui Bandstand è l'incarnazione), ma le stesse immagini trasmesse dalla tv finiscono però col pesare sulle coscienze individuali e fornire il materiale di partenza per la creazione di un’opinione personale indipendente. Così sarà anche per Meg quando si troverà a lavorare negli studi televisivi all'archiviazione dei filmati giornalistici, proprio come avvenne nell'opinione pubblica di quegli anni di fronte alle riprese provenienti dal Vietnam che alimentarono proteste e crearono una nuova consapevolezza dell'impegno bellico degli Stati Uniti.
American Dreams è una serie estremamente ben montata: gli spezzoni di Bandstand e i pezzi musicali funzionano da base ritmica e fungono da raccordo tra le varie linee narrative, passando facilmente dal diegetico (il brano suonato dal disco o in studio) all’extradiegetico (capacità evocativa del pezzo). Non solo le storie di riflettono spesso tematicamente e trovano un'efficace convergenza nei momenti "musicali", ma i testi delle canzoni scelte arricchiscono il contesto con ulteriori sfumature. American Dreams è, in effetti, costruita sul raccordo: musicale e visivo, nell’uso di uno stesso pezzo come elemento unificante del montaggio in parallelo di ambientazioni diverse; televisivo, nel miscelare il presente dei personaggi con il passato storico di una nazione (o di una trasmissione). Le storie dei quattro fratelli Pryor, inoltre, sono quasi tutte sempre costruite sul dilemma tra le aspirazioni private e le esigenze istituzionali, siano esse familiari o sociali, come scolastiche o religiose, sul tentativo di accordare, fin quanto possibile, le istanze di ribellione e gli appelli al conformismo, la ricerca di un’onesta serenità, o della propria verità interiore. I Pryor sono infatti cattolici osservanti e vivono in un’America che ancora non si è adattata al politicamente corretto, in cui le donne sono agli albori di un’emancipazione imminente, in cui il razzismo persiste con un'evidente violenza mentre la contestazione sta per fare capolino, in contemporanea con la vergogna del Vietnam, e creare profondi dissidi generazionali. JJ, primogenito dei Pryor, è l’incarnazione dell’Eroe americano: sportivo eccellente, aspirante campione di football poi infortunatosi, quindi arruolato nei marines e decorato con onore in Vietnam. Eppure la sua impassibile ostinazione a concretizzare l’orgoglio paterno sembra minata da un’intima insoddisfazione che lo rende vittima degli eventi. Meg (la vera protagonista della serie), con la sua presenza fissa a Bandstand, sembra agire solo per gioco, attratta da tutto ciò che è futile. Tuttavia il personaggio sviluppa una tendenza ad una visione personale del mondo, sposando cause impegnative, affrontando scelte difficili, responsabilità e consapevolezza crescenti. Patty è l'ombrosa saccente incapace di mediazione, e Will, è il più piccolo e lamentoso dei figli, sembra vivere all'ombra del fratello più grande. Jack, il padre, baluardo dell'ordine, rimane comunque capace di concessioni. Helen, la moglie, è invece più intimamente combattuta tra aspirazioni di affermazione personali e il ruolo di madre di famiglia (tornare a studiare, impegnarsi per i diritti altrui, scegliere un metodo contraccettivo). Sebbene coerenti con le caratteristiche del proprio personaggio, i protagonisti di American Dreams riescono a sviluppare sfumature convincenti, danno vita a ruoli realistici e sinceri.

In numerose puntate, una scena ricorrente è il pasto in famiglia, in cui le voci dei figli si accavallano in una divertente e veritiera cacofonia alla quale è sempre difficile dare ordine. Al di là dell’ambientazione familiare idilliaca, di una sigla (My generation) che è un caleidoscopio di superotto veri e ricostruiti, nostalgie televisive e pranzi in comune, dei toni pop della colonna sonora e dei colori, dell’apparente leggerezza delle trame, i sogni americani stanno terminando, si scontrano brutalmente con l’oggettiva realtà storica, tutti i valori acquisiti o dati per scontati devono essere riconsiderati e il risveglio, crudo e inaspettato, sta avvenendo. American Dreams tenta appunto di fare il raccordo tra il sogno e l’incubo (l’omicidio Kennedy inaugura la serie), tra il radicale cambiamento e l’utopia di una trasformazione placida e indolore. In effetti, con il procedere delle tre stagioni, la serenità si va man mano dissipando, crescendo i personaggi si caricano di responsabilità e sensibilità, i tempi e i toni si incupiscono mentre Bandstand rimane sempre più sullo sfondo, spunto pop e musicale insopprimibile.
A bilanciare la quiete familiare dei Pryor, piena di dissidi o dissapori ma non di insanabili contrasti, ci sono le parallele storie dei Walker, famiglia di neri coetanei e colleghi degli altri protagonisti la cui vita deve però fare i conti con la differenza di classe e di colore, in una struttura binaria che complessivamente dà maggior risalto al contesto storico ed evidenzia ulteriori problematiche.
Esiste infine un ultimo raccordo, storico, proposto da American Dreams: tra i presente dei telespettatori e quello dei personaggi, esplicitato in uno degli episodi della terza stagione. Mentre suo fratello è al fronte, a scuola Meg deve mettere in scena Shakespeare; una suora pacifista le propone di mantenere intatto il testo e fare una scelta di regia, utilizzare abiti e toni moderni e trasformando il classico in una requisitoria contro la guerra. La messa in onda di American Dreams è contemporanea all’impegno statunitense in Iraq, ed è difficile non vedere nel suggerimento della suora l’indicazione a leggere il riferimento stesso al Vietnam come il rimando alla guerra che in questo momento storico quello stesso paese, con esiti simili, sta combattendo in Medioriente.
Interpretata da attori perfettamente consoni ai ruoli, costruita con un montaggio rapido ed emozionante galvanizzato dai brani dell’epoca, narrata con tono lieve ma mai zuccheroso, American Dreams è una serie piacevole da vedere e difficile da cancellare; nell’ultima stagione, purtroppo, ha sofferto dell’introduzione di personaggi e linee narrative inefficaci che le hanno fatto a volte perdere coerenza, è stata penalizzata da una successione di correzioni di tiro che hanno inserito spunti irrisolti nel probabile tentativo di evitare la precoce chiusura della serie. In realtà, questo atteggiamento ne ha accelerato il declino fornendo, dopo una serie di prospettive alternative tutte sbaragliate nel giro di un paio di episodi, un finale, provvisorio, forse incoerente.

     (tutti i testi sono proprietà di antonio fabbri)
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