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critica recensioni di cinema, serie tv, televisione, altro... di antonio fabbri |
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Le mele di Adamodi Anders Thomas Jensen |
Non si integrano allo sfondo i protagonisti de Le
mele di Adamo, attori di un microcosmo anomalo in cui la realtà è
variamente filtrata da differenti schemi personali - ideologici, religiosi,
patologici - e inquadrati da una macchina da presa senza profondità di campo
che li isola su fondali indefiniti (pareti, cielo) e li staglia su piani focali
separati. Asserragliati nelle rispettive fissazioni e costretti ad una
comunione forzata nel centro di recupero criminale gestito da Ivan, pastore
allucinato, i personaggi convivono in un assurdo reality show dove i
propri diversi mondi collidono senza amalgama, il neonazista incallito si trova
a confronto col mistico religioso, il cleptomane alcolizzato affianca
l'aspirante terrorista arabo in una costante ripetizione di situazioni che
riaffermano le tipologie individuali. La reiterazione variata, il tono comico e
demenziale, strutturano una sitcom stralunata in cui la logica corrente
è sottoposta a vistose forzature, dove le ferite si sanano, malattie incurabili
trovano improvvise soluzioni, le bibbie si aprono sempre sullo stesso passo.
Altamente simbolico e marcatamente enfatico, il film danese propone
un'improbabile sintesi tra immaginario scandinavo asceticamente bergmaniano
(lotta tra bene e male, senso della vita, persistenza del divino) e forma
vistosamente artificiosa di fattura hollywoodiana (citazioni classiche, musiche
hermanniane, scansione tripartita in atti, uso di artifici digitali, dolly e carrelli).
Ne deriva un effetto di realtà straniante, un universo cartoonesco di
astrazione spinta e ironia diffusa in cui il percorso di redenzione di Adamo si
struttura attorno ad un'utopica torta da fare con le mele di un albero
perseguitato dalla sfiga (corvi, vermi e fulmini), ed è scandito dal leitmotiv
pop dei Bee Gees (How deep is your love) che, infine, Ivan e Adamo
intonano insieme. Fulcro della vicenda è proprio il rapporto tra il neonazista,
cattivo per definizione, e il religioso, figura cristologica degradata con
vocazione al martirio, la cui fede diventa la lente deformante di uno stolido
ottimismo che gli impone una cecità selettiva, mentre l'antagonista è detentore
di un ironico principio di realtà imposto a suon di botte. Film come superamento
dei privati dogmi ed eccentricità, divertito gioco di antitesi concordanti, un
gioco di paradossi le cui vistose dissonanze sono orchestrate da una confezione
stilizzata e ambientazioni naturali. Se il film parla del superamento dei
privati dogmi al fine di giungere ad una singolare forma di comunicazione,
Anders Thomas Jensen sembra postulare l'abbandono del Dogma cinematografico di
Von Trier, di cui era adepto, per un antinaturalismo spinto articolato in
contrasti significanti da una regia cinematografica che, con la sua
magniloquenza formale, imprime una ricerca stilistica ad un universo
strutturato in cui il senso deriva dalla contaminazione e non dall'osservanza
acritica di un precetto filmico di faziosa e finta assenza di punto di vista. |
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