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di antonio fabbri

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I giorni dell'abbandono
di Roberto Faenza

Non c'è cinema nel film di Roberto Faenza. C'è alternanza di primissimi piani e inquadrature d'insieme, accompagnati da un'asfissiante colonna sonora a Non c'è cinema nel film di Roberto Faenza. C'è alternanza di primissimi piani e inquadrature d'insieme, accompagnati da un'asfissiante colonna sonora a perenne commento. È un film piatto, emozionalmente, e orizzontale, graficamente, con inquadrature quasi sempre frontali. Con un ottimo soggetto da fiction televisiva (che fare quando si è lasciati di punto in bianco?), Faenza spreca un buon cast (Buy e Zingaretti), dal quale ottiene risultati comunque altalenanti, mentre i comprimari sono spesso talmente imbarazzanti da dover essere ridoppiati. Sono tutti personaggi senza storia o spessore, teoremi piegati alle esigenze di copione, che gli attori si sforzano di incarnare riuscendo, nel caso migliore, a dar loro un volto e una voce. Poche le battute di qualche interesse nel testo di partenza (il "vuoto di senso", il cedimento del culo come misura della vicinanza della morte), penalizzate da una drammaturgia cinematografica zoppicante e incapace di seguire un'emozione, che molto affida alla voce fuori campo, a sottolineare la matrice letteraria grazie ad una finzione pseudo-diaristica.
Se la vicenda psicologica della protagonista non accende entusiasmi, ecco che il regista la permea di allucinazioni sulla storia di una "poverella", cornuta suicida in ambito rurale, rincarando la dose con una "vicina" di cassonetto, una barbona che staziona di fronte alla casa della Buy, zingaresca figura muta che scompare appena i problemi si risolvono (tanto per dire che è una metafora). Ma non mancano anche lucertole e nani, in una pozione avvelenata di tentativo autorale che cerca di spacciare banalità per alta poesia, aggiungendo un'oncia di trasgressione artistica (il vicino musicista, anche lui zingaresco e magnetico, interpretato da Goran Bregovich, colpevole qui della colonna sonora) nella parte dell'amante più o meno putativo. Colpisce solo una scena di sesso, talmente forzata e improbabile da risultare sgradevole: ma non riesce a scacciare il dubbio che l'imbarazzo derivi dall'imperizia delle riprese e non da una scelta registica consapevole.
perenne commento. È un film piatto, emozionalmente, e orizzontale, graficamente, con inquadrature quasi sempre frontali. Con un ottimo soggetto da fiction televisiva (che fare quando si è lasciati di punto in bianco?), Faenza spreca un buon cast (Buy e Zingaretti), dal quale ottiene risultati comunque altalenanti, mentre i comprimari sono spesso talmente imbarazzanti da dover essere ridoppiati. Sono tutti personaggi senza storia o spessore, teoremi piegati alle esigenze di copione, che gli attori si sforzano di incarnare riuscendo, nel caso migliore, a dar loro un volto e una voce. Poche le battute di qualche interesse nel testo di partenza (il "vuoto di senso", il cedimento del culo come misura della vicinanza della morte), penalizzate da una drammaturgia cinematografica zoppicante e incapace di seguire un'emozione, che molto affida alla voce fuori campo, a sottolineare la matrice letteraria grazie ad una finzione pseudo-diaristica.
Se la vicenda psicologica della protagonista non accende entusiasmi, ecco che il regista la permea di allucinazioni sulla storia di una "poverella", cornuta suicida in ambito rurale, rincarando la dose con una "vicina" di cassonetto, una barbona che staziona di fronte alla casa della Buy, zingaresca figura muta che scompare appena i problemi si risolvono (tanto per dire che è una metafora). Ma non mancano anche lucertole e nani, in una pozione avvelenata di tentativo autorale che cerca di spacciare banalità per alta poesia, aggiungendo un'oncia di trasgressione artistica (il vicino musicista, anche lui zingaresco e magnetico, interpretato da Goran Bregovich, colpevole qui della colonna sonora) nella parte dell'amante più o meno putativo. Colpisce solo una scena di sesso, talmente forzata e improbabile da risultare sgradevole: ma non riesce a scacciare il dubbio che l'imbarazzo derivi dall'imperizia delle riprese e non da una scelta registica consapevole.

     (tutti i testi sono proprietà di antonio fabbri)
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