dall'articolo:
"A noi non
interessano i monumenti", parafrasando Frank Llyod Wright, sostenevano
gli architetti moderni, e avevano ragione. Infatti la parola Monumento
tra le due guerre, era usata per esprimere la potenza di uno Stato, spesso
dittatoriale, che intendeva magnificare l'autorità, il comando,
la gerarchia.(...)
(...)Dire
a noi non interessano i monumenti, fu storicamente sacrosanto, anche se
si doveva attaccare un architetto come Giuseppe Terragni, che già
negli anni Trenta e sostanzialmente unico in tutto il fronte moderno, riuscì
a dimostrare che era possibile dare un'aura monumentale e simbolica a un
edificio senza ricorrere allo strumentario del passato ma attraverso un'ibridazione
pericolosa quanto magistrale. "
A. Saggio
Come si evince
anche dall'articolo, il termine simbolo evoca immediatamente l'idea di
monumento. Monumento in architettura soprattutto dal dopoguerra in poi,
è parola accuratamente evitata e trattata con un certo distacco.
Cos'è che richiama questa parola di così problematico? Il
mondo totalitario con le sue aquile e architetture da parata sembra costituirne
immeditamente la reificazione, almeno se si pensa al '900, andando più
indietro invece troviamo tutta la letteratura di storia dell'architettura
dove però spesso il termine subisce un calo di tensione venendo
"irrancidito" da un 'estetica da cartolina.
D'altro canto
come si legge nell'articolo, sembrano essere proprio queste le motivazioni
alla base di un rifiuto generale degli artisti del movimento moderno a
confrontarsi con la questione.
Eccetto Terragni,
in cui la propensione verso la storia era pari a quella verso la nuova
architettura, ed eccetto forse Bruno Taut, ma in maniera di gran lunga
minore, che sostanzialmente e in modo misurato (influenzato forse dal tempietto
di S. Pietro in Montorio a Roma?) ne dà una versione nel suo padiglione
di vetro: proto-monumento al catalizzatore trasparenza, che sarà
reificato solamente più tardi col Bau Haus.
Ma cercando
di andare più indietro nel tempo, spulciando fra le carte, di quel
personaggio che fu A.Loos, possiamo trovare nel suo saggio "Architettura",
che è stato pubblicato in Italia da Adelphi nella raccolta "Parole
nel vuoto", qualcosa di utile alla nostra divagazione:
"Dunque
la casa non avrebbe niente a che vedere con l'arte, e l'architettura non
sarebbe da annoverare fra le arti? Proprio così. Soltanto
una piccolissima parte dell'architettura appartiene all'arte: il sepolcro
e il monumento".
(op. citata pag. 254).
Tralasciando
l'intento polemico e provocatorio di queste affermazioni, soffermiamoci
invece su un fatto interessante:
le questioni
che solleva Loos sono implicate dell'idea di simbolo, molto più
di quanto sembra: tirando in ballo nel dibattito due tipologie di architetture
da sempre parte della storia dell'umanità, il sepolcro e il monumento,
Loos sta parlando del valore simbolico dell'architettura. Il simbolico
infatti, credo che abbia il potere di informare su aspetti di vertice della
vita umana, di implicitamente sollevare questioni non solo culturali, ma
anche etiche, e in qualche maniera (senza rischiare troppo) morali.
Stretta fra
i suoi oppositori e i suoi sostenitori, l'idea di una società democratica
pare che si stia finalmente affermando (almeno in Occidente), idea tutta
incentrata all'attenzione sull'individuo "minoranza delle minoranze".
I nuovi paesaggi
dunque, dove questi individui passano le proprie vite, appaiono sempre
di più popolati da oggetti architettonici di cui oltre a sottolinearne
la novità, impressiona sempre di più la carica simbolica
e quindi comunicativa.
Il simbolo,
infatti, svincolato dalle costrizioni di un vertice unico e assoluto, si
carica di volta in volta delle idee più disparate e opportune. Appunto
libera opportunità di esprimere, pare la "nuova sostanza" su cui
il simbolo vive.
E questa sostanza
fatta di profondi intenti comunicativi, appare negli esempi più
felici coesistere con la pura ricerca formale dell'architettura.
Vorrei ancora
una volta, soffermarmi sul museo ebraico di Libeskind, a Berlino:
L'architetto
opera in modo per me ossessivamente affascinante sulla spezzata a zig-zag.
L'angolo acuto e la capacità di guardare verso direzioni diverse
pur avanzando nello stesso spazio, sembrano costituire la radice diagrammatica
del Braccio Ebraico.
Mi sembra
un edificio come generato da un processo di aggressione, di accoltellamento
dello spazio. Questo senso del taglio è lo stesso che presiede all'entrata
della luce nell'interno: più per piani che per fasci, non è
assolutamente diffusa ma drammatica, diagonale e quasi caravaggesca. Pure
tagliate nel muro sono le fessure cruciformi, dalle evidentissime connotazioni
simboliche.
E in fondo,
guardando questo edificio:
come non pensare
ad una certa notte fine anni'30 e ad un treno deragliato nel buio in qualche
luogo orribile?
lo strazio,
la lacerazione, sono però leggibili anche come grande e interessante
tema di ricerca architettonica, dove la forma finale appare emergere da
un incredibile smembramento che però le ha conferito nuova unità.
Gli oggetti
di una cultura democratica, sembrano allora sempre più orientati
a raccontare alle persone, il senso del loro stare al mondo, amplificando
esperienze collettive e simboliche, tali da consentire l'attivizzazione
del singolo. Gli individui sembrano essere chiamati da questa nuova architettura
ad un confronto fecondo e molteplice, il che mi sembra un modo interattivo
di richiamare le soggettività alle loro responsabilità, attraverso
processi comunicativi che a ben vedere comporteranno un meglio conoscere
per meglio deliberare.
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