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di Ann Beccamorti

 

 

Era un mattino di una noiosissima domenica; l'unica cosa che mi consolava erano le rose, quell'enorme pianta di rose fuori in giardino, un giardino incolto, di piante stranissime coltivate dalla Luna, mia ammaliatrice e madre depravata. Allora sono uscita, l'ho percorso fino ad arrivare da loro: rose spinose, romantiche e cattive. Un ramo di quegli alberi, serpeggianti figure mostruose, mi ha graffiato una guancia, e subito il mio pallore cadaverico si è macchiato di un rivolo di sangue, sceso poi sul mio labbro da fanciulla vogliosa. L'ho leccato via con la lingua: era gustoso. Dalla finestra spalancata del mio loculo (perché proprio camera non lo si può definire) uscivano le note di una canzone dei Play Dead. Subito ho sentito due occhi frustrati fissi su di me: era quella vicina rompiscatole che mi spiava da una finestra del palazzo accanto. Brutta stronza bigotta! Ho notato anche il luccichio del crocefisso che stringeva in mano e le sue labbra che si muovevano freneticamente: stava pregando. Lei mi teme, a lei devo la mia reputazione di puttana sacrilega, pazza, ribelle e indemoniata che ho nel quartiere; le ho fatto ciao con la mano, ridendo, e lei è scappata via chiudendo la tenda. Se si facesse scopare più spesso dal marito, che invece va con le troie, si impiccerebbe un po' meno degli affari degli altri e sarebbe più felice: gliel'ho detto in faccia una volta e lei mi ha sputato addosso. Morirà presto e lentamente, stupida donna stupida. Non capisco: come può una villa antica come la mia sorgere tra dei palazzi così? Forse è una visione e, prima o poi, sparirà.
Tolti gli occhi immeritevoli della stronza da me ho leccato i petali di una rosa, ne ho mangiato uno e poi ne ho colte altre. Erano destinate al sacrificio della notte: le spine mi ferivano e io godevo.
Il sole, finalmente, se ne stava andando affanculo e un leggero vento spostava le nuvole all'arrivo della grande madre: lei, la Luna, musa delle rose e delle mie depravazioni.
Sul mio letto aspettavo lui, vogliosa, mentre con le rose mi accarezzavo le cosce (le ferite della notte prima erano già scomparse) e, con le dita, mi spostavo la gonnellina di pizzo nero per penetrarmi ed ansimare. Lui sarebbe venuto alle undici in punto, il mio ragazzo: a lui piace stuprarmi; io fingo di non voler fare nulla, lui ci crede e, così, gode come un pazzo. Naturalmente, in verità, a me piace molto: lui mi possiede in modo fantastico, lui mi piace, è il mio idolo, è mio. Proprio non sospetta che anch'io goda e poi tocca a me, a me piace fargli cose atroci. Dio, non vedo l'ora che arrivi.

***

Lui è arrivato, carico più che mai. Io ero seduta al tavolo e scrivevo prose subdole.
"Dai, facciamolo," mi ha detto.
"No! Non voglio!," ho gridato, isterica, in lacrime. Le candele nere fremevano sangue.
"Ora ti sistemo io." Mi ha afferrata e mi ha scaraventata sul letto a baldacchino.
Petali sparsi sulla coperta ed io ero già bagnata. Mi ha presa a sberle, mi ha tolto il vestito con forza e mi ha strappato il rosario dal collo, che è finito in mille pezzi sul pavimento di marmo. Poi poi sangue: gli ho morsicato un labbro così forte che è sgorgato fuori, macchiando tutto. Goduria, lussuria: lui mi bacia il corpo, beve il mio nettare prezioso, io mi dimeno trattenendo il piacere, cerco di scappare ma poi sento qualcosa di duro e grosso penetrarmi e, allora, scompaio dal piacere, come una dose. Forse di più.
L'ultima cosa che vedono i miei occhi è la Luna, fuori, che sorride diabolica, poi più nulla: solo il profumo dell'inferno e del mio lui.

***

Poi tocca a me. Qui viene il bello.
Lo strego, lo lego al letto, gli tappo la bocca con mille petali.
"Stupido!!" Una sberla con il mio collare borchiato ed è ancora sangue: glielo lecco, mentre i suoi occhi spaventati mi guardano pietosi.
"Non ti preoccupare, amore: non sentirai alcun male." Mi siedo a cavalcioni su di lui e gli torna duro; un'altra sberla, questa volta con la mano. L'anello lo ferisce e luccica nella notte, nella penombra.
"Ricordi? Me l'hai regalato tu, questo." Sul mio viso un salutare velo di male. Gli poso sul petto delle rose dai gambi spinosi e sfrego il mio corpo addosso al suo, comprimendogli dolore.
"Ho sempre sognato di fare di te quello che voglio.", dico, poi afferro un coltello molto grosso e lo taglio dappertutto: ferite profonde che fanno uscire ogni cosa; prendo quindi la bottiglietta del profumo al mughetto e glielo verso sugli squarci. Lui, gridando, ingoia tutti i petali e poi lo imbalsamo.
Senza ucciderlo, gli estraggo tutte le viscere, le vene, le arterie, i vari organi, allargando sempre più le sue ferite; getto tutto fuori dalla finestra (un po' l'ho recapitato alla vicina spiona in una scatola con dipinte delle stupende rose blu) e lo imbalsamo. Sangue e liquidi strani schizzano dappertutto.
Poi lo sposto un po' e dormo accanto a lui. Al mattino lo metto nell'armadio e vado a lavorare.

***

Ore undici di sera.
Eccolo: è arrivato, il mio ragazzo. Ogni lacerazione è sparita, è di nuovo vivo. Si gioca a un nuovo gioco: ora tocca a lui e poi a me. Questa notte lo taglierò a pezzi con la bellissima voce di Siouxsie in sottofondo.

 

 

Dedicato a Marco