Rientro  alla  Base

Durante  la  lunga  e  sofferta  missione  fummo  fortunati; a  parte  qualche  piccolo  disturbo,  nessuno  di  noi  fu  colpito  da  malattie  gravi. Se  disgraziatamente  uno  dell’equipaggio  avesse  contratto  malattie  da  richiedere  un  intervento  medico  urgente, sarebbe  stata  la  sua  fine  e  lo  immenso  Oceano  la  sua  tomba! Prima  di  scendere  a  terra  fu  distribuita  la  posta. Aprimmo  le  lettere  con  tanta  emozione, le  notizie  purtroppo, non  erano  sempre  buone, la  nostra  Italia  era  martellata  da  continui  bombardamenti  aerei  e  navali, scarseggiavano  i  viveri, i  nostri  familiari  erano  anch’essi  soggetti  a  sacrifici  ed  esposti  a  gravi  pericoli; ormai  la  guerra  purtroppo, non  risparmiava  nessuno. La  corrispondenza  era  soggetta  a  censura  ma  le  brutte  notizie  riuscivano  a  passare  ugualmente  e  minavano  il  nostro  morale. Il  nostro  comando, appena  rientrati  in  porto,  si  interessava  di  inviare  ai  nostri  familiari, un  telegramma  con  la  seguente  dicitura: “ tizio, in  Francia  sta  bene” ed  essi  capivano  che  eravamo  rientrati  incolumi. Il  telegramma  era  facoltativo  però  la  spesa  era  a  nostro  carico. Qualcuno, in  segno di  protesta, rinunciava  a  spedire  la  comunicazione. Si  potrà  credere  un  paradosso, purtroppo  era  così. La  macchina  burocratica  statale  negava  quella  piccola  agevolazione  a  chi, dopo  aver  tanto  sofferto  in  mare  e  messa  a  repentaglio  la  propria  vita, non  poteva  far  sapere  ai  suoi  cari  che  si  era  ancora  vivi;  quelle  poche  parole  purtroppo, bisognava  pagarsele.

 
     
 

 
 

Equipaggio del Smg Morosini  al rientro alla base

 
 

 

 
 

Dopo  aver  ritirato  la  posta  scendemmo  a  terra, poggiati  i  piedi  sulla  terra  ferma  avemmo    l’impressione  di  non  saper  più  camminare, sembravamo  tanti  ubriachi. Entrammo  in  un  gran  camerone  dove  erano  installate  le  docce, ci  togliemmo  i  sudici  indumenti  e  ci  mettemmo  sotto  le  docce  ristoratrici  (dopo  sessanta  giorni!), la  pelle  era  talmente  unta  che  il  sapone  stentava  a  prendere  contatto, l’acqua  sporca  che  scorreva  sul  pavimento  verso  gli  scarichi, aveva  il  colore  del  caffé ……  Alla  sera  andammo  in  franchigia, il  giorno  dopo  tutti  accusavamo  un  gran  dolore  muscolare  alle  gambe  che  scomparirono  in  pochi  giorni, certamente  provocato  dal  moto  improvviso  dopo  circa  due  mesi  di  semi-immobilità. A  tutti  gli  equipaggi  dei  cinque  sommergibili  che  parteciparono  con  buoni  risultati  al  blitz  dei  Carabi, il Comando Superiore  decise  di  premiarli  concedendo  loro  una  licenza  di  circa  un  mese  compreso il  viaggio. Quando  fortunatamente  rientrarono  tutte  le  unità, il  nostro  Comando, appoggiato  dai  tedeschi, s’interessò  di  farci  viaggiare  tutti  insieme  (300 uomini  circa), con  un  unico  treno  diretto  a  Verona. Il  tragitto  del  treno  non  poteva  essere  quello  normale  e  si  doveva  evitare  il  territorio  francese, quel  territorio  che  si  venne  a  creare  dopo  la  clamorosa  sconfitta  lampo  della  Francia  da  parte  dei  tedeschi  dando  l’avvio  a  quel  tanto  discusso  governo  di  Vichy  con  a  capo  il  Maresciallo  Petain. Costretti  quindi  a  passare  nel  territorio  occupato  dai  tedeschi; il  tragitto  si  raddoppiava  con  un  itinerario  che  toccava  diverse  località: Bordeaux, Parigi, Metz, Stoccarda, Ulma, Monaco  di  Baviera, Insbruck, per  entrare  in  Italia  dal  valico  del  Brennero. L’iniziativa  di  farci  viaggiare  tutti  insieme  con  il  treno  speciale  fino  a  Verona  senza  altri  trasbordi, era  per  noi  un  vantaggio  enorme  che  accettammo  con  tanto  piacere  ma, purtroppo, non  fu così. Partimmo  dalla  stazione  centrale  di  Bordeaux  felicissimi  e  non  vedevamo  l’ora  di  poter  riabbracciare  i  nostri  cari. Avremmo  voluto  quasi  simbolicamente, mettere  le  ali  a  quel  treno, invece  ci  accorgemmo  che  in  ogni  stazione, sia  piccola  che  grande, si  fermava, facendo  soste  prolungate. Non  ricordo  quante  fermate  fece  il  treno  prima  di  arrivare  in  una  stazione  a  circa  trenta  30  Km.  da  Parigi. Ci  fu  più  di  un’ora  di  sosta  ed  allora  cominciammo  a  protestare  contro  il  personale  ferroviario  francese  ma, le  nostre  proteste  caddero  nel  vuoto  ed  i  ferrovieri  rispondevano  vagamente. Ad  un  tratto  il  treno  si  mosse, facemmo  un  sospiro  di  sollievo  sperando  che  fosse  la  volta  buona  invece, dopo  alcune  manovre, il  treno  fu  dirottato  ad  un  binario  morto, distante  dalla  stazione  circa  cinquecento  metri  a  questo  punto, la  nostra  rabbia  esplose, abbandonammo  le  vetture  devastandole  e  spaccando  tutto  quello  che  si  poteva  rompere.   I  ferrovieri  addetti  alle  manovre  ci  guardavano  impassibili  e  senza  proferire  parola, avremmo  voluto  dar  loro  una  bella  lezione  ma, nel  timore  di  compromettere  la  licenza  premio   desistemmo  da  tale  proposito.

Abbandonato  il  treno  demmo  l’assalto  ad  un  vagone  carico  di  carriole  che  si  trovava  in  sosta  attigua  al  nostro, caricammo  i  nostri  bagagli  e  ci  dirigemmo  verso  gli  uffici  della  stazione  perché  sapemmo  che  ogni  ora  partiva  un  treno  per  Parigi. Scaricammo  le  carriole  abbandonan-dole  ove  capitava: sui  binari, sui  marciapiedi, sulla  massicciata, insomma, tutta  la  stazione  fu  invasa  da  cento carriole  così, a  trenta  km.  da  Parigi, finì  la  corsa  del  nostro   treno  che  ci  dove-va  portare  direttamente  in  Italia. Per  il  resto  del  viaggio  ci  arrangiavamo  per  nostro  conto  divi-dendoci  in  gruppi. A  Stoccarda  dovemmo  cambiare  treno  e, mentre  eravamo  in  attesa  dell’arrivo  di  questo, sul  marciapiede  della  stazione  passò  davanti  a  noi  il  controllore  tedesco  il  quale, aveva  viaggiato  con  noi  dal  confine  in  sostituzione  di  quello  francese. Durante  il  viaggio  aveva  tenuto  un  conte-gno  poco  corretto  nei  nostri  riguardi  pronunciando  continuamente  frasi  offensive  e, ancora  una  volta, rivolgendosi  verso  di  noi  esclamò:     “Italiani  maccaroni !”   Quel  malcapitato  controllore  non  finì  la  frase  che  gli  arrivò  un  tremendo  pugno, sferrato  da   un  nostro  sottocapo  il  quale, gli  spaccò  le  labbra  facendolo  cadere  a  terra  battendo  la  nuca nei  sottostanti  binari  perdendo  i  sensi. Il  trambusto  che  venne  fuori  fece  accorrere  due  ufficiali  delle  “ SS”,  che  si  trovavano a  poca  distanza  da  noi, e  per  fortuna, c’era  un  nostro  sergente,   che  parlava  correttamente  il  tedesco, riuscì  a  spiegare  loro  il  contegno  provocatore  che  aveva  avuto  nei  nostri  confronti  quel  controllore, e  che  ancora  giaceva  in  terra, privo  di  sensi  e  posto  di  traverso  sui  binari; appreso  del  contegno  insolente  del  ferroviere, che  aveva  fatto  scaturire  la  violenta  reazione  del  nostro  compagno  di  viaggio, uno  degli  ufficiali  chiamò  due  soldati  tedeschi  per aiutare il malcapitato  controllore, ad  alzarsi  mentre  l’altro  aveva  procurato  un  secchio  d’ac-qua  che  rovesciò  sulla  faccia  dello  stesso, per  farlo  rinvenire, poi  lo  fece  accompagnare  nei  locali  della  stazione. Intorno  a  noi  si  erano  radunati  molti  viaggiatori  ma  nessuno  proferì  parola. I  due  ufficiali  furono  molto  gentili, s’interessarono  delle  nostre  necessità  per  farci  prendere  il  primo  treno  diretto  in  Italia  e  si  scusarono  per  l’accaduto. Riprendemmo  il  viaggio  e  finalmente, dopo  due  giorni  e  due  notti  stanchissimo, arrivai  a  casa. vi  rimasi  all’incirca  venticinque  giorni  che  passarono  in  un  baleno.

 
     
 

 
 

Ancora una bellissima foto di gruppo

 
     
 

Ripartii  di  mattina  e  appena  fuori  dalla  mia  cittadina  mi  appoggiai, emozionato, dal  finestrino  del  treno  per  guardare  verso  la  collina  dove  c’era  la  mia  casa  in  mezzo  alla  campagna, rimasi  in  quella  posizione  finché  mi  fu  possibile, mentre  il  mio  pensiero  si  rivolgeva  ai  miei  cari  e  mi  chiedevo  se  il  buon  Dio  mi  avesse  dato  un  giorno, la  gioia  di  rivederli  ancora. Il  viaggio  di  ritorno  si  svolse  abbastanza  regolare, durante  il  tragitto  mi  unii  a  parecchi  commilitoni  incontrati  ed  insieme  rientrammo  alla  base. Trovammo  il  nostro  sommergibile  quasi  pronto  a  riprendere  il  mare, revisionato  in  ogni  sua  parte, per  opera  di  operai  specializzati  che  provenivano  dai  cantieri  navali  nazionali  e  trasferiti   alla  nostra  base. L’equipaggio  fu  subito  impegnato  al  riforni-mento  di  tutto  quanto  occorreva. Furono  imbarcati: siluri, munizioni, viveri  ecc., in  previsione  di  un’altra  lunghissima  missione, durante  quei  giorni  d’intensi  preparativi  mi  ammalai; la  febbre  non  era  molto  alta  ma, si  notava, un  arrossamento  della  pelle  in  varie  parti  del  corpo  con  un  dolo-roso  prurito. Marcai  visita  ed  il  tenente  medico  mi  fece  ricoverare  all’ospedale  perché  soggetto  di  una  forma  di  “Herpes – Zoster”  (Fuoco  di  S.Antonio). Passarono  alcuni  giorni, giunse  l’ordine  di  partenza  dell’unità  ma  io, non  ancora  guarito  completamente, rimasi  in  ospedale. Seppi  che  il  mio  sommergibile  avrebbe  mollato  gli  ormeggi  nella  mattinata. Mi  cambiai  in  fretta  e  senza  alcuna  autorizzazione, uscii  dall’ospedale  e  presi  il  primo  mezzo  per  la  base. Raggiunsi  la  ban-china  d’ormeggio, appena  in  tempo  per  poter  salutare  alcuni  commilitoni  già  schierati  in  coperta  il  sommergibile  era  pronto  a  muovere. Quasi  a  poppa  estrema, c’era  il  caro  amico  Torquato  di  Porto  S. Giorgio  che, appena  mi  vide, scese  a  terra  e  mi  abbracciò  affettuosamente.

Prima  di  lasciarci, mi  strinse  forte  la  mano  e  mi  disse:     Caro Gino!  La  tua  malattia  ti  salverà  la  pelle  perché  sento  che  questa  volta  non  torneremo  alla  base”.    Io  rimasi  allibito  e  non  riuscii  a  proferire  parola, mi  lasciò  la  mano  e  con  uno  scatto  ritornò  a  bordo  al  suo  posto  poi  si  voltò  e  mi  esclamò!  “ Quando  passerai  a  Porto  S. Giorgio  porta  i  miei  saluti”. L’equipaggio  mollò  le  cime, si  sentì  l’aumento  del  ronzio  dei  motori  poi, il  ribollire  dell’acqua  contro  la  banchina  provocato  dalle  eliche  in  moto. Il  sommergibile  lentamente  cominciò  a  spos-tarsi, lo  seguii  con  gli  occhi  finché  non  scomparve  dietro  chiuse  del  bacino. Fu  l’ultima  volta  che  vidi  il  “Morosini”  ed  il  caro  indimenticabile  equipaggio. La  tragica  previsione  del  conterraneo  Torquato  si  avverò, il  “Morosini”, partì  per  non  tornare  più.  Il  sommergibile  scomparve  mentre  stava  rientrando  da  una  lunghissima  sofferta  missione, a  poche  decine  di  miglia  dall’imbocco  della  Gironda, nel  maledetto  Golfo  di  Guascogna  da  noi  ribattezzato  “Golfo  della  Morte”.

 

Orgogliosi della nostra bandiera

 

(clicca sull'immagine per ingrandirla)

La  sciagura  avvenne  fra  l’8  e  l’11  agosto  1942. Dopo  la  guerra, da  informazioni  assunte  presso  lo  Ammiragliato  inglese, si  seppe  che  l’unità  fu attaccata, mentre  si  trovava  in  fase  d’immersione, da  aerei  nemici  e  centrato  in  pieno  da  alcune  bombe  di  profondità. Colpito  a  morte  il  Morosini, protagonista  di  brillanti  azioni  di  guerra  s’inabissava  portando  con  se, nel  suo  ventre  d’acciaio, tutti  i  58  uomini  d’equipaggio, non  lasciando  testimonianza  di  sorta, ne  uomo, ne    relitto, ne  una  macchia  d’olio, nulla. Il  mare  insaziabile  e  terribile, fagocitò  tutto  quell’ammasso  con  una  semplicità  disarmante, come  se  nulla  fosse  accaduto  e  cancellò  tutti  i  segni  della  tragedia  con  il  suo    moto  perpetuo  delle  onde. Nessuno  potè  spiegare  le  cause  precise  della  scomparsa, nessuno    saprà  dire  mai  quanto durò  la  terrificante  agonia  nella  profondità  del  mare, impotente  l’equipagio  racchiuso  in  quella  scatola  “d’acciaio”  che  si  tramutava  in  una  bara  collettiva. E’ terribile  descrivere  le  scene  pietose  della  morte, …. ancora  una  volta  il  destino  ha  voluto  risparmiarmi  da  quella  tragica  fine!   

Nell’arco dei  tanti  anni  trascorsi, li  ho  sempre  ricordati  con  affetto  e  tanta  commozione. Nella  mia  mente  riaffiorano  nitidi  i  loro  volti, per  averci  vissuto  per  lungo  tempo, condividendo  pericoli    e  difficoltà  ma  anche  momenti  di  gioia  e  spensieratezza: eravamo  tanto  giovani! Rivedo  le  facce  tese  sotto  i  bombardamenti  subacquei, ricordo  le  confidenze  che  ci  scambiavamo  durante  le  in-  terminabili  e  sempre  più  rischiose  missioni  di  guerra, i  progetti  per  l’avvenire  appena  tornati  a    casa  incolumi … gli  scherzi  che  ci  scambiavamo, franchigie  alla  conquista  di  qualche  bella  francesina, l’avventura  di  qualcuno  che, inorgoglito, aveva  passato  un’ora  d’amore  con  una  bella  “ingenua  ragazza”  ma, costretto  a  ricorrere  alle  cure mediche  dopo  qualche   giorno … Sono  tutti  ricordi  che  mi  si  accavallano  ora  nella  mia  memoria, mentre  mi  si  forma  un  nodo  in  gola ……

In  seno  agli  equipaggi, i  Comandanti, gli  Ufficiali, i  Sottufficiali  ed  i  marinai, stabiliscono  un    rapporto  fraterno, una  collaborazione  perfetta  nel  rispetto  reciproco  e  ciascuno  assolve  gli  incarichi  cui  è  preposto, anche  i  più insignificanti, con  serietà  e  perizia, consapevoli  che  ogni  pur  minima  distrazione  può  causare  serie  conseguenze. Queste  erano  e  sono  tuttora  le  caratteristiche    di  tutti  gli  equipaggi  di  sommergibili, obbligati  a  vivere, operare  in  un  ambiente  che  si  può  definire  di  fantascienza. Quando  si  scende  laggiù, nell’abisso, il  destino  di  tutto  l’equipaggio  diventa    unico  ed  inconsciamente  ci  si  rende  conto. Forse, è  questo  il  motivo  che  ci  lega  a  fraternizzare   e  rimanere  tali  per  il  resto  della  vita.