la regina degli elfi
Associazione Tra un atto e l’altro/Angela Malfitano
La Regina degli Elfi – long playing
di e con Angela Malfitano e 6 giovani attori
da un monologo di Elfriede Jelinek
video Lorenzo Letizia
suono Francesco Brini
assistenza Alessandra Lanfranchi
In collaborazione con: Associazione T.I.L.T_Imola, Comune di Castel
Maggiore, Sì*Metrica, Spazioindue_Bologna
Un ringraziamento a: Marta Dalla Via, Anna Del Mugnaio, Marco De Marinis,
Elena Di Gioia Roberto Grandi, Roberto Latini, Francesca Mazza, Silvia Mei,
Marco Sgrosso
Questo spettacolo parla del Potere.
La protagonista è una vecchissima attrice del teatro tradizionale viennese,
ma che si è prestata al gioco della oscena propaganda nazista nel cinema, e,
in seguito, anche contaminata con tarde apparizioni televisive; ora non
vuole morire, nè lasciare il suo pubblico e il palcoscenico, luogo del suo
potere.
Il lavoro nasce, in formato short, come omaggio al mio Maestro Leo de
Berardinis, per l’evento Molti pensieri vogliono restare comete, nell’estate
2009. Cercavo una partenza che fosse folgorante. Doveva essere un
innamoramento come solo alcune volte è successo nella mia storia di attrice-
autrice. L’omaggio a Leo doveva
essere un lavoro d’autore ed essere nel solco che lui mi aveva indicato.
Rigore, adesione totale, necessità, etica. Così, alle prime righe della
Jelinek, ho riconosciuto il momento magico. Nel sarcasmo, nel gioco del
teatro e del potere, nella bellezza assoluta e tagliente della scrittura. La
forma short è stata poi replicata in vari
festival.
La Jelinek scrive del potere dell’attore sul palco che si intreccia e si fa
maschera del potere nazista in un sollevarsi di polveri e di provocazioni,
di contrasti che detonano.
Col sarcasmo di chi è nauseato dalla piccolezza e dal Potere.
La scrittura dell’autrice porta alla percezione di doppi, tripli, livelli di
significato e di evocazione: il potere dell’attore sul palco si intreccia e
si fa maschera del Potere nazista.
Sono intrigata anche dalla auto-provocazione che faccio a me e a chi come me
considera il Teatro un luogo sacro. La sensazione di chi ascolta lo
scivolare delle parole dell’attrice/fantasma Wessely è quella di voler
catturare continuamente dei significati, senza mai riuscire a inquadrare
tutti gli stimoli e le visioni nella cornice
rassicurante che la nostra mente vorrebbe. Anche per questo amo la Jelinek,
perché non si fa catturare; e perché è una ragazza cattiva e arrabbiata.
Sempre contro ogni tipo di Potere.
Anche se l’ambiente in cui ci muoviamo è strettamente austriaco, ho
avvertito una grande necessità personale e politica in questa mia nuova
avventura, che va aldilà di ogni regionalità.
Ci sono tutti i nostri ultimi decenni di storia in questa piece.
Angela Malfitano
Il personaggio che la Jelinek ritrae nella piéce è realmente esistito; è
Paula Wessely, attrice del Burgtheater di Vienna, famosa e apprezzata già
prima e durante il Terzo Reich. Allieva di Max Reinhardt, era divenuta una
delle interpreti più popolari del teatro viennese, ma era giunta all’apice
lavorando con il cinema nazista.
Ciò le costerà dopo la guerra una temporanea interdizione. Tornerà poi a
lavorare nei film in technicolor che riportano un’Austria felice e da
idillio alpino e in televisione. La Wessely muore nel 2000 a 93 anni.
Un’antica tradizione viennese prevede una cerimonia funebre d’onore per gli
attori del Teatro Nazionale: i
Burgschauspieler, le cui salme vengono portate in processione per tre giri
intorno all’edificio. Qui la Jelinek immagina la scena. In sospensione,
dall’alto di una bara che è anche palcoscenico.
Elfriede Jelinek è scrittrice e drammaturga. Nel 2004 le è stato assegnato
il Premio Nobel per la letteratura.
fotografie di A. Fucillo
pensiero sul linguaggio
dopo le prove di "La Regina degli Elfi-long
playing"
di Virna Gioiellieri, esperto di comunicazione per Hera, Bologna2000 Capitale
della Cultura Europea, ex assessore a Istruzione e Cultura Comune di Imola
"I limiti della mia capacità espressiva sono i
limiti del mio mondo"
(Ludwig Wittgenstein)
Il linguaggio non è mai letterale, cioè un insieme
neutro di parole e non è mai neutro. Le parole contengono sempre più di un
significato e sono efficaci mezzi di espressione se impiegate a ragion veduta e
con proprietà. La proprietà d’uso si potrebbe definire come l’esatta e non
casuale collocazione in un contesto che
esprime l’intenzione di chi comunica (consapevole o no) e arriva al/ai
destinatario/i che, consapevole o no, la recepisce. Ma anche la proprietà d’uso
non è oggettiva e assoluta. Dipende dal contesto storico, sociale e culturale.
Per es. il linguaggio dei sistemi democratici è diverso da quello dei sistemi
autoritari, qualsiasi sia
la loro forma. In questi ultimi il linguaggio finisce per essere strumento di
manipolazione della realtà, delle menti e delle coscienze, nei primi indica il
grado e la qualità della pratica democratica.
Siamo in un contesto autoritario, dove è tipico il pullulare di luoghi comuni
ripetuti all’infinito, dove le parole “sgradite” sono selezionate e censurate,
dove, appunto, si tracciano imperativamente i limiti del mondo in cui è
legittimamente concesso vivere relativamente tranquilli. Osare andare oltre
significa l’annientamento, l’emarginazione, l’annullamento umano e sociale. Sì
perché le parole hanno una energia, esercitano una forza e hanno un colore, sono
chiavi di indagine e di conoscenza della realtà, aprono nuove viste su di essa,
producono fatti e atti e aprono nuove possibilità, hanno un potere creativo
intrinseco.
Dunque sono uno strumento di libertà, pericolose per il potere e i sistemi
autoritari. Vi sono quindi parole proibite e altre abusate, le une tabù del
presente, le altre talmente saccheggiate e spremute nel loro significato
ammesso, da divenire veicolo di terrore e paura e infine tabù del dopo regime,
confinate in una sorta di
quarantena per un lungo percorso di riabilitazione. Del resto il potere che si
autolegittima conquistando un largo consenso popolare lo fa attraverso la
manipolazione, l’ossessiva ripetizione di espressioni e luoghi comuni che
rendono tutti orgogliosi e producono l’identificazione eroica con la “guida” che
ne è l’artefice.
E’ così, attraverso l’introiezione dei modelli e della visione di vita proposti
che si crea l’alienazione delle masse, che, ormai prive del senso di realtà, si
identificano, legittimandolo, nelle figure che rappresentano il potere. Il
potere, quell’oscuro oggetto del desiderio cui tutti ambiscono fino ad
incatenarsi per esso. “Così il popolo diventa potere, ma poiché il potere non si
può conoscere, lui non conosce se stesso” e ancora “Il potere si autorizza
sempre da sé, io però sono stata autorizzata da voi, signore e signori” così
recita la protagonista delle piéce teatrale della Jelinek, Paola Wessely nella
sua parata funebre. Qui il linguaggio di regime più che pronunciato è disvelato
e rivelato in tutta la sua forza manipolativa e impositiva. E’ un altro
linguaggio a farlo. Sottile nei suoi plurimi significati (di contenuto, di tono,
di termini), scorre in equilibrio come sul filo del funambolo, confine fra
l’ambito di assuefazione e di accettazione vissuto in vita e quello di lucida e
feroce critica che solo nella morte può raccontarsi. E lo fa con un linguaggio
impeccabilmente metaforico e allusivo (lui, il lupo, la guida, il carrettiere,
Il singolo non deve neanche poter contare fino a tre, meglio che non conti per
niente) privo di potere sui fatti reali perché rivela il passato e può essere
solo lettura a posteriori, decretando così l’efficacia e il successo della
manipolazione. Un linguaggio che usa quello del potere e al contempo, nella sua
forza rivelatrice, suona cinico, impietoso, beffardo, amaro e
sprezzante verso il popolo che ne è l’oggetto e chi si è adattato ad esserne
strumento di manipolazione dissimulata attraverso il mestiere di attrice. Un
testo politico, di grande attualità.
stampa
Culture
Teatrali 07/07/11
Il Corriere di Bologna 27/12/11
Il Resto del Carlino 29/12/11
La Repubblica 29/12/11
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