Salvatore Spinuzza-Riflessioni




Quale altro ricordo, quale altro “segno sul muro” Cefalù potrebbe dedicare a Salvatore Spinuzza?
Forse le parole del poeta Miguel Hernandez: “Ma c'è un raggio di sole nella lotta / che sempre lascerà l’ombra sconfitta”. Ma perché un segno sul muro abbia importanza, deve essere specchio, rappresentazione materica di un riflesso interiore, un “segno nell’anima”.
“Sventurata quella terra che ha bisogno di eroi”, fa dire Brecht a Galileo nel suo dramma “Vita di Galileo”. E’ difficile indagare il mistero che circonda l’eroe. Al vaglio di un’analisi razionale, nessuno, si pensa, vorrebbe essere un eroe a prezzo della vita; la vita è importante. Eppure tanti hanno fatto questa scelta, nei momenti storici più diversi, per le idee più diverse.
A volte sono stati pedine in un ingranaggio, persuasi da discorsi propagandistici ad affrontare realtà di inattesa e inimmaginabile angoscia, come il protagonista di “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di E.M. Remarque. A volte sono stati soggetti coscienti di convinzioni che, giuste o sbagliate che vengano definite alla luce di eventi futuri, hanno dato comunque loro la forza di decisioni estreme.
A volte sono stati eroi non legati a vicende belliche, eroi “civili”, persone che in un istante fatale hanno deciso di anteporre la salvezza del proprio fratello alla propria. Tra i figli di Cefalù ricordiamo tra questi il nome di Franco Bellipanni.
A volte sono stati eroi come Spinuzza: testimoni dell’utopia, consapevoli artefici del proprio tragico destino, che si sono assunti il peso di riscattare l’ingiustizia, la violenza, l’oppressione. Uomini soli che hanno osato per prima cosa il sogno. E per questo più pericolosi: l’utopia di oggi può essere la realtà di domani. La Sicilia ne ha conosciuti tanti di uomini così. Purtroppo ne ha conosciuti anche in tempi in cui non c’era una monarchia assolutista e retriva, in cui non c’era un regime, una dittatura, una guerra; uomini a cui il vivere in un momento storico di democrazia avrebbe dovuto garantire l’esercizio dei propri diritti e l’affermazione della legalità. Uomini morti tragicamente, come ad esempio Placido Rizzotto, Falcone, Borsellino, Impastato, don Puglisi, pochi nomi a simboleggiare tutti gli altri.
O uomini come Danilo Dolci, il “Gandhi della Sicilia”, l’intellettuale triestino venuto in Sicilia a dar voce agli “ultimi” in paesi devastati dal degrado e dalla fame, che non ha perso la vita per le sue idee, ma è stato perseguitato e ha subito l’arresto per gli scioperi non violenti organizzati nel 1956 a Trappeto e Partinico.
Difficile comprendere l’aura che circonda queste persone. Ma qualunque sia la loro idea, la loro lotta, ad accomunarli è la gratuità dell’atto, l’aver agito non per il proprio vantaggio personale, ma addirittura contro di esso.
Salvatore Spinuzza viveva sotto una monarchia che lo statista inglese Gladstone definì “negazione di Dio eretta a sistema di governo”. Sognava un’Italia nuova, fondata sui principii della libertà e della giustizia. Non astratta giustizia, ma la giustizia che protegge il debole dalla prepotenza del forte; non astratta libertà, ma libertà dal bisogno, dall’ignoranza, libertà di pensiero. Un’Italia che forse ancora non è.
Sono i peccati degli uomini che caricano Cristo della Croce. E l’eroe porta sulle spalle con l’offerta del suo sacrificio la volontà di riscatto per tutti gli altri. La colpa dei nostri avi contemporanei di Spinuzza non fu tanto quella di non aver partecipato a un’azione di rivolta che ai loro occhi appariva follia, ma quella di aver contribuito a creare le condizioni perché la rivolta fosse “follia”, tacendo quando avrebbero potuto schierarsi, (v. ad es. la Chiesa), o, per la gente comune, continuando giorno dopo giorno ad accettare l’ingiustizia e l’arroganza, continuando, con l’acquiescenza, l’apatia, l’indifferenza, a non far cambiare il vento.
Spinuzza, sconfitto dal punto di vista militare, non lo è stato nel suo orgoglio di uomo libero. Ma se vogliamo vedere la sua vicenda rapportata al mondo di oggi, dovremmo riflettere sul fatto che egli continua ad essere tradito e sconfitto ogni volta che il cinismo trionfa sul sogno, ogni volta che l’espressione del proprio pensiero, delle proprie opinioni, del proprio dissenso, provoca “conseguenze”, sia pure solo quelle dell’esclusione, dell’emarginazione, della discriminazione; ogni volta che l’arrendevolezza nei confronti dei potenti vince sull’affermazione della dignità della persona.
“Non è sufficiente limitarsi a invocare libertà e democrazia. Deve esserci la determinazione di resistere alle influenze corruttrici del desiderio, della malevolenza, dell’ignoranza e della paura”, afferma Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace nel 1991.
Sarà il coraggio dell’onestà quotidiana a creare un futuro più limpido e luminoso, un futuro dove il sacrificio di chi ha lottato per la giustizia abbia un senso assolutamente vincente; un futuro dove accada ancora, e sempre, che vi siano persone che credono fortemente nelle proprie idee, ma dove non accada mai più che le idee debbano essere testimoniate col sangue altrui o col proprio,… che un Salvatore Spinuzza debba scambiare la propria carne viva con il marmo di una statua, la propria parola parlata con la scritta di una lapide.
Tuttavia è giusto dare spazio ai segni, segni che siano rigenerazione e catarsi attraverso la memoria. Come dice Patricio Manns nei versi all’ingresso di Villa Grimaldi, spietato centro di detenzione del Cile di Pinochet, ora Parco per la Pace, “para que siempre/para que nunca más”.


Angela D. Di Francesca




Salvatore Spinuzza nel libro "Il sorriso dell'ignoto marinaio"

Alcune scene dal libro "Il sorriso dell'ignoto marinaio" che parlano di Salvatore Spinuzza, accennando alla sua attività di patriota e alla sua storia d'amore.
Gli episodi si svolgono nel Palazzo del Barone Enrico Pirajno di Mandralisca,nel 1852.



                                



Le foto dei "fumetti " sono di P.Cimino e S. Varzi e sono tratte dal video "Ritratto" di Angela D. Di Francesca e Caterina Di Francesca (regista). Personaggi:
Duca d'Alberì= Sandro Varzi
Salvatore Spinuzza= Andrea Arcuri
Giovanna Oddo=Marzia Cristina
2 patrioti=Mario Maltese, Giuseppe Cimino
2 dame=Rosalinda Brancato, Angela Di Francesca


“Sventurata quella terra che ha bisogno di eroi” (B. Brecht).

SALVATORE SPINUZZA E LE TRE GIORNATE DI CEFALU’
una storia di libertà


Immortalato nelle lapidi e nelle statue che ne ricordano le imprese, ogni eroe finisce col collocarsi in una dimensione molto lontana da noi, come se pirandellianamente il suo esistere si strutturasse solo in quella “forma”, in quel momento, in quella “maschera” a una sola dimensione: un nome circondato da aggettivi e frasi d’altri tempi, che qualcuno accusa di retorica. Accade così anche con Salvatore Spinuzza, che le circostanze trasformarono in martire del Risorgimento a soli ventotto anni. Sequestrato dal tempo e dall’oblio, per liberarlo occorre ridargli un’identità, una psicologia, un carattere, occorre ridargli i colori della sua vita, dei suoi occhi, dei suoi capelli per sconfiggere il bianco del marmo e la morte. Occorre ritrovarlo come un giovane uomo nella cui mente si agitavano i pensieri della lotta per l'Italia unita, di Garibaldi, dei convegni segreti per organizzare le azioni militanti antiborboniche, gli ideali, le paure e le speranze, i sogni del futuro, l’amore per la libertà e l'amore per una ragazza -che forse si chiamò Giovanna Oddo, o che ebbe dalla fantasia di uno scrittore questo nome a simboleggiare un sentimento che ogni giovane prova-; un uomo coraggioso, che credeva nelle sue idee e le portò avanti senza perseguire vantaggi personali, che combattè e fu sconfitto e che diede la testimonianza del sangue.
Figlio di un commerciante cefaludese, don Rosario, e di donna Maristella Amato, casalinga, Salvatore Spinuzza aveva manifestato molto precocemente la passione per la libertà. Incerta è la sua collocazione ideologica: mazziniano, moderato costituzionalista, o addirittura anarchico? Una lettera del 1859 di Rosalino Pilo a Nicola Fabrizi riguardante il moto di Cefalù del novembre 1856 lo definisce mazziniano:”lo Spinuzza negli ultimi tempi era cambiato d’opinione, cioè, se prima era costituzionale, …poi passò per repubblicano mazziniano… Civello mi assicura che lo Spinuzza ogni volta che giungeva la Libera Parola si entusiasmava…che declamava le poesie di Vittore Ugo (Victor Hugo) le più scaldate”(cit. da Domenico Portera, Cospirazioni democratiche in Sicilia, ed.Giorni Nuovi); tuttavia la lettera dice che Spinuzza e gli altri patrioti avevano stabilito di dare alla rivolta un carattere per così dire neutro, tanto che le parole d’ordine, gli slogan diremmo oggi, erano “Viva l’Italia e la Libertà”, “Viva l’Italia Unita”, ma senza specificare “l’Italia Repubblicana”. Nei verbali di interrogatorio del resto, a sciogliere ogni dubbio, c’è la dichiarazione di Spinuzza che nega di aver inneggiato alla Repubblica, essendo “per una monarchia costituzionale”.
Appena diciannovenne Salvatore Spinuzza era stato arrestato una prima volta dopo i moti del 48. Vincenzo Consolo nel descriverlo come invitato a un ricevimento del Barone Mandralisca nel 1852 dice che "portava ancora i segni delle torture".
Il Barone Mandralisca, nobile illuminato, lo riceveva nella sua casa insieme a Nicola e Carlo Botta e ad altri patrioti. Come altri nobili dell’epoca,- un momento storico particolare che in certe occasioni unì trasversalmente nobili e plebei nella lotta per i valori risorgimentali-, anche il Mandralisca era animato da ideali di libertà e giustizia, e in quel periodo gli ideali di libertà e giustizia coincidevano politicamente e concretamente con l'adesione alla nuova Italia unita e contro il governo dei Borboni, "un dominio", afferma lo storico Francesco Guardione, "che avrebbe agognato incatenare perfino il pensiero".
Spinuzza aveva conosciuto la durezza delle carceri borboniche una seconda volta nel 1853, fino al 1856, data in cui la Corte di Trapani lo mandò assolto.
La sua libertà era durata poco. Essendosi avute da parte della polizia segnalazioni circa riunioni e “movimenti” di patrioti, e circa il possibile sbarco di una nave di garibaldini nella zona, ed essendo lo Spinuzza considerato elemento pericoloso per la sua audacia e le sue capacità di leader, si era provveduto al suo arresto.
Nel novembre 1856, allo scoppiare dei moti, Salvatore Spinuzza era in carcere per la terza volta.
Il moto del 1856 era stato iniziato il 22 novembre dal corleonese barone Francesco Bentivegna a Mezzojuso, e in teoria avrebbe dovuto diffondersi nelle zone circostanti e a Palermo. In pratica, quando alle ore 22 del 25 novembre a Cefalù partì l’insurrezione, la rivolta di Mezzojuso era già stata domata e il Bentivegna era fuggiasco per le campagne dove poi fu catturato in seguito a tradimento. Perché questa sfasatura nell’azione, che di fatto la rendeva facilmente suscettibile di insuccesso, non è chiaro. Forse i coordinamenti delle notizie non avevano funzionato e a Cefalù non era giunta la notizia del fallimento del moto di Bentivegna, oppure i patrioti avevano deciso di agire comunque, fiduciosi in una sollevazione in massa nel paese e nei paesi vicini, e forse anche,-come si desume dall’interrogatorio del padre cappuccino Alfonso d’Istriano, in un primo tempo tra gli insorti, poi accusatore di Salvatore Spinuzza-, sperando in un intervento degli Inglesi che sarebbero dovuti sbarcare a Messina per aiutarli ad abbattere un governo ormai politicamente isolato. I fatti avrebbero dimostrato quanto questa ipotesi fosse poco realistica: come in altri casi di moti risorgimentali, l’audacia e il generoso amor di patria non erano supportati da un efficace coordinamento, da una corretta valutazione della situazione dal punto di vista del consenso e da quello strategico.
Dopo una giornata in cui si erano susseguite febbrili riunioni operative, il raduno avvenne nella casa dei Botta, dove anche le sorelle di Carlo e Nicolò, Giuseppina ed Elisabetta, avevano partecipato all’evento cucendo il Tricolore. Il gruppo animatore della rivolta era formato da Nicolò (Nicola) Botta, Salvatore Guarnera (o Guarneri), Vincenzo (o Antonino) Spinuzza, Andrea e Pasquale Maggio; attorno a questi si radunò il drappello degli altri patrioti. Assenti per il momento erano il giovanissimo Carlo Botta (19 anni) e Alessandro Guarnera che si trovavano a Gratteri per attività di coordinamento ma che arrivarono a Cefalù il 26 novembre.
I patrioti si divisero in due squadriglie; una, al comando di Andrea Maggio, attaccò le guardie regie, l’altra al comando di Nicolò Botta assalì il carcere liberando Salvatore Spinuzza che fu messo a capo dell’insurrezione, e gli altri detenuti. Anche a Polizzi, dove erano giunte le notizie di Cefalù, una gran folla di popolo costrinse il giudice Morello a liberare tutti i detenuti; fu questo peraltro l’unico segnale di ribellione. La Casa Municipale di Cefalù venne occupata e l’intervento di Salvatore Guarneri(altre fonti dicono anche dello Spinuzza) impedì che fosse ucciso l’ispettore Scavuzzo.(D. Portera, op.citata). La giornata del 25 novembre si concluse con la proclamazione del governo provvisorio.
Il giorno successivo, 26 novembre, giunsero a sostegno degli insorti le squadre di Campofelice di Roccella guidate dall’avvocato mazziniano Cesare Civello; il diciassettenne Giovannino Palamara fu designato portabandiera. Le azioni di ribellione culminarono nell’incendio ai documenti della Sottointendenza.
Il 27 novembre la corazzata Sannio, inviata dal luogotenente principe Ruffo di Castelcicala, trovò ad accoglierla il tricolore issato sul Bastione della Marina. Ma fu l’ultimo atto di un sogno audace, folle e generoso. Una cannonata disilluse i patrioti che forse in un primo momento avevano pensato a una nave giunta in loro sostegno, (v. C.Papa:”tutti priati:veni lu papuni”). Tentarono di impedire lo sbarco delle truppe, ma di fronte alla minaccia di bombardare Cefalù, rendendosi conto dell’inferiorità delle loro forze e per evitare distruzione e lutti nel paese, fuggirono sperando di poter continuare la resistenza nelle montagne circostanti insieme ad altre squadre di paesi vicini.
Intanto i chierici che, impauriti dai disordini, avevano lasciato il seminario riversandosi nei paesi d’origine sulle Madonie, diffondendo la notizia dello sbarco dell’esercito borbonico scoraggiarono quei paesi dal partecipare a un moto che si dava ormai per fallito.
La popolazione cefaludese non portò sostegno agli insorti; lo storico Paolo Mencacci in “Storia della rivoluzione italiana” afferma che all’apparire della nave da guerra borbonica, “i villani… corsero alla spiaggia, gridando “viva il re!”, illuminarono Cefalù e cantarono il Te Deum nella Cattedrale”. Essendo il Mencacci di idee monarchiche, le sue asserzioni potrebbero essere in dubbio di faziosità, ma c’è in proposito una testimonianza non sospetta, quella del poeta-zappatore cefaludese Carmine Papa. Nella sua poesia “La rivoluzioni di Cifalù a lu 1856” Carmine Papa tratteggia con efficacia lo stato d’animo della gente durante la rivolta. Egli riferisce dell’arruolamento di alcuni “picciotti” nelle file dei rivoltosi, ma il sentimento dominante è la paura: “li genti nni rimasiru scantati/li porti e li finestri tutti chiusi” che diventa terrore quando giunge la nave regia(“c’era terruri pi tutti li strati”). Il poeta non nasconde un senso di malinconia e di umana pietà per i “boni picciotti spiritusi” che “nta lu cori avevanu nna spina”, ma dà voce alla gente comune che si rallegra di essere estranea a quella situazione rischiosa (“ma nui ludammu a Diu, Summa Buntati,/ca di li danni nni fummu luntani “) e conclude, con la saggezza della gente di buon senso e con un po’ di tristezza , che “lu tempu e l’uri ‘un erinu arrivati”.
Il giorno 28 novembre l’ordine era già del tutto ricostituito. I patrioti erano in fuga; i prigionieri liberati (non è chiaro dal rapporto poliziesco se solo quelli di Polizzi o anche di Cefalù), per paura di essere ripresi e di dover affrontare le rappresaglie della polizia borbonica, ritornarono spontaneamente in carcere. Tutti, tranne uno. Non se ne conosce il nome, non era un patriota, era un detenuto comune. Ma doveva essere anche lui innamorato della libertà e la vicenda sarebbe piaciuta a Sciascia.
Il governo borbonico mise una taglia sugli insorti (mille ducati per il Bentivegna, trecento per gli altri) e arrestò la madre di Nicola e Carlo Botta, donna Concetta Miceli, e le sorelle Elisabetta e Giuseppina, colpevoli di aver esposto sul balcone di casa la bandiera tricolore dando il via alla rivolta. Alcuni testi riferiscono anche dell’arresto della sorella di Salvatore Spinuzza, Gaetana.
Il Dipartimento di Polizia guidato dal temibile funzionario Salvatore Maniscalco si dedicò con zelo alla caccia ai “capi della banda armata di Cefalù” tra cui era compreso anche Cesare Civello (che però riuscì ad espatriare). Nel rapporto di polizia i patrioti venivano definiti “un mucchio di svergognata e sperduta gentaglia…che inalberando il vessillo del disordine si era reso per pochi istanti detentore dello anarchico potere”.
Passato un mese dalla rivolta, i fuggiaschi Spinuzza, Nicola e Carlo Botta, Andrea Maggio e Alessandro Guarnera, furono aiutati dalla generosità di un prete (Zito) e di una donna (Rosaria Calascibetta) ad arrivare a Pettineo, nel casolare di un cugino dei Botta (Mauro Giallombardo). Di qui raggiunsero la casa di Giovanni Sirena, che aveva accettato di accoglierli finchè avessero potuto organizzare l’espatrio verso Malta:una lotta contro il tempo mentre il Maniscalco si adoperava con ogni mezzo per catturare i ricercati.
Come si giunse alla cattura?Le fonti non sono numerose; quelle riferentesi allo storico Francesco Guardione affermano che fu una lettera recata dal marinaio Salvatore Gerbino e intercettata dalla polizia a dare l'opportunità di trovarli. Alcune settimane addietro, la polizia borbonica aveva avuto la segnalazione che i rivoluzionari si trovavano a Patti, presso il loro amico Raimondo Dixitdomini. Questi, pur torturato dal funzionario Chinnici, non rivelò nulla del vero rifugio dei patrioti; stavolta però le sevizie poliziesche ottenero un risultato, e costrinsero il Gerbino a rivelare il luogo dove i ribelli si nascondevano.
Un articolo di Paola Castiglia (Repubblica-Palermo 22/11/2006)evidenzia invece il ruolo di tale Vincenzo Fratantoni, che, con l’aiuto di un prete, mons. Fertitta, avrebbe tradito lo Spinuzza e i compagni, andando ad informare il Maniscalco a Termini, camuffato con abiti femminili. Questo atto gli avrebbe guadagnato il soprannome di “mercante di sangue”; la Castiglia afferma di aver utilizzato come fonte un libretto-pamphlet di proprietà di privati, "Il mercante di sangue Vincenzo Fratantoni ex ricevitore distrettuale di Cefalù" uscito a Cefalù nel 1861 a cura di un comitato diretto da Andrea Maggio e Carlo Botta, costituitosi per impedire il rientro nel paese del Fratantoni. Al Fratantoni si allude anche nell’orazione funebre per C. Botta di Mons. Blasco(cit.da T. Matassa, I moti carbonari e S. Spinuzza,ed. Marsala) (Da notare che invece uno scritto di Nico Marino attribuisce al Fratantoni il ruolo non di traditore dello Spinuzza, ma di informatore della polizia:sarebbe andato nella notte stessa del 25 novembre ad avvisare il Maniscalco dei moti di Cefalù).
I patrioti non si arresero. Furono presi dopo un conflitto a fuoco in cui, per più di 9 ore, in 5 tennero in scacco la milizia borbonica.
Il Consiglio di guerra, “udita la messa dello Spirito Santo”(Guardione), comminò la condanna a morte per tutti e cinque, più Salvatore Guarnera, "…per misfatti di lesa maestà , banda armata e cospirazione contro il Real Governo, per aver infranto le immagini degli amatissimi sovrani, disarmata la forza pubblica, impiantata la bandiera tricolore sul bastione della Marina, saccheggiato e incendiato il palazzo della Sottointendenza, bruciato e disperso registri, involato quintali 2 di polvere da sparo, fatto resistenza alla forza pubblica facendo fuoco per 9 ore continue in quel di Pettineo".
Tutti però, tranne Salvatore Spinuzza, vennero raccomandati “all’ineffabile clemenza dei sovrani”.
I fratelli Botta, Andrea Maggio, Alessandro Guarnera furono infatti graziati e condannati al carcere da scontarsi nell’isola di Favignana, nelle segrete della fortezza di S. Caterina e S. Giacomo; si trattava di fosse scavate nel vivo della roccia, in passato utilizzate dal S. Uffizio- un luogo che equivaleva quasi ad essere sepolti vivi. La lapide apposta sotto la statua di Nicola Botta nella villa comunale di Cefalù così dice :”Giovane ventenne/nel 1856/fu tra i primi ad insorgere/contro la tirannide/e soffocata nel sangue/quella generosa riscossa/fu sepolto vivo/nel carcere di Favignana/Così i Borboni premiavano/la carità di patria”. Tutti furono poi liberati nel 1860 dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia.
Salvatore Spinuzza, inviso alle autorità borboniche per i suoi precedenti, fu dunque l’unico per cui la sentenza fu esecutiva, l’unico a subire la condanna a morte, così come quasi tre mesi prima nel dicembre 1856 l’aveva subita Francesco Bentivegna.
Si assunse la responsabilità di tutto e non fece mai i nomi di altri compagni.
Condotto dal carcere di Palermo a Cefalù per via mare, passò l'ultima notte della sua vita nella Chiesa di S. Maria della Catena, allora Addoloratella, di fronte alla via S. Nicola, oggi via Spinuzza, dove abitava con la famiglia.
Controverso è il racconto degli studiosi sulle sue ultime ore. Vincenzo Consolo nel Sorriso dell’Ignoto marinaio indica come suo confessore il prete padre Restivo, e lo stesso fa Mons. Misuraca nel suo “Storia di Cefalù”. Consolo così racconta, narrando per voce del barone Mandralisca, gli ultimi istanti di Spinuzza: “Offri a Dio la tua vita, così il carnefice non potrà gloriarsi di avertela tolta”, gli suggeriva il prete corvo, Restivo, dandogli da baciare il crocifisso. Respinse, il valoroso, il consiglio e il segno di Passione,- Offro all’Italia, dicendo, la mia vita.-” Ma esiste un discorso funebre per Spinuzza del 1861 a firma del canonico padre Miceli, il quale narra di essere stato insieme allo Spinuzza nelle sue ultime ore, di averlo visto legato nella Chiesa, di avergli dato i conforti religiosi, che Spinuzza avrebbe accettati, e di aver da lui ricevuto “una ciocca della nera sua chioma”. Vincenzo Consolo afferma invece che Spinuzza era “biondo come un Manfredi di sveva discendenza” e che aveva occhi celesti, e in effetti questa immagine sembra compatibile col ritratto che di lui possediamo, custodito al Museo Mandralisca, una tela ad olio di Giuseppe Chitari(1809-1885). Qui lo Spinuzza ha occhi chiari e capelli castani; è ritratto “da patriota” con sciarpa tricolore al collo, per cui dovrebbe trattarsi di un ritratto commissionato dopo la sua morte. Esiste un’altra immagine di Spinuzza, con abbigliamento normale, giacca e cravattino secondo la moda dell’epoca; ma oltre a questi ritratti “ufficiali” ricordo di aver visto, in una mostra allestita a Cefalù parecchi anni fa, un disegno che la didascalia asseriva realizzato il giorno prima dell'esecuzione, che ce lo mostra provato, quasi febbricitante, avvolto in una sciarpa, con lo sguardo perso, malinconico e fiero. Si racconta che abbia regalato il suo anello al sagrestano e il suo mantello a un mendicante che era davanti alla Chiesa, rispondendo alle guardie che volevano impedirlo: “Siete padroni della mia vita, non della mia roba”. Gli storici e la tradizione concordano sulle sue ultime parole: “Possa il mio sangue e quello dell’amico Francesco Bentivegna essere la salvezza della Patria”. Fu fucilato ("moschettato", dice la lapide che lo ricorda) il 14 marzo 1857, all'angolo tra la piazza e l'odierna via Spinuzza, dove ora c'è una vetrina espositiva; per molto tempo, prima del rifacimento della facciata, si poterono vedere i segni delle pallottole.
Morì dunque a un passo dalla casa della sua infanzia, e quasi sotto il balcone di Giovanna, la ragazza che amava. Così Vincenzo Consolo racconta: "Al silenzio che seguì la sparatoria, lancinante, disumano echeggiò nell'aria, proveniente da un balcone sulla piazza, di colpo spalancato, l'urlo di una fanciulla pazza, Giovanna Oddo, l'innamorata dell'uomo appena morto ". Quattro anni dopo, nel 1861, si realizzava l'Unità d'Italia.


Cefalù, Novembre 2006



le elaborazioni delle foto di Spinuzza sono di Angela Diana Di Francesca

ricerche originali di Angela D. Di Francesca-per l'utilizzo su cartaceo o su web citare la fonte, grazie!