Gli Editoriali del Circolo “Anna Maoddi”
a cura della
Redazione Web
Perché
la nostra è una scelta di Destra
di Alfredo Mantovano
Ad
Alta Voce: Fini e la proposta di voto agli immigrati
Di Gustavo
Selva
di Adolfo Urso
Dopo il "crollo delle ideologie": la
politica e il "ritorno al reale”
Di G. Cantoni
"Dal PCI al PDS": le
tappe e i contenuti di una metamorfosi rivoluzionaria fino al 1994
di M. Invernizzi
di G. Cianciano
Di G. Cantoni
di L. Cantoni
di A. Piu
PERCHE’ LA NOSTRA E’ UNA SCELTA DI DESTRA
La vicenda dell’immigrazione, in Italia e nel
mondo, non tollera di essere sintetizzata in una o più fotografie, valide una volta per tutte. Merita di essere raffigurata, senza
pretesa di esaurirla, per lo meno con un filmato.
E’ proprio del filmato articolarsi in scene e in
contesti diversi: un anno fa la nuova legge sull’immigrazione, fortemente
voluta dall’intera maggioranza e dal governo, ha iniziato a produrre i suoi
effetti; ha, cioè, iniziato a modificare le scene di un lungometraggio che nel
2000 erano in buona parte diverse da quelle attuali: dove sono adesso, per fare
qualche esempio fra i tanti, i gommoni che, col loro carico di clandestini e di
disperazione, solcavano ogni notte il Canale d’Otranto?
Dove sono le carrette del mare che, partendo dai mari del Sud, attraversavano
il golfo di Aden, e poi il Canale di Suez, e quindi arrivavano sulle coste
dell’Italia meridionale, soprattutto calabresi?
Certo, esistono ancora gli sbarchi sulle coste meridionali della Sicilia e
delle isole di Pantelleria e di Lampedusa: ma la quantità complessiva degli
arrivi di clandestini è, grazie anche alla legge Fini-Bossi,
notevolmente inferiore rispetto a due-tre anni fa.
E, per proseguire nel confronto fra scenari, quali immagini potevano
raffigurare, prima di quella legge, il lavoro onesto ma irregolare di tante
collaboratrici familiari o di tanti dipendenti di ristoranti e pizzerie?
Oggi queste persone, sempre in virtù di quella legge, pagano le tasse, ricevono
i contributi e l’assistenza sanitaria: il tutto in un contesto di sicurezza,
dal momento che hanno rilasciato le impronte digitali, così osteggiate a suo
tempo dal Centrosinistra, e quindi sono identificati uno per uno.
Che significa tutto questo?
Significa che, mentre fino a un paio di anni fa l’esigenza più forte era di
contenere l’emergenza, oggi l’emergenza è circoscritta territorialmente, temporalmente e quantitativamente.
Significa, quindi, che si può pensare ad altro; per esempio, a intensificare
l’integrazione di coloro che sono entrati regolarmente, o hanno acquisito uno
status di regolari con la Fini-Bossi.
Integrazione significa disponibilità di un alloggio decoroso – la nuova legge
contiene prescrizioni precise in proposito -, rispetto delle nostre leggi,
conoscenza della lingua, inserimento dei figli a scuola; significa anche
interesse per le sorti della nostra comunità.
Perché, in questo quadro, scandalizzarsi di discutere, come ha chiesto il
vicepresidente del Consiglio, di quell’ulteriore
contributo all’integrazione costituito dal voto per le amministrative per chi
abbia già un radicamento e una presenza stabile in Italia?
E sia, per esempio, in possesso della carta di soggiorno, che si può ottenere
dopo almeno sei anni di presenza legale e continuativa.
È un passaggio intermedio verso il graduale e definitivo inserimento nella
comunità nella quale lo straniero ha scelto di vivere, che vede come meta
conclusiva il riconoscimento della cittadinanza.
È ben vero che una proposta del genere è stata avanzata negli ultimi anni dalla
Sinistra; può aggiungersi che, dopo aver costituito oggetto di vari annunci, è
stata riposta nel cassetto per l’incapacità della stessa sinistra di
individuare una posizione unitaria in quello schieramento; ma pure per la
consapevolezza che un passo del genere era impossibile nel momento in cui ci si
dimostrava nei fatti incapaci di uscire dall’emergenza.
La Destra non deve aver timore di muovere dei passi significativi in questa
direzione: ha titolo a farlo proprio perché può rivendicare i risultati di una
politica per l’immigrazione regolare e contro quella clandestina la cui
positività è sotto gli occhi di tutti.
Ha titolo a farlo perché, consapevole dell’impossibilità di frenare flussi
migratori che esistono e non cesseranno, è altrettanto convinta della necessità
di regolarli con raziocinio, come sta avvenendo.
Ha titolo a farlo perché non ha alcun complesso di inferiorità
a rivendicare la propria identità culturale e di popolo: anzi, questo è
necessario proprio ai fini di una corretta integrazione.
Il nostro obiettivo è la creazione di una società dove si possa
convivere bene.
Non basta convivere da “separati in casa”, ma bisogna puntare ad una convivenza
regolata e armoniosa.
Il punto di partenza per questa integrazione è una chiara affermazione dell'identità
nazionale italiana.
Tale chiarezza è necessaria perché lo straniero deve conoscere l'entità nella
quale chiede di volersi inserire.
In questo senso il Paese ospitante ha il dovere di manifestare con chiarezza la
propria identità, per far crescere una società radicata nella propria
tradizione e aperta alle altre.
Ci vorranno tempo e pazienza, ma se si rispetta la cultura del Paese ospitante
e i ritmi necessari all'integrazione degli immigrati i risultati saranno
soddisfacenti.
Questo vuol dire, per esempio, impegno perché nelle scuole gli extracomunitari
studino l’italiano, invece dell’arabo; perché le moschee siano esclusivamente
luoghi di culto, e non contenitori per forme di predicazione paraterroristica;
perché i flussi di arrivo siano orientati sulla base
di consonanze culturali che consentano una migliore integrazione; perché
prosegua l’inflessibilità verso i clandestini e verso chi li sfrutta
(confidando in decisioni giudiziarie non stravaganti: proprio ieri la
Cassazione è arrivata a stabilire che un extracomunitario condannato per
spaccio di droga non può essere espulso!).
L’ipotesi avanzata da Fini non rientra nel programma di governo?
Non vi rientrava neanche la legislazione contro il terrorismo internazionale:
che tuttavia è stata varata a poche settimane dalla costituzione del governo
Berlusconi perché nel frattempo c’era stato il crollo delle Twin Towers. Quanto all’immigrazione, il fatto nuovo, che impone
una riflessione, è costituito dalla buona riuscita della politica
dell’esecutivo, che sarebbe strano se fosse disconosciuta da chi dell’esecutivo
è parte autorevole.
D’altra parte, era stata proprio la Lega ad annunciare l’opportunità di una
riflessione ampia su questo tema, a distanza di un tempo congruo dall’entrata
in vigore della nuova legge: è lecito al vicepresidente del consiglio apportare
il suo contributo di idee e di proposte al dibattito
su norme che al 50% portano il suo nome?
Certamente è lecito a una Destra per la quale la politica è al tempo stesso
ragione e passione non restare affezionata a slogan suadenti o suggestivi, ma
preoccuparsi, come forza di governo, delle prospettive future della nostra
nazione: pur se questo costa discussione, confronto aspro e sforzo per farsi
capire.
Ma proprio questi elementi consentono alla politica di
avere un’anima.
Ad Alta Voce:
“La proposta di Fini sul voto agli immigrati”
Cerco
di fare in questa "mia" rubrica domenicale, il "punto" sulla proposta di Gianfranco Fini di riconoscere il diritto
di voto per le elezioni amministrative agli immigrati, che hanno il permesso
regolare di lavoro, che pagano le tasse, che mandano i loro figli nelle scuole
italiane, e soprattutto che hanno dimostrato di rispettare le leggi per un
periodo che non sarà mai inferiore ai sei-otto anni.
Ho già detto in diverse dichiarazioni che approvo
l’iniziativa di Fini, la considero sociale, moderna ed europea, e per An emblematica per il completamento del discorso aperto a
Fiuggi, quando la Destra missina che aveva ancora qualche pulsione
"antisistema" decise di fare propri i valori democratici e cristiani
e liberali: il che non vuole dire politicamente democristiani, perché resta
vero che, nella Prima repubblica, di quei valori il "consociativismo
cattocomunista" fu esattamente il contrario.
L’iniziativa
di Gianfranco Fini ha già ottenuto il risultato che il leader di AN si proponeva: vedere cioè se era giunto il momento di
avviare un discorso serio e una proposta concreta, il che vuol dire per un
parlamentare, con un seguito legislativo. L’accettazione del tema è venuta
dallo stesso Silvio Berlusconi, naturalmente con la speranza, che à anche mia,
che tutta la Casa delle libertà possa trovarsi
d’accordo su un testo condiviso. Ma la risposta più convincente sul valore
democratico, civile, sociale ed europea dell’iniziativa del leader di AN la danno i cittadini. Il 71 per cento degli italiani
ritiene che alle condizioni previste da Fini, sia giusto che gli immigrati votino per il Sindaco e i consigli locali delle comunità
dove lavorano.
Io
non capisco perché Bossi non giudichi questa opinione
che si è formata fra la gente (e soprattutto fra le donne) un frutto della
legge che oltre a quello di Fini porta il suo nome. Questa legge ha regolarizzato quasi settecentomila immigrati clandestini. Un
buon numero di questi fanno lavori che gli italiani non vogliono più fare, e da
cui si deve desumere che questi immigrati non sottraggono posti di lavoro agli
italiani: fra i regolarizzati c’è, poi, quella specialissima categoria di
"badanti" per anziani e bambini, il che significa che nell’opinione
di chi li assume, questi immigrati godono della
massima fiducia se gli si affida la cura di persone certamente fra le più care
e preziose della famiglia.
Ora
questa fiducia si è rafforzata con i risultati ottenuti dalla legge Bossi-Fini:
diminuzione dei numeri degli sbarchi clandestini, espulsione di quei
clandestini che commettono reati, in virtù degli accordi che l’Italia ha
sottoscritto con i paesi di origine. Ma soprattutto la
maggiore garanzia di avere immigrati che non vengono in Italia per compiere atti criminali è data dal legame fra ingresso in Italia e
preventivo contratto di lavoro, che è uno dei punti cardine della legge
Bossi-Fini.
Lo
so che questi risultati fanno meno notizia della vecchietta che viene scippata da un extracomunitario in un piccolo paese o
nella periferia di una grande città; o degli spacciatori extracomunitari che
creano la psicosi di una aggressività genericamente attribuita agli
extracomunitari. Ma il loro numero fortunatamente è
una percentuale bassissima rispetto a quanti lavorano regolarmente nelle nostre
case, nei nostri campi, nelle nostre fabbriche, nei nostri negozi.
Non
c’è dubbio che la proposta del leader di An ha anche uno scopo politico. L’extracomunitario non una
cosa o soltanto un a merce: è una persona. E dovremmo saperlo noi italiani che
per decenni siamo stati, in certe regioni
specialmente, un popolo di emigrati verso la Germania, la Svizzera e il Belgio
in Europa e verso gli Stati Uniti d’America e l’ America Latina fin da prima
dell’unità d’Italia e verso il Canada e l’Australia nel secondo dopoguerra. E’
stata la Destra, con Mirko Tremaglia, a volere che le
nostre leggi dessero il diritto di cittadinanza politica con il voto agli
italiani all’estero come premessa per riconoscere agli
extracomunitari analogo diritto di voto amministrativo in Italia.
Alcuni
amici di An hanno detto che
Gianfranco Fini ha preso questa iniziativa senza consultare nessuno e per la
sua visibilità politica nella Casa delle Libertà. Non vi trovo nulla di male.
La funzione di un leader è anche quella di aprire il dibattito, di indicare le soluzione legislative . Anche il momento è quello giusto
per fronteggiare un alleato di governo come Bossi che un giorno spara contro "Roma ladrona",
un altro propone di trasferire la capitale a Milano. Il leader di AN fa una proposta dopo avere maturato la convinzione che
anche l’Unione europea va in quella direzione e a questa posizione Bossi
replica minacciando di far cadere il Governo italiano. Un partito della coalizione deve rispettare gli accordi della coalizione; ma
siccome è la stessa Lega a riconoscere che la proposta di Fini, come leader di An non fa parte del programma del governo, non si può
impedire che il tema venga proposto per la seconda parte di questa legislatura
agli alleati come programma di governo (se a Bossi come ministro va bene), con
l’ovvia, banale considerazione che una legge diventa tale, solo a condizione
che il Parlamento la approvi.
Naturalmente
non mi nascondo dietro l’ipocrisia di un dito, dicendo che questa
iniziativa di Fini ha un più ampio significato politico europeo. Agli
amici di An dico che se il
71 per cento degli italiani vuole dare il voto agli immigrati regolari,
significa che non sono soltanto a sinistra gli italiani che condividono questa
idea di Fini. Credo, inoltre che dobbiamo avere più fiducia nella capacità dei
programmi amministrativi e dei candidati della Casa delle
Libertà (Lega compresa) di ottenere, domani, i voti dei nuovi elettori,
immigrati in Italia.
L’iniziativa
di Fini marca una presenza di An
nell’ assetto politico della Casa delle libertà. Le idee ( e non parlo soltanto
della per me modesta cosa che in sé e per sé è il voto
amministrativo degli immigrati) che guardano il futuro assetto dell’Unione
europea hanno tutte diritto di cittadinanza, purchè
tendano a rafforzare i valori della libertà, della democrazia, della socialità.
Se poi vogliamo che il riferimento alle radici cristiane dell’Europa sia
iscritto nel preambolo della Costituzione europea, non vedo come possiamo
alzare barriere fra vecchi e nuovi cittadini dell’ Unione
Europea. Dobbiamo riconoscere che Gianfranco Fini sa
di che cosa parla e dove vuole portare An come leader
italiano della Destra e come costituente europeo. La vuole portare nel solco
rinnovato delle radici cristiane e sociali del bavarese Stoiber
(offro questa notazione al leghista, professor Albertoni)
dei programmi liberali dello spagnolo Aznar e del
francese Nicolas Sarkozy il cui giudizio sulla
politica di Fini ha per me più valore di quello di Jean
Marie Le Pen che ha lo sguardo politico rivolto al passato anche per la
soluzione dei problemi che si annunciano nel futuro dell’Europa.
La seconda fase di AN
Della necessità che An
compia un ulteriore salto di qualità si parla da
tempo.
Il tema domina il dibattito interno dalla fine
dell'inverno scorso anche se soltanto di recente il partito è approdato alle
prime scelte "operative" di rilievo per aprire la cosiddetta
"seconda fase", attesa e sollecitata dalla quasi totalità di
dirigenti e iscritti ma anche da molti osservatori esterni di prestigio.
Per inquadrare correttamente il problema,
che non è soltanto organizzativo ma anche e soprattutto di rapporti con gli
alleati della Cdl, bisogna fare un piccolo passo
indietro. Tornare a due anni fa,
all'atto di nascita dell'esecutivo Berlusconi. Ricordare
i molti e diffusi pregiudizi che ancora circolavano nei confronti della destra
e del suo ruolo di governo. Molti ritenevano (e si muovevano di
conseguenza) che la presenza di An
"nella stanza dei bottoni" potesse creare problemi. E ancora un anno
fa c'era chi scriveva (e chi utilizzava certe analisi come alibi) che Fini non
avrebbe potuto assumere direttamente la delega degli Esteri senza mettere a
rischio le relazioni e gli interessi internazionali del Paese.
Oggi, i giudizi e le considerazioni sulla "affidabilità" della destra
italiana sono radicalmente cambiati, in qualche caso
addirittura ribaltati. Basta leggere ciò che scrivono
i corrispondenti esteri dei principali quotidiani europei e americani, o
chiedere alle cancellerie internazionali.
La destra, nella percezione "profonda"
dei commentatori e degli analisti, quella che conta davvero perché crea
opinione e consenso, non è più la zavorra del governo, ma semmai il suo
"valore aggiunto".
La presenza della destra ai livelli decisionali
del Paese non è "il problema" del governo ma, in molti casi, "la
soluzione".
E Alleanza nazionale è agli occhi di molti la componente della Cdl più credibile
ed equilibrata, quella su cui fare perno ogni qual volta la necessità del
dialogo e della ragionevolezza diventa imperativa.
In buona parte questo merito va iscritto alla ottima
prova data dalla nostra delegazione al governo.
In tutti gli ambiti, anche in quelli più difficili,
dall'ambiente all'agricoltura, dagli esteri al commercio estero e certamente
agli italiani nel mondo, non mancano i giudizi positivi,
spesso in controtendenza rispetto a quelli attribuiti agli esponenti di altre
formazioni.
La destra al governo ha dimostrato di essere
all'altezza della situazione, più e meglio di altri, esercitando un ruolo positivo, anche se da posizioni oggettivamente meno visibili
e rilevanti di quelle attribuite ad altri partner.
E' da questa valutazione che partiamo quando affermiamo che dalla "destra
al governo" è necessario passare al "governo della destra". Non
è uno slogan o un gioco di parole, ma la sintesi di un progetto politico a
tutto tondo.
Da un governo che vede la partecipazione dei ministri
di An (spesso, però, in
capitoli non decisivi), ad un governo che "sappia" di destra.
Da una coalizione che
si è qualificata per una generica tensione al cambiamento, a un progetto di
modernizzazione fortemente caratterizzato dai nostri valori.
Tocca ad An, a nostro avviso, imprimere all'alleanza
e al governo una nuova spinta propulsiva, quella che
altri sembrano aver smarrito nella routine dell'ordinaria amministrazione o
nelle difficoltà degli equilibri interni. Tocca ad An caratterizzare la nuova fase della legislatura nel segno
di riforme sociali ed economiche che, insieme con quelle istituzionali,
sappiano cambiare gli assetti di potere e adeguare ai tempi il Paese.
La destra, la nostra destra, non è giunta al
governo per un accidente della storia ma per cambiare la storia.
Abbiamo creato un nuovo partito e inventato un
nuovo modello politico che è diventato modello in Europa, forgiando un
bipolarismo diverso e più motivato.
Ora, occorre andare avanti, porsi ulteriori
obbiettivi.
Imprimere una accelerazione
riformista alla politica del governo e aprire un nuovo capitolo a livello
europeo.
Nel primo ambito, è necessario sfuggire all'ipoteca leghista che sembra
determinare oltre ogni ragionevole misura tutte le
scelte di rilievo, da quelle istituzionali a quella delle riforme nel settore
economico e previdenziale, in un'ottica valligiana che non vede oltre i propri
colli.
E c'é da chiedersi se non sia giunto il momento
di chiedere una revisione degli assetti di governo,
secondo una logica "premiale" che troppe volte è stata evocata senza
poi mai essere attuata.
An ha il diritto e forse anche il dovere di reclamare
posizioni che possano permetterle di incidere in modo
significativo sulle decisioni di fondo dell'esecutivo - pensiamo alla politica
economica, ma anche ai grandi temi della sicurezza e della giustizia -
imprimendo quell'accelerazione riformista di cui abbiamo parlato.
E poi, per dirla tutta, non si è mai vista tanta
concentrazione di potere nella mani dello stesso
partito, senza peraltro riscontrare grandi e significativi risultati.
Quanto allo scenario europeo, è necessario capire come sia
possibile "capitalizzare" l'ottima prova di Fini nella Costituente
senza perdere i risultati conseguiti, tra mille difficoltà, con la riunificazione
delle destre democratiche nel gruppo dell'Europa delle Nazioni.
Qualcuno parla di "listone"
del Polo o anche addirittura di un'unica lista Fi-An,
senza Udc e Lega, per la prossima competizione per
l'Europarlamento.
C'é da chiedersi innanzitutto a quale fine e a
quale percorso politico risponderebbe questo "esperimento".
Ogni scelta in materia elettorale non è priva di
conseguenze, e certamente non lo sarebbe una decisione di questo tipo, che
rappresenterebbe una nuova svolta di rilievo dopo quella che dieci anni fa,
proprio in queste settimane, diede vita ad An e al
Polo delle libertà.
Noi non siamo pregiudizialmente contrari, ma
vogliamo capire, e bene, soprattutto quali sono o potrebbero essere le
prospettive successive a un eventuale "listone".
In che direzione ci porterebbero, quali
scenari potrebbero determinare a livello continentale.
Abbiamo costruito un grande
partito che sta segnando la storia dell'Europa.
Nessuno ce lo ha
regalato. E' il frutto sofferto del lavoro e delle speranze di milioni di persone.
Anche a loro, soprattutto a loro, dobbiamo
rendere conto, perché è giusto così ed è in questi passaggi che si misura una vera classe dirigente.
Parliamone dunque. Alla luce del sole. Anche a questo
ha contribuito il meeting promosso dalle tre riviste che da anni tengono
alto il livello delle riflessioni, delle analisi, delle proposte della destra
italiana: "Area", la rivista della destra sociale,
"Percorsi" con il suo patrimonio neo-conservatore, e la nostra "Charta", che cerca sempre nuove frontiere. Tre
esperienze politiche e culturali che hanno certamente molto in comune:
laboratori di idee e non mere congreghe di componenti;
luoghi dove si misurano (e crescono) le classi dirigenti, non solo circoli di
potere.
L'appuntamento era fissato per Fiuggi, ancora
una volta Fiuggi, una località indissolubilmente legata alle "grandi
scelte" della destra italiana.
Siamo certi che in molti hanno
gradito il nostro invito a riflettere. Per poi decidere. Insieme e
motivati.
Equitazione per disabili
Dalla sedia a rotelle al cavallo: sembrerebbe
una soluzione impossibile, una utopia.
Ed invece già gli antichi Ittiti avevano capito che si
poteva utilizzare il cavallo per uso terapeutico, tanto che furono i primi
autori di un trattato sull’equitazione come metodo rieducativo.
Successivamente, nel 478 a.C.,
Ippocrate prescriveva l’equitazione per curare
l’insonnia ed Asclepiade di Frusa nel 124 a.C.
indicava tale terapia per combattere l’epilessia e vari tipi di paralisi.
Nell’era moderna l’ippoterapia fu introdotta per la
prima volta nei Paesi Scandinavi circa 70 anni fa, ed in seguito è stata
praticata in Inghilterra ed in Francia. Oggi ben 25 nazioni dentro e fuori
l’Europa l’applicano per scopi terapeutici. Attualmente
l’Italia è presente con decine e decine di Centri che operano su tutto il
territorio, ma purtroppo tale metodologia è stata quasi sempre dimenticata dai
mass-media.
Pionieri dell’ippoterapia nel nostro Paese sono stati
i medici Luciano CUCCI e Neri COPPONI che nel 1976
hanno implementato il primo centro di riabilitazione in un maneggio di Buccinasco, alla periferia di Milano.
Oggi i ragazzi portati di handicap fisici e
mentali trattati con l’ippoterapia nel nostro Paese
sono ormai alcuni migliaia. Durante la seduta di
riabilitazione, i cavalli vengono, in un primo momento, condotti al passo dai
terapisti, in questa fase si utilizzano le qualità naturali del cavallo, il
ritmo, il movimento sinusoidale dell’animale la sua
corporeità.
Nella seconda fase della riabilitazione equestre vengono
introdotti esercizi specifici, mirati all’handicap di cui è portatore il
soggetto in terapia, con l’obiettivo di favorire la coordinazione dei
movimenti, l’orientamento nello spazio, la creazione di una positiva immagine
mentale del proprio corpo, con evidenti ripercussioni sul proprio sé psichico.
Infine l’allievo viene spinto ad interessarsi del
governo del cavallo, comunicando con esso per mezzo degli ordini che gli
impartisce.
Questa fase aiuta soprattutto la socializzazione e serve come chiave di apertura di rapporti interpersonali con il mondo esterno.
A conclusione di quest’ultima fase, sovente il
portatore di handicap è stato felicemente inserito nelle lezioni collettive di equitazione di un normale maneggio.
Uno studio catamnestico
è stato recentemente effettuato dall’equipe
tecnico-scientifica dell’Anire, attraverso un “
set-up” di valutazione psicologica e comportamentale, comprendente una griglia
di valutazione neuromotoria, l’analisi dei tempi di
attenzione, l’applicazione dei testi dei labirinti e mediante colloqui con i
genitori di 100 soggetti portatori di handicap.
Nella maggioranza dei casi si è evidenziato un miglioramento neuromotorio, sull’allineamento, sul controllo delle
sinergie globali, sui processi di contrazioni e
sull’equilibrio statico e dinamico.
A livello neuropsicologico
si è rilevato un aumento dei tempi di attenzione, una
maggiore capacità di organizzazione spaziale e quindi di orientamento, una
maggiore capacità esecutiva, oltre ad un aumento della capacità espressiva,
dell’esecutività e di una migliore canalizzazione dell’aggresività.
A differenza dell’esercizi
che si svolgono in palestra a scopo terapeutico, la terapia equestre coinvolge
il paziente in quanto egli trova un fine ai suoi movimenti: montare a cavallo,
imparare a guidarlo, a tenere le redini, oltre a trovarsi in un ambiente più
gradevole rispetto ad una asettica stanza di ospedale o di una normale palestra
per riabilitazione.
Proprio per questo motivo la rieducazione equestre riesce ad ottenere gli
stessi risultati che si ottengono in palestra, ma con tempi estremamente
ridotti.
L’ambiente più salubre e più gradevole dei centri ippici hanno altresì il
vantaggio di invogliare i familiari ad accompagnare il paziente, facilitando
ulteriormente l’incontro e la socializzazione tra
portatori di handicap e normodotati. Inoltre, al
disabile in sella ad un cavallo vengono riconosciute
delle capacità prima sottostimate.
Egli infatti dimostra
di saper fare uno sport e, per la prima volta, può guardare la gente dall’alto
verso il basso, e non viceversa, come è condannato a fare stando seduto su una
sedia a rotelle. Il cavallo, inoltre è il simbolo “ futurista” di libertà, di
velocità e quindi cavalcando, il ragazzo lo considera quasi come il
prolungamento del proprio corpo, può camminare finalmente senza il mezzo che lo
fa più vergognare, la “carrozzella” e soprattutto senza accompagnatori, si
sente finalmente autonomo.
Si auspica che in breve tempo gli Enti e le strutture sanitarie nazionali e
locali possano favorire lo sviluppo e l’utilizzo di questo tipo di terapia che,
pur non provocando guarigioni miracolose, regala magici momenti di felicità a
chi non ha occasioni per essere felice.
Che cosa vuol dire essere di destra? Una
delle caratteristiche più importanti della Destra è il modo di affrontare il
tema dell'eguaglianza. La Destra condanna l'eguaglianza sociale, intesa
come omologazione spregiudicata, in nome di una diseguaglianza naturale in base
alla quale nasciamo con diverse capacità e attitudini per le quali dobbiamo essere considerati, in modo diverso. Tutti nasciamo diversi ma dobbiamo avere le stesse possibilità
economiche e culturali di poter spiccare all'interno della società. Pertanto la
Destra crede in una giustizia sociale attraverso la quale ogni persona
meritevole va premiata. Prendendo questo come punto di partenza per rispondere
alla nostra domanda sull'essenza della Destra, ci troviamo già di fronte
ad alcuni dei valori che ci contraddistinguono. Il merito è, per noi, il
principale metro per giudicare le persone e attraverso ciò giungiamo
alla più vasta concezione di meritocrazia. Non possiamo essere d'accordo con
chi dice "siamo tutti uguali", con chi schiavo del conformismo, ci
vuol portare al "livellamento" degli uomini cancellando così la
valorizzazione delle capacità di ogni singolo uomo. E'
proprio tale valorizzazione delle qualità che ci
contraddistingue. Insomma, chi merita deve essere premiato perché è giusto e
serve da stimolo all'uomo per farlo impegnare nel miglioramento della società.
Elemento importante della Destra è la concezione dell'uomo e della famiglia.
L'uomo è l'entità prima della nostra società. A partire dal singolo si arriva
di conseguenza a parlare della famiglia come di una società naturale, di una
società più piccola. Il rispetto alla famiglia è dovuto
quindi non solo perché dettato dal buon senso, ma anche perché il nucleo
familiare è il punto di partenza di ogni giovane per entrare a far parte della
società. Ovviamente l'educazione dettata dalla famiglia risulta essere così di
fondamentale rilievo. Dalla singola persona, dalla famiglia, si passa al
rispetto della società in cui viviamo e al rispetto quindi delle istituzioni in
generale. Rispetto però non vuol dire per noi accettazione passiva; la nostra è
una presenza attiva, uno strumento di stimolo , di
continuo miglioramento del paese in cui viviamo. Essere di destra vuol dire
affrontare una perenne battaglia con se stessi alla ricerca di un qualcosa che sottolinei il valore dello spirito in contrapposizione al
materialismo imperante. Essere di destra vuol dire difendere le proprie idee basandosi
su valori eterni preservandoli anche in una società che li
calpesta. Essere di destra vuol dire avere una coscienza sociale che
spinga verso la realizzazione di un mondo più vivibile, di un mondo con un
nuovo ordinamento, di un mondo dove valori, civiltà e tradizione si incontrino.
La destra per cui ogni giorno lottiamo è una destra
nuova, moderna, impegnata nel sociale per risolvere i problemi delle persone
comuni, una destra che vive a contatto con la gente, una destra che crede nella
libertà d'impresa ma non nelle concentrazioni di capitale o nei monopoli, una
destra che garantisce rigore economico ed equità.
Questa è la risposta alla domanda d'inizio articolo. Essere di destra vuol dire
tutto questo.
qualche istantanea
di un regime socialcomunista vigente
Da sempre corre in Italia un giudizio superficiale a proposito del
socialismo reale iberoamericano, considerato come una
versione debole di tale regime, neppure lontanamente paragonabile alle sue modalità tedesca o slava. Questo abbaglio interpretativo è
stato incrementato dal cosiddetto crollo del Muro di Berlino, cioè dall’inizio della metamorfosi dell’impero socialcomunista mondiale, sì che il giullare di una
superpotenza — così pensano molti —, scomparsa la superpotenza, è a maggior
titolo solo e semplicemente un giullare, da non prendere sul serio all’estero
in quanto incapace di far gran male anche all’interno. Poiché, tragicamente per
i cubani, le cose stanno molto diversamente, e poiché nella mitologia dei
nostalgici rossi — soprattutto di quelli di area
cattolica, fra i quali anche soggetti in significativa posizione gerarchica —
il dottor Fidel Castro Ruz
è l’astro centrale di una costellazione di cui si auspica il levarsi tempestivo
all’orizzonte prima che l’umanità tutta precipiti nelle tenebre del consumismo,
credo valga la pena di dotarsi di qualche informazione sulla situazione cubana.
Ma, poiché ricostruirne brevemente la storia significa esporsi all’accusa di
aver operato una selezione maliziosa dei fatti, e poiché la ricostruzione
potrebbe essere soltanto breve, presento un identikit di tale situazione
attraverso flash, attraverso informazioni giornalistiche e dichiarazioni
— tutte successive al 1989 —, altrettanti punti che, collegati dal lettore come
in una enigmistica pista cifrata, permettono di
cogliere, dietro la maschera carnevalesca, il ghigno della morte. E la
strumentazione mi viene offerta soprattutto da un
articolo che ha come sottotitolo La situazione cubana in pillole. Senza commenti, comparso sulla
rivista Tradición Familia
Propiedad, organo
della Sociedad Chilena de Defensa de la Tradición, Familia y Propiedad, nel fascicolo n. 98, dell’ottobre 1996 e in corso di
diffusione nel paese andino
Aborto, suicidio e prostituzione: "La
promiscuità di adolescenti e di giovani promossa dal
governo comunista fa perdere loro il senso della moralità
— afferma S. E. mons. Eduardo Boza Masvidal, vescovo cubano in esilio —. L’aborto viene praticato ampiamente con il pieno appoggio del
governo. Un terzo delle giovani fra i 15 e i 19 anni hanno
fatto almeno un aborto. In totale, ogni dieci nascituri, sei vengono
abortiti. È la maggiore percentuale dell’emisfero e forse di tutto il
mondo"; e ancora: "Si calcola che solamente all’Avana vi siano
circa 35.000 prostitute, che trasformano Cuba nel paradiso del turismo
sessuale. Per il governo, se entrano dollari, siano benvenuti, anche se a costo
della dignità della donna cubana. Cuba ha pure il livello più elevato di
suicidi dell’emisfero" . ""Fra
altre ragioni, Cuba ha fatto la rivoluzione per non essere più il bordello
degli Stati Uniti. C’è riuscita, ora siamo il bordello dei messicani, degli
spagnoli e dei tedeschi, che organizzano sex-charter diretti
all’isola", esclama angosciato un rappresentante dell’agenzia turistica Habanatour"
Casa: "Vi sono 55.000 abitazioni che, se
non vengono riparate immediatamente, entro pochi mesi
dovranno essere fatte evacuare [...]. Soltanto il
55% delle case dell’Avana riceve acqua potabile direttamente, ma con
interruzioni dovute a guasti. La mancanza di energia
elettrica e il cattivo stato delle tubature fa sì che l’acqua potabile si
mescoli con le acque di fogna. Il cattivo stato delle case produce un pericolo
strutturale di crollo, la possibilità di incendi a
causa di corti circuiti è aumentata dalla mancanza improvvisa di illuminazione,
dal momento che l’interruzione e il ritorno dell’energia elettrica sovraccarica
sempre le linee o i fili conduttori nelle case" (Diario Las Américas, Stati Uniti d’America, 29-10-1995). "Se l’Avana era in uno stato d’abbandono, ora è in agonia. [...] Il deterioramento urbano è solo il riflesso della
distruzione di una società" (El Semanal, Spagna, 5-11-1995).
Istruzione universitaria solo per i sostenitori
della Rivoluzione: "Il governo cubano ha deciso che
nelle università di Cuba verranno ammessi solo gli
studenti che dimostrano di difendere la rivoluzione "nelle idee e nelle
strade". "Sì", ha risposto senza incertezza il ministro
dell’Educazione Superiore di Cuba, Fernando Vecino Alegret, quando il suo intervistatore gli ha chiesto se
entreranno all’università solo i partigiani della rivoluzione. "Anche se talora in questo vi è trascuratezza, si tratta di
un principio conquistato, al quale non rinunceremo""
(La Nación, Costa Rica, 11-9-1994).
Medicina d’avanguardia solo per stranieri: ""Il
luogo ideale per la vostra salute", recita l’invitante pieghevole
propagandistico di SERVIMED, organismo incaricato di promuovere il turismo
sanitario a Cuba. La visita alle installazioni è allettante: cliniche dotate di
materiale ultramoderno, chirurghi e medici di alto
livello, camere ultraconfortevoli. Le autorità hanno deciso di utilizzare i
propri settori d’avanguardia per far entrare valuta estera. Mentre i cubani
devono far fronte a una grave penuria di medicinali e
sono costretti a ricoverarsi in ospedali nei quali la mancanza di detersivi fa
sì che le misure igieniche più elementari non vengano rispettate"
(Le Figaro, Francia, 22-9-1995).
Trapianti di tessuto cerebrale di feti appena abortiti: "Per
assicurare al governo preziosa valuta estera, una
dottoressa cubana sarebbe stata costretta a eseguire trapianti di tessuto
cerebrale di feto, ottenuto da aborti appena fatti, su ricchi pazienti
stranieri affetti dal morbo di Parkinson. Lo ha
scritto ieri il quotidiano britannico Indipendent
in una corrispondenza dall’America Latina basata sulle confessioni della
dottoressa Hilda Molina, la
quale ha personalmente eseguito i trapianti, che fruttavano al governo fino a
20.000 dollari ciascuno" (la Repubblica,
Italia, 13-8-1995). Si tratta di trapianti contrattati
con l’azienda del turismo statale. "Secondo la dottoressa Hilda Molina Morejón
— che ha abbandonato la pratica di questo delitto e Cuba dopo essersi convertita
al cattolicesimo —, gli interventi chirurgici sono combinati attraverso
l’azienda turistica statale Cubanacan, che introita
quanto rendono gli interventi. Le donne che abortiscono non verranno
mai informate sul destino dei feti" (O Globo, Brasile, 28-7-1995).
Economia: "Superinflazione e deficit sono in ultima analisi i principali risultati della politica
castrista, che affossa sempre più l’economia. Riassuntivamente,
"il 70% degli impianti industriali dell’isola è paralizzato, la produzione
agricola è diminuita di un 50% rispetto al 1989 e i servizi pubblici hanno subìto una contrazione di circa un 50%"",
afferma il professor Antonio Jorge, economista della
Florida International University, che conclude: "Perciò è evidente che il disastro
finanziario è irreversibile e completa la catastrofe della ormai disastrosa
crisi dell’economia reale del paese" (Dinero,
Colombia, marzo 1996).
Furto, fame, schiavitù e repressione: pilastri
del "socialismo di mercato": "A Cuba
rubano tutti e tutti parlano di cibo.
Il furto, la fame, la schiavitù e la repressione sono i pilastri del
"socialismo di mercato" di Fidel Castro. A
Cuba è in vendita tutto, anche i giovani corpi dei figli della rivoluzione, ma
i cubani comuni non partecipano e non traggono beneficio dal socialismo di
mercato del regime di Castro"
(Dinero, Colombia, marzo 1996).
L’"embargo" e il fallimento del sistema: "Il
blocco degli Stati Uniti contro Cuba è stato un fallimento totale perché è
eluso da molti paesi, comunque la colpa della povertà
e delle limitazioni vissute a Cuba è dell’amministrazione pubblica che non ha
avuto successo", ha affermato S. E. mons. Alfredo Petit Vergel, vescovo ausiliare dell’arcidiocesi dell’Avana in
un’omelia pronunciata a San José de Costa Rica nel
1995: "Mons. Petit ha dichiarato che,
purtroppo, la verità di quanto accade a Cuba non è nota perché si fa una grande propaganda a favore del governo cubano, rafforzata
dal fatto che vengono invitati stranieri, che sono ospitati in buoni alberghi e
si mostra loro un paese irreale. Con molta fermezza ha detto di essere disposto
a sostenere in qualsiasi luogo la sua opinione sul fatto che il popolo è stato
sprofondato nella miseria e nelle privazioni dai fallimenti
dell’amministrazione governativa"; "[...]
se Cuba sta godendo di una quantità inaudita di
investimenti stranieri, agli abitanti dell’Avana non è giunto nulla dello
sviluppo economico che si dice venga prodotto da questi investimenti";
"i "soci" e gli "amministratori" di tutte le
imprese miste sono scelti e approvati personalmente dal comandante [Fidel Castro]. Inoltre i lavoratori sono selezionati e
approvati dallo Stato cubano e controllati
continuamente nel loro lavoro dal sistema di sicurezza del regime. Gli stipendi
e i salari pagati a questi lavoratori cubani sono percepiti in dollari dal
regime di Castro, che poi "paga" in pesos al tasso ufficiale,
mettendosi in tasca 84 centavos per ogni dollaro (cioè il regime confisca l’84% del salario). A questo
riguardo, il mercato del lavoro di Castro somiglia più alla servitù contrattata
oppure alla schiavitù che all’economia di mercato" (Eco Católico, Costa Rica, 16-4-1995).
Oppressione: Secondo esponenti della Junta Patriótica Cubana, "a
Cuba sono stati fucilati più di 48.000 cubani, mentre nelle prigioni comuniste
sono passati più di 400.000 cubani e cubane come prigionieri politici";
e un milione e mezzo di cubani, su una popolazione stimata in circa undici
milioni, vive in esilio. "Cuba è uno Stato poliziesco con una struttura
repressiva modello. Neppure le nazioni dell’Europa Orientale hanno raggiunto
l’estensione e l’efficacia della polizia politica cubana, forse con l’eccezione
del KGB: la polizia politica cubana è di una perfezione insospettata. Lo Stato
poliziesco cubano ha creato una rete di vigilanza come non vi è stata in nessun
altro paese del "socialismo reale": i Comitati di Difesa della
Rivoluzione (CRD). [...] Le condanne a lunghi anni di prigione per
"delitti" che non sono tali in nessun altro
luogo hanno riempito le carceri di prigionieri politici. Inoltre, vi è la
punizione "civile": perdita del lavoro, della possibilità di
studiare, del diritto al miglioramento sociale, oltre a
essere un perpetuo appestato sociale e a essere permanentemente
sorvegliato" (Diario 16, Spagna, 14-5-1991).
Un programma per mantenere Fidel Castro al potere e per ottenere dollari: "Il
socialismo di mercato non è un programma economico per riformare Cuba, ma un
programma politico per ricuperare la rivoluzione cubana e perpetuare il potere
assoluto di Fidel Castro"
(Dinero, Colombia, marzo 1996). "I
cambiamenti attuali sembrano far parte di un piano d’insieme destinato a far
circolare esclusivamente dollari nel paese e a venderlo al miglior offerente [...] il turismo sessuale
costituisce l’attrazione principale di Cuba [...] la
maggioranza della popolazione è letteralmente esasperata per la fame, e non
migliora la situazione l’annuncio che centinaia di migliaia di posti di lavoro
verranno soppressi" (Le Monde, Francia, 4-2-1995).
La solitudine dei cubani: Concludo
con un’ultima citazione, ancora di mons. Eduardo Boza
Masvidal: "Sentiamo la grande solitudine in
cui si trova il popolo cubano nella lotta per la vita e per la libertà. Sembra
l’unico popolo nella nostra America senza il diritto a
esser libero e per il quale non esista il tanto richiamato rispetto
all’autodeterminazione dei popoli" (19).
Vogliamo lasciarlo solo nella lotta per la vita e per la libertà
oppure schierarci al suo fianco, capendo che — anche senza particolari
altruismi ed eroismi — la sua vita e la sua libertà non sono estranee alla
nostra vita e alla nostra libertà?
Dopo il "crollo delle
ideologie": la politica e il "ritorno al reale"
L’avvenimento di maggior rilievo
politico nella storia contemporanea è per certo costituito dall’implosione del
sistema imperiale socialcomunista, avvenuta nel 1989.
Tale rilievo è fondato sul fatto che detto sistema imperiale è
stato la realizzazione politica di maggior mole che la memoria storica
ricordi, favorita e accompagnata dall’uso terroristico della strumentazione
tecnologica dello sviluppo materiale dell’umanità, nucleare non escluso. Il
crollo "misterioso" di tale sistema imperiale — misterioso perché ne
sono ignote cause adeguate, dal momento che tutte quelle consuetamente addotte
non sono tali da rendere globalmente ed esaurientemente conto dell’esito
catastrofico, almeno in una prospettiva monocausale —
ha prodotto un effetto liberatorio sullo stato psicosociale
dell’intera umanità, allontanando il terrore della catastrofe nucleare.
Ma lo stato d’euforia seguito a tale crollo non ha favorito e non favorisce la
riflessione sui fatti, non solo sull’implosione ma sul suo soggetto, il sistema
imperiale in questione. Così non si apprezza adeguatamente che il sistema imperiale
socialcomunista era un’ideocrazia, cioè l’intronizzazione istituzionale,
l’istituzionalizzazione di un’ideologia, di una visione del mondo distorta in
quanto incentrata su una verità parziale, la cui metafisica è un’utopia. Così
si dimentica che un articolo della Costituzione sovietica degli anni 1930
recitava essere il Governo dell’URSS una cellula del PCUS, il Partito Comunista
dell’Unione Sovietica; e che le vittime enumerate nel macabro inventario eretto
nel 1997 da un gruppo di storici francesi, Il libro nero del comunismo.
Crimini, terrore, repressione, non sono soprattutto oppositori attivi e a
mano armata del regime ideocratico, ma principalmente
oppositori passivi, cioè componenti della società che
non si adattavano al progetto ideologico: per dirla con Dante, "materia
[...] sorda" "a l’intenzion de l’arte" utopica.
Così, soprattutto, non si coglie
che l’implosione del regime socialcomunista — nel suo
principale focolaio nell’Europa Orientale e in sue rilevanti metastasi in tutto
il mondo — mette in questione, con effetto domino, ogni
istituzionalizzazione ideologica, quindi l’istituzionalizzazione di ogni ideologia. Dunque, tale implosione non
costituisce assolutamente la vittoria della manipolazione ideologica della
libertà, cioè dell’ideologia "liberale" sul socialcomunismo, ma la vittoria del reale — certo meno
gravemente offeso nella prospettiva ideologica liberale che in quella socialcomunista, ma non perciò non offeso — su ogni
ideologia.
Perciò, al proposito — proprio di ogni ideologia — di "ri-creazione" del reale
"sbagliato", il crollo del sistema imperiale socialcomunista
offre la possibilità e suggerisce la doverosità di
sostituire il proposito del rilevamento, della gestione e del miglioramento
dell’esistente. La formula suona di profilo basso, e in un
orizzonte non troppo lontano sembra fare la sua comparsa la riduzione
della politica all’amministrazione. Questa percezione scorretta è anzitutto
alimentata dal fatto che tutti — piaccia o no — fuoriusciamo da una temperie
culturale caratterizzata dal gramsciano "tutto è politica" ; quindi che il crollo delle
ideologie istituzionalizzate e totalitariamente onnipervasive
viene colto come la fine della realtà stessa, delle idee e degli ideali. Per
contro, la fine delle ideologie è fine della scorretta allocazione gerarchica
delle diverse realtà manipolate appunto ideologicamente o della loro traumatica
mutilazione, non assolutamente fine delle realtà stesse: per tutte le ipotesi,
per esempio, la fine della lettura economico-classista della storia non è
assolutamente fine delle classi sociali, della rilevanza della vita economica
né, tantomeno, la dichiarazione della sua irrilevanza
in nome di un mal inteso "spiritualismo"; inoltre, l’attenzione alla
realtà, la "contemplazione" della realtà piuttosto che la sua
aggressione o mutilazione ideologica informa sia sullo stato, sulla condizione
storica della realtà stessa, che sul suo essere, sulla sua natura, nonché — in ultima analisi — sul da farsi a suo proposito.
Infatti, da un canto lo stato, la condizione della realtà, si ricava dalla sua
descrizione che, nel caso della società, è descrizione sociologica; d’altro
canto, la natura dell’uomo e della società, dicendo esplicitamente o almeno suggerendo
il loro rispettivo essere alimentano le idee così che
— infine — lo scarto fra l’esistente e l’essere, fra l’"essere" e il
"dover essere", definisce e permette d’identificare l’ideale verso
cui orientare organizzativamente l’esistente
favorendo il suo svolgimento, il suo sviluppo verso la sua perfezione, ma —
previamente e principalmente — non opponendo ostacoli a tale sviluppo.
Segni non equivoci, benché
ancora nelle intenzioni, dell’indispensabile "ritorno al reale" , della "conversione alla realtà", si possono
felicemente cogliere nel documento predisposto per la Conferenza Programmatica
di Alleanza Nazionale, organizzata a Verona marzo 1998.
"Nel suo realismo — si legge nella premessa di tale
documento, I valori e gli strumenti, al paragrafo 2, Costruire il
Sistema Italia —, che costantemente la distingue dagli utopismi più o
meno mascherati delle forze politiche e sociali a vario titolo
"progressiste", la Destra diffida di quanti, in nome di
"altruismi" ideologicamente motivati e quindi per ciò solo sospetti,
intendono imporre agli esseri umani dall’alto, dal basso o comunque
dall’esterno, le loro teste, volontà, intelligenze, aspettative, progettualità ai progetti, volontà, teste, aspettative,
intelligenze degli uomini nella loro ricca e articolata pluralità. Alla Destra
invece basta — e sarebbe già molto, e in tal senso intende
lavorare — che la rete istituzionale, amministrativa, educativa, normativa,
fiscale, invece di costituire un ostacolo, sia organizzata e tessuta in modo da
rappresentare appunto un’opportunità" (8). Ancor più qualificante è
quanto scritto nella parte seconda, Popoli, conoscenza, identità tra
innovazione e tradizione, al paragrafo 1, Dignità della persona, dignità
della Nazione: "[...] la Destra predilige per sua scelta fondante il principio di
realtà rispetto al principio di utopia, e insieme il gradualismo rispettoso del
dato empirico di fronte ai massimalismi delle suggestioni a vario titolo
rivoluzionarie e drasticamente novatrici" .
La linearità e la puntualità
dell’asserto — che ha il tono di una degnità vichiana — garantisce non solo dell’intenzione, ma lascia
anche ben sperare circa la capacità di superare ogni residuo ideologico — il
crollo dell’ideologia istituzionalizzata inteso come
sconfitta dell’ideologia "altrui" e come occasione storica per
la realizzazione della "propria" — e di affrontare coraggiosamente il
mare "fra il dire e il fare". E — sia chiaro — l’eventuale
fallimento o incompletezza del tentativo non lo condanna in modo definitivo — "la
disperazione [...] in
politica mi pare un’autentica mostruosità", scrive correttamente Charles Maurras —, ma aggiorna
semplicemente il ritorno al reale, con svantaggio sempre maggiore per i
ritardatari mentre il reale stesso continua ad attendere pazientemente. Ma, con tutta franchezza, non vedo perché farlo ancora
aspettare e non "rimettere" veramente "in cammino la
speranza".
"Dal PCI
al PDS": le tappe e i contenuti di una metamorfosi rivoluzionaria fino al
1994
Che cos’è il PDS, la nuova "cosa"
nata dal PCI, il Partito Comunista Italiano, dopo la caduta del Muro di Berlino
nel 1989?
Si tratta di comunisti rimasti
tali, ma costretti a cambiare il nome e il programma per mantenere un consenso
eroso dal fallimento del socialismo reale?
O è il frutto di un mutamento
reale, cioè di un ritorno ai princìpi della
Rivoluzione francese, che non si sarebbero inverati
in quella d’Ottobre, e quindi della ripresa del tentativo di coniugare libertà
e uguaglianza senza sacrificare nessuna delle due?
O, ancora — e sempre nell’ipotesi del
mutamento reale —, si tratta della conseguenza politica della vittoria
culturale del "pensiero debole", e quindi della nascita del partito
relativista, del "partito radicale di massa", del partito del
"pensiero debole" organizzato?
Oppure, più semplicemente — come
veniva spiegato nei Seminari di Formazione
Anti-Comunista promossi da Alleanza Cattolica negli anni Settanta e Ottanta —,
poiché il comunismo non esaurisce la Rivoluzione, dopo il fallimento ideologico
e pratico del socialcomunismo, il processo di
opposizione nella storia al piano di Dio sull’uomo e sulle nazioni, cioé appunto la Rivoluzione, continua attraverso altre
tappe?
Per rispondere adeguatamente a
queste domande bisogna anzitutto ripercorrere le fasi principali che hanno
visto nascere il PDS: allo scopo, mi servo ampiamente uno studio di Piero Ignazi, ricercatore nel Dipartimento di Politica,
Istituzioni, Storia dell’Università di Bologna.
La nascita della
"cosa": Il 12
novembre 1989, tre giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, il segretario
generale del PCI, on. Achille Occhetto,
nel corso di una manifestazione partigiana in un quartiere di Bologna, enuncia
il progetto di trasformare radicalmente il partito in una nuova
"cosa". Il Comitato Centrale del PCI approva il progetto del
segretario nella riunione tenuta del 20 al 24 novembre con 219 voti favorevoli,
73 contrari e 34 astenuti. La trasformazione verrà
confermata con la maggioranza dei due terzi dei delegati nel corso del
Congresso straordinario nel marzo del 1990, il XIX del PCI, mentre il
successivo XX Congresso sancirà ufficialmente la nascita del nuovo soggetto
politico, il Partito Democratico della Sinistra.
Secondo Piero Ignazi, il processo di cambiamento del PCI avviene in due
fasi:
1. la prima va dalla sconfitta elettorale
del 1987 alla caduta del Muro di Berlino nel 1989, ed
è caratterizzata dall’"articolazione dei fini", cioé da un parziale mutamento delle finalità del PCI e da
un graduale abbandono della sua "diversità" organizzativa, cioé del "centralismo democratico";
2. la seconda fase comincia nel 1989 con
l’annuncio, da parte dell’on. Achille Occhetto, della radicale trasformazione del PCI e si conclude due anni dopo, nel 1991, con l’avvenuta "sostituzione
dei fini", cioé con la nascita di un
soggetto politico che abbandona esplicitamente il progetto di instaurare una
società comunista attraverso la lotta di classe e che rinuncia al centralismo
democratico, permettendo ufficialmente la nascita di correnti all’interno del
partito.
Il PCI dopo il fallimento del
"compromesso storico": La storia del PCI ha conosciuto numerose e significative
mutazioni tattiche e strategiche dopo il ritorno di Palmiro Togliatti
in Italia, alla fine della seconda guerra mondiale: dalla svolta
"democratica" e anti-insurrezionale di
Salerno, nel 1944, alla destalinizzazione dopo il
1956; dalla strategia di "compromesso storico", con il conseguente
ingresso del PCI nei governi detti di "solidarietà nazionale", dal
1976 al 1979, fino all’abbandono di questa strategia in seguito alla sconfitta
elettorale del 1979 e alla scelta dell’"alternativa democratica" nel
1980; e, ancora, con lo "strappo" dall’URSS, voluto dall’on. Enrico Berlinguer e
progressivamente realizzatosi nel corso degli anni Ottanta.
Comunque, nel corso di questi decenni, il PCI
aveva sempre mantenuto, come obiettivo della propria azione politica, la
trasformazione socialista del paese, una meta che nessuno che volesse rimanere
nel partito aveva mai messo in discussione, anche perché la politica del
partito stesso veniva costantemente premiata dai risultati elettorali, che
vedevano il PCI in continua ascesa.
Ma il logorio dovuto al rimanere
in "mezzo al guado", cioé al voler
governare senza riuscirvi, rimanendo a metà strada fra il potere e
l’opposizione — come avvenne durante i governi di "solidarietà
nazionale", quando il PCI venne coinvolto nella
politica di austerità promossa dall’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti, senza peraltro beneficiare ancora del potere
legale —, costò al PCI il primo regresso elettorale, nel 1979, che bastò per
far cessare la politica di "compromesso storico".
Erano gli anni in cui l’utopia
della Rivoluzione del Sessantotto sfociava nel terrorismo e nell’incremento
della diffusione della droga mentre, a livello culturale,
le "forti" ideologie rivoluzionarie lasciavano il posto al
"pensiero debole", al trionfo del relativismo e del nichilismo, e al
"tutto è politica" subentrava il "ritorno al privato".
Cominciava l’era craxiana — il tempo di cui è stato indubbio protagonista il
segretario del PSI on.
Bettino Craxi —, fra l’altro caratterizzata da una
dura lotta per l’egemonia nella Sinistra, nella quale appunto il PSI sceglieva
il riformismo socialista come referente storico e ideologico per liberarsi
dalla sudditanza politica verso il PCI, mentre quest’ultimo
conosceva uno dei periodi certamente più difficili della sua storia, messo in
difficoltà dal venir meno della capacità seduttiva
della mitologia comunista fra i giovani, dalla progressiva diminuzione
quantitativa della classe operaia, cioé del soggetto
rivoluzionario per eccellenza, e — soprattutto — dal venire alla luce in modo
sempre più palese dello sfacelo morale e materiale nei paesi del socialismo
reale.
Così, le sorti della Repubblica
Italiana si giocavano soprattutto all’estero, in modo particolare nell’URSS,
dove avvenivano i grandi mutamenti politici e istituzionali, che avrebbero poi
avuto ripercussioni negli altri Stati comunisti dell’Europa Orientale e,
quindi, anche in Italia, dove esisteva il maggior partito comunista del mondo
non comunista. Infatti, i mutamenti epocali avvenuti
con Juri Vladimirovic Andropov e poi, principalmente, durante la presidenza di Mikhail Serghevic Gorbaciov, interessano l’evoluzione del PCI in Italia oltre
che per il progressivo venir meno del PCUS come punto di riferimento e come
fonte di finanziamento, anche per le analoghe modalità di attuazione del
mutamento stesso. Infatti, in entrambi i casi, i
cambiamenti avvengono per iniziativa del vertice, sollecitati da pressioni
esercitate da situazioni specifiche: in specie, "suggeriti" nell’URSS
dal fallimento del progetto di mantenere il potere e, in Italia, dal fallimento
del progetto di conquistarlo.
1987: la sconfitta
elettorale: La lieve flessione
nelle elezioni del 1983 — solamente - 0,5% — viene
fatta dimenticare dalle elezioni europee del 1984, nelle quali il PCI trionfa
e, con il 33,3% dei voti espressi, diventa il primo partito italiano.
Naturalmente, il successo fa sì che i comunisti non riflettano — almeno in
apparenza — sulla loro crisi e sul fatto che la vittoria elettorale, conseguita
sull’onda dell’effetto emotivo provocato dalla morte del segretario del
partito, on. Enrico Berlinguer,
è stata ottenuta soprattutto grazie alla confluenza dei voti precedentemente
riversatisi sul PDUP, il Partito Democratico di Unità Proletaria, quindi va
valutata tenendo presente l’altissimo numero di astensioni, di schede bianche e
di schede nulle: insomma, il PCI aumenta soltanto dell’1,4% rispetto alle
precedenti elezioni politiche del 1983.
Poi vengono le sconfitte nelle
elezioni amministrative del 1985 e, soprattutto, nel referendum promosso
dallo stesso PCI sulla "scala mobile", sempre nello stesso anno, ma
la vera crisi esplode dopo la grave flessione elettorale nelle elezioni
politiche del 1987, quando il partito raccoglie il 26,6% dei voti espressi e
ritorna al di sotto del risultato del 1968.
Tutti conoscono l’enorme
importanza che, nella prospettiva marxista, ha la verifica nella storia della
propria azione politica: perciò, tornare al di sotto del
risultato elettorale conseguito nel 1968 significava che, dopo vent’anni di lotta rivoluzionaria — che pur aveva
profondamente cambiato cultura e costume degli italiani, grazie alla pratica
della rivoluzione culturale gramsciana — il comunismo
aveva raggiunto il suo massimo di capacità di convincimento, che non avrebbe
potuto andare oltre e che, quindi, era necessario rinunciare a quell’apparato
ideologico e politico che ormai rappresentava un ostacolo per la conquista del
potere: cioè, era necessaria un’altra "cosa".
Non so se sia stato questo il
ragionamento — che peraltro mi sembra molto marxista — che ha inizialmente
provocato la decisione di promuovere il cambiamento del PCI, ma certamente il
mutamento si mette in moto e comporta l’insediamento dell’on.
Achille Occhetto alla vicesegreteria
quindi, a causa delle cattive condizioni di salute del
segretario, l’on. Alessandro Natta, alla segreteria
nel maggio del 1988.
L’elezione dell’on. Achille Occhetto avviene in
un periodo di crisi non abituale nel partito, con gli organi dirigenti
costretti a subire le domande e le discussioni della base militante, ormai
apertamente relative all’identità dell’essere comunisti,
e non più soltanto alla linea politica o alla strategia del partito. La sua
stessa elezione non avviene all’unanimità e la direzione del partito si spacca.
L’on.
Achille Occhetto è sostenuto dal centro berlingueriano e dalla sinistra dell’on.
Pietro Ingrao, nelle cui file lo stesso neosegretario
aveva militato. Fino al 1989 la sua azione sul partito
opera alcuni cambiamenti anche importanti, ma si ferma o retrocede
ogniqualvolta sembri rinnegare i fondamenti dell’identità comunista, in
particolare il legame con la Rivoluzione d’Ottobre e i momenti
"mitologici" della storia del PCI. Significativa
è la grande reazione dei massimi esponenti del partito dopo l’insinuazione —
avanzata nell’estate del 1989 da un intellettuale vicino all’on. Achille Occhetto, Biagio de
Giovanni — sul coinvolgimento di Palmiro Togliatti
nei delitti provocati dalla politica cominformista.
A mio avviso, i due principali
cambiamenti nel periodo dell’"articolazione dei fini", cioè dal 1987 al 1989, riguardano l’ancoraggio ideologico
del nuovo PCI ai princìpi della Rivoluzione francese e il progressivo venir
meno, all’interno del partito, del centralismo democratico, con il manifestarsi
di dissensi pubblici e il formarsi delle correnti.
La seconda fase: la
"sostituzione dei fini": La stessa azione riformatrice di Mikhail S. Gorbaciov nell’URSS —
la perestrojka — viene
letta dai comunisti italiani come testimonianza della sostanziale bontà del
sistema uscito dalla Rivoluzione d’Ottobre, proprio in quanto sistema
riformabile. Dal 1987 al 1989 l’azione riformatrice dell’on.
Achille Occhetto sembra muoversi in perfetta sintonia
con quella di Mikhail S. Gorbaciov:
cambiare certamente e anche molto, ma nell’ambito della prospettiva socialcomunista, secondo l’ottica berlingueriana
dell’immissione di elementi di socialismo nella società
italiana.
Soltanto con il 1989 e con il
crollo dei regimi comunisti nei paesi dell’Europa Orientale avverrà il distacco
radicale e la fuoriuscita del PCI dal solco tracciato a partire dalla
Rivoluzione guidata da Vladimir Ilic Lenin.
Con l’avvento dell’on. Achille Occhetto alla guida
del partito si verificano importanti mutamenti anche
nella composizione delle strutture direttive: per esempio, fra i membri della
segreteria, cioé dell’esecutivo ristretto, del PCI
nel 1983 e quelli del 1989, l’on. Achille Occhetto è l’unico elemento di continuità, così come è
radicale il cambiamento nella composizione della Direzione del partito — il "cuore
del gruppo dirigente", come lo definisce Piero Ignazi
— con ventidue nuovi ingressi — il 42,3% —, eletti dal XVIII Congresso nel
1989.
La seconda fase del cambiamento
si compie fra la fine del 1989 e il febbraio del 1991 e consiste nel
contemporaneo mutamento del nome e dell’identità ideologica del partito. I
principali artefici e sostenitori del cambiamento sono,
naturalmente oltre al segretario del partito, gli esponenti della nuova classe
dirigente, entrata nelle strutture direttive con l’on.
Achille Occhetto, gli uomini della "destra"
riformista guidata dall’on. Giorgio Napolitano, mentre il centro berlingueriano
e la sinistra dell’on. Pietro Ingrao
si dividono nel sostegno al segretario, e dalla corrente dello stesso on. Pietro Ingrao entrano
nell’orbita del segretario personaggi come l’on.
Antonio Bassolino e dell’on.
Bruno Trentin.
La linea politica dell’on. Achille Occhetto viene appoggiata soprattutto dai funzionari e dai dirigenti
locali e, in particolare, dai rappresentanti dell’Emilia-Romagna,
che costituiscono il 30% del partito. Essi sosterranno la mozione congressuale
a favore del cambiamento nel corso del XX Congresso
del PCI — svoltosi dal 31 gennaio al 4 febbraio 1991 —, dove la tesi dell’on. Achille Occhetto otterrà il
64,1% dei voti favorevoli, con 807 delegati a favore su 1.259.
L’ancoraggio ai
princìpi della Rivoluzione francese: L’aspetto relativo
al rapporto fra la "nuova sinistra" e le due rivoluzioni,
quella francese del 1789 e quella russa del 1917, è stato trattato, fra gli
altri, da Biagio de Giovanni, in un convegno promosso dall’Area Politiche
Culturali del PDS, a Roma, nei giorni 26 e 27 febbraio 1992 (8). Nel suo
intervento, Biagio de Giovanni sostiene che la caduta del comunismo deve essere
accettata dalla Sinistra e deve costituire l’occasione perché quest’ultima ritorni ai princìpi dei diritti dell’uomo
sanciti dalla Rivoluzione francese e violati invece da quella comunista del
1917; così facendo, la Sinistra impedirà che tali princìpi rimangano
patrimonio soltanto della tradizione liberaldemocratica,
purché sappia rinunciare al legame con la rivoluzione intesa come processo per
instaurare una nuova società. La tesi di Biagio de Giovanni viene
ripresa dall’on. Achille Occhetto,
che si richiama pure ai princìpi del 1789 e ai diritti dell’uomo: la
"nuova cosa", secondo questa prospettiva, sarebbe una specie di
partito radicale di massa, il partito dei diritti dei diversi in tutti i campi,
il partito che esalta la libertà senza alcun limite e la democrazia come mito
trainante della propria azione politica. A quest’ultimo
riguardo, concludendo i lavori del convegno, l’on. Achille Occhetto dirà: "Dobbiamo
ripensare la democrazia, come democratizzazione integrale della società, come
frontiera in continuo movimento verso la conquista di nuovi territori"
(9), assumendo la democrazia non soltanto come metodo con cui si prendono le
decisioni politiche. Infatti, com’era stato detto nell’introduzione allo stesso
convegno dall’on. Claudia Mancina, "[...] la democrazia non è
semplicemente un metodo, perché proprio nelle sue procedure c’è un aspetto
sostantivo, che la rende desiderabile, la rende anche un fine e un valore, anzi
il valore-base della politica, senza il quale gli altri non possono essere
perseguiti. Cioé: il processo democratico non ci
assicura che verranno prese delle decisioni buone, ma
è comunque un bene che le decisioni vengano prese attraverso il processo
democratico".
Chiudendo lo stesso convegno, l’on. Achille Occhetto spiegherà il
passaggio dal PCI al PDS in questi termini: "Nell’87 noi cogliemmo che
una lunga stagione politica del nostro paese si era ormai conclusa.
Quella del consociativismo, quella — come dicemmo —
legata all’idea che l’incontro tra le grandi forze politiche popolari fosse
necessario e sufficiente a produrre rinnovamento.
"Nell’89
ci siamo misurati con il collasso dei regimi autoritari dell’Est europeo e con
la fine dell’epoca della guerra fredda; con la fine dell’ordine internazionale
— e anche interno — che aveva come quadro di riferimento ineludibile
una certa configurazione, quella della contrapposizione tra blocchi.
"[...]
"Il Pci,
nessuno può discuterlo, ha fatto la sua parte. Ma, appunto, tra l’87 e l’89 abbiamo preso consapevolezza che tutto ciò, una grande
eredità, era alle nostre spalle. Che tutti dovevamo
ricominciare" .
Lo stesso uomo politico concludeva: "Perché democratici e di sinistra?
"Siamo voluti tornare
alle fonti. Alle fonti della modernità politica. Alla fonte
comune che ha dato alimento ideale, per due secoli, a tutti i movimenti
democratici e di sinistra in Occidente".
Quale partito?: Secondo
Piero Ignazi, l’identità della "nuova cosa"
assomiglia a tre modelli diversi: il partito della socialdemocrazia o
laburista, voluto soprattutto dalla "destra" riformista dell’on. Giorgio Napolitano, che si ispira alle socialdemocrazie europee; il partito antagonista-movimentista, rappresentato dalla sinistra
dell’on. Pietro Ingrao e
dell’on. Antonio Bassolino,
oppure il partito radicale di massa, che sostituisce la classe operaia come
referente privilegiato dell’azione politica con il "cittadino" e con
i suoi diritti, in questo seguendo la scelta per i princìpi della Rivoluzione
francese fatta dall’on. Achille Occhetto.
Quest’ultimo difficilmente accetterà di
ingabbiare il PDS in una sola di queste definizioni ma, anche se ha rifiutato
l’ipotesi del partito radicale di massa, è indubbio
che il PDS sembra realizzare sempre più un modello di questo genere, che — fra
l’altro — gli permette di essere il perno delle alleanze elettorali con le
quali si candida a governare, guidando appunto tutte le altre forze
progressiste come una locomotiva traina i vagoni.
L’alleanza elettorale guidata
dal PDS appare come l’espressione politica di molteplici posizioni ideologiche,
tutte però riconducibili sul piano culturale a quell’unica che, in certo modo,
non ne esclude nessuna, il "pensiero
debole", cioé l’affermazione che nega
l’esistenza di qualsiasi "verità delle cose" e riduce la convivenza
civile a un semplice convenzionalismo, per cui i diritti civili dell’uomo —
quelli a cui l’on. Achille Occhetto
si richiama come fonte della propria azione politica — vengono determinati
dagli interessi temporanei dei singoli uomini e dei diversi gruppi umani, ma
non sono assolutamente valori perenni e metastorici.
La conclusione spiega le contraddizioni dell’ideologia politica del fronte
progressista: il sostegno ai diritti del cittadino, ma non a quelli del bambino
non nato, le campagne contro l’estinzione di alcune specie animali e il favore
all’eutanasia, la solidarietà ai "diversi" anche contro natura e il
silenzio sulle necessità della famiglia, soprattutto quando numerosa, vessata
dalla persecuzione fiscale, minacciata dal pervertimento del costume ed
emarginata nella vita sociale e politica, e — ancora — la mancanza di
solidarietà con la scuola libera, che aspetta da cinquant’anni
l’equiparazione a quella di Stato. Troppo spesso la polemica contro il fronte
progressista si limita all’aspetto economico e alla richiesta rivolta al PDS di
rinunciare al collettivismo e all’assistenzialismo, mentre sorvola su questi
punti fondamentali, quando non li trascura.
Le elezioni politiche
del 27 e 28 marzo 1994: Superate le grandi difficoltà che hanno
accompagnato il cambiamento, il PDS si candida alla guida del governo della
Repubblica Italiana dopo le elezioni politiche del 27 e 28 marzo 1994. Per
opporsi a questo tentativo risultò essere determinante
il non essersi limitati a un impegno che derivi dalla paura che il PDS
nascondesse una posizione comunista mai veramente abbandonata — paura del resto
legittima, conoscendo il trasformismo strutturale dell’ideologia comunista —,
ma descrivere e combattere il PDS anche per quello che è e disse di essere
allora. Tanto meglio se questa opposizione ebbe il
grande risultato di favorire una riflessione e un accostamento a quei princìpi
naturali e cristiani che il fronte progressista, direttamente o indirettamente,
contrasta radicalmente.
Mariae, saluti infirmorum
La morte "selvaggia". Rifiutata, nascosta, truccata
"L’antico atteggiamento,
in cui la morte vicina e familiare è, al tempo stesso, rimpicciolita e
sdrammatizzata, è troppo in contrasto col nostro; della morte noi abbiamo tanta
paura da non osar più pronunciare il suo nome.
"Perciò,
quando diciamo di questa morte familiare che è addomesticata, non intendiamo
dire che prima era selvaggia e che in seguito è stata addomesticata. Vogliamo
dire, al contrario, che è diventata selvaggia oggi" .
La società moderna ha il terrore
della morte. E a buon diritto.
Una volta
rifiutato ogni senso
trascendente alla vita umana, ridotta a vita biologica di un corpo-macchina, la
morte si è trovata a essere — insieme ed enigmaticamente — la banale
interruzione della funzionalità di una macchina, e la fine inappellabile e
senza senso di ogni uomo. E perciò viene anzitutto
nascosta, con tutto quanto a essa richiama, a cominciare dal luogo-cimitero.
Una delle più importanti modalità con cui questo nascondimento viene attuato è
certamente l’ospedalizzazione della morte e la sua medicalizzazione:
il malato detto "terminale" — una delle numerose strategie
linguistiche di occultamento della realtà della morte e del morire — viene
isolato dal resto della comunità, frequentemente abbandonato da famigliari e da
amici, e affidato alle sole cure del personale sanitario. I medici e —
soprattutto — gli infermieri si trovano così a dover gestire la maggior
parte delle morti, tacitamente investiti da una società che fugge la morte e
che le rifiuta ogni senso, dell’insostenibile compito di rispondere alle
angosciate domande degli agonizzanti, domande sul senso della loro vita e della
loro morte sì, ma anche richieste di affetto, di
compassione e di calore. I membri del personale sanitario, cui la cultura
diffusa consente di percepirsi solo come "tecnici della salute" di
corpi-macchina, si trovano allora a dover costantemente fronteggiare — e
fuggire — il fallimento completo e definitivo della loro attività.
Se i recenti fenomeni della medicalizzazione e dell’ospedalizzazione della morte
costituiscono una delle condizioni storiche più importanti per inquadrare
l’attuale dibattito sull’eutanasia, un’altra strategia — accanto a quelle del
rifiuto e della fuga — merita un cenno: è quella della morte truccata.
Infatti, la diffusione panica della fobia delle morti reali — anzitutto della mia
morte — si accompagna a un’ostentazione altrettanto panica di morti fittizie: la celebrazione televisiva e
cinematografica del rito crudele di morti tanto numerose quanto finte e
orribili costituisce un ossessivo sforzo di esorcizzazione
delle morti vere, prive — queste — di effetti speciali, ma pur dotate di
quell’effetto naturale di porre radicalmente la domanda sul senso,
escludendo insieme ogni risposta parziale, fittizia o evasiva. Lo spettatore di
un film non è chiamato a rispondere di fronte alle domande che
l’agonizzante pone — e alla magna quaestio che egli stesso è
diventato —, è anzi del tutto irresponsabile
di fronte alle morti fittizie.
La "morte
dolce" procurata: In
questo contesto culturale si pone oggi il problema
dell’eutanasia.
Si pone anzitutto come problema
di comprensione e di definizione, non semplicemente di parole, ma della realtà
che esse indicano: che cosa è l’"eutanasia"?
Eutanasia e suicidio
medicalmente assistito: cenni definitori
Dopo aver già da
tempo abbandonato il legame con l’etimo greco — eu-thánatos,
"morte buona" —, il termine eutanasia viene usato nell’attuale
dibattito in sensi spesso molto diversi.
Frequentemente si distingue fra
eutanasia attiva — o positiva, o diretta
—, là dove il medico, o chi per lui, interviene direttamente per procurare la
morte di un paziente, ed eutanasia passiva — o negativa, o indiretta
—, dove si ha invece astensione da interventi che manterrebbero la persona in
vita. Si distingue inoltre fra eutanasia volontaria, quella
esplicitamente — e reiteratamente — richiesta dal paziente, ed eutanasia non
volontaria, quando la volontà del paziente non può essere espressa, perché
si tratta di persona incapace; in lingua inglese la distinzione è fra voluntary e nonvoluntary,
ed esiste anche il caso di un’eutanasia involuntary,
quella cioè praticata contro l’espressa volontà del
paziente.
Eutanasia si oppone talora a distanasia, a indicare
invece l’astensione da interventi medici di prolungamento della vita non
rispettosi della dignità del paziente. Prossimo concettualmente e fattualmente all’eutanasia, benché distinto da essa, è poi il suicidio medicalmente assistito — physician assisted suicide o,
eufemisticamente, p.a.s.
—, in cui la morte è conseguenza diretta di un atto suicida del paziente,
ma consigliato e/o aiutato da un medico.
Si tratta, come si vede, di una
mappa di significati tutt’altro che omogenea e
definita, e assai sensibile alla prospettiva teorica adottata.
Una definizione completa e
precisa — che verrà seguita in questo testo — è quella
contenuta nella Dichiarazione sull’eutanasia "Iura
et bona",
pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1980: "Per
eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle
intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia
si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati".
Sofferenza, trattamento del
dolore ed eutanasia: Una
delle caratteristiche definitorie dell’eutanasia è il
suo obiettivo di ridurre la sofferenza.
Talora si ritiene che la
richiesta di un intervento eutanasico o di
un’assistenza al suicidio da parte dei pazienti sia direttamente proporzionale
alla gravità della loro malattia, e alla loro sofferenza. Si tratta, invero, di
una semplificazione indebita. Se prendiamo in esame i
casi di suicidio, per esempio, "i malati terminali costituiscono solo
una piccola porzione del numero totale di suicidi. In effetti, la maggior parte
delle persone che si uccidono gode di una buona salute
fisica. Fra tutti i suicidi solo tra il due e il quattro percento sono malati terminali . Uno studio condotto su adulti
oltre i cinquant’anni ha mostrato che persone
erroneamente convinte che stavano morendo di cancro si suicidarono
in un numero maggiore rispetto a quelle che avevano effettivamente una malattia
terminale. Questo studio supporta la stima secondo cui due terzi degli anziani
che muoiono per suicidio godono di una salute
relativamente buona .
"Gli individui con una grave
malattia cronica e terminale hanno un rischio di suicidio maggiore — alcuni
studi suggeriscono che il rischio per i pazienti di cancro è di circa due volte
quello della popolazione globale. Alcuni esperti però
hanno osservato che molti pazienti terminali sperimentano un fenomeno chiamato cancer cures psychoneuroses. Questo fenomeno si ha quando i pazienti
si rendono conto di avere un cancro o un’altra malattia progressivamente
terminale, e quando il processo con cui fanno fronte e
dominano la loro paura della morte dissolve molte altre ansie o nevrosi. Come
spiegato da uno psichiatra, "quando l’attenzione di una persona si
allontana dai divertimenti banali della vita, può emergere un apprezzamento più
pieno dei fattori elementari dell’esistenza".
"Perciò alcuni pazienti
terminali possono presentare uno stress psicologico inferiore a quanto ci si possa aspettare. A parte le circostanze in cui i pazienti
sono depressi, i malati terminali hanno spesso capacità di ripresa, e lottano
per la vita attraverso le loro malattie. Gli studi indicano che su molti
pazienti con grave sofferenza, sfiguramento o disabilità, la grande maggioranza
non desidera il suicidio. In uno studio su pazienti malati terminali, fra
quelli che espressero una volontà di morire, tutti soddisfacevano i criteri di
diagnosi della depressione endogena. Come gli altri suicidi, i pazienti che
desiderano il suicidio o una morte anticipata durante una malattia terminale
soffrono solitamente di una malattia mentale che può essere trattata, per lo più
di depressione " .
L’esperienza degli hospice, cliniche il cui scopo
è l’umanizzazione dell’assistenza ai pazienti in fin di vita e il trattamento
del dolore — le cosiddette cure "palliative" —, infirma ulteriormente
questa correlazione sofferenza-desiderio di morire apparentemente così ovvia . "Pazienti
con una sofferenza non controllata possono vedere la morte come l’unica fuga
dalla sofferenza che stanno sperimentando. In ogni caso, la sofferenza non è
solitamente un fattore di rischio indipendente. La variabile significativa
nel rapporto fra sofferenza e suicidio è l’interazione fra sofferenza e
sentimenti di disperazione e depressione. Come affermato da uno psichiatra: "La
sofferenza gioca un ruolo importante nella vulnerabilità al suicidio; comunque l’associazione di un disagio psicologico e
di un disturbo dell’umore sembrano essere co-fattori
essenziali nell’alzare il rischio del suicidio del malato di cancro".
Eliminato il pregiudizio di cui
s’è detto, è possibile ora far cenno ad alcuni aspetti giuridici
dell’eutanasia. Benché il parlamento inglese avesse discusso già nel 1936 una
proposta di legalizzazione dell’eutanasia, e con l’eccezione della legislazione
nazionalsocialista, fino a un periodo molto recente
essa non ha avuto posto nella legislazione come fattispecie a sé: le pratiche eutanasiche venivano ricondotte, a volta a volta, ad altre
fattispecie esistenti, solitamente all’omicidio e al suicidio.
La
"morte dolce": i suoi presupposti e alcune conseguenze: S’è detto del complesso rapporto fra
sofferenza e suicidio o desiderio di morire. Pure, nell’eutanasia — e nella sua
approvazione sociale e legalizzazione — vi è un elemento nuovo: l’intervento di
un’altra persona, quasi sempre di un medico o di un
operatore sanitario, intervento inteso ad alleviare il dolore con il porre un
termine alla vita del paziente.
Si tratta, anzitutto, di una
risposta tutt’altro che ovvia: un omicidio sarebbe
l’aiuto adeguato a un sofferente; ovvero si verrebbe
addirittura a configurare un dovere da parte di qualcuno — il medico o chi per
lui — di uccidere una persona che gliene faccia richiesta; o, ancora, si
attribuirebbe a qualcuno — medico, giudice, famigliare? — il diritto di
stabilire se una vita innocente sia meritevole o no d’essere vissuta.
"Bisogna rispettare la
libertà del paziente", si ripete spesso da parte dei sostenitori
dell’eutanasia, incorrendo così nell’aporia dello schiavo: si può rinunciare liberamente
alla libertà, alla condizione fondamentale del suo normale esercizio, la vita?
La richiesta del sofferente è piuttosto quella che gli si allevi il dolore, e
tale è la responsabilità del medico, la cui vocazione è di farsi prossimo al
paziente e di alleviarne le sofferenze fisiche e spirituali, non quella di essere arbitro della sua vita e della sua morte.
La condizione per ammettere la
liceità — e la legalità — dell’eutanasia è dunque l’affermazione di un diritto
onnipotente e irresponsabile dell’uomo a disporre della
propria vita, con aggiunto — si tratta di un corollario non casuale, una volta
accettato il modello del medico-tecnico — un curioso
obbligo da parte di alcuni, i medici e/o il personale sanitario, di realizzare
l’atto eutanasico richiesto.
È vero: a volta a volta la
cultura e la legislazione si sono impegnate — lo si è
visto nel caso olandese e in quello australiano —, e presumibilmente
s’impegneranno, a porre limitazioni a tale diritto e a tale dovere: ma si
tratta d’incoerenze locali, che non hanno alcun fondamento teorico una volta
ammesso un ipotetico diritto all’eutanasia. Affermato che la vita senza
valore può essere soppressa, a chi spetterà poi il diritto e l’onere di
stabilire quando la vita è tale? Perché,
infatti, dovrebbero "beneficiare" del diritto all’eutanasia solo i
malati, o solo gli anziani, o solo i malati gravi?
Perché non dovrebbe essere come
scrivono con sconcertante coerenza Roland Jaccard e Michel Thévoz nel loro Manifesto per una morte dolce,
secondo cui "ogni individuo dovrebbe avere il diritto di disporre di sé, di drogarsi, di uccidersi, per ragioni che
riguardano lui soltanto, perché è sieropositivo o perché quel mattino piove.
Non è in alcun modo giustificato attendere l’agonia per concedergli questa
libertà" ?
Tale diritto presuppone e
implica infatti un più generale diritto al suicidio,
più lo strano dovere di cui s’è detto: la vita umana è, in questa prospettiva,
un bene completamente disponibile per chi ne è soggetto, di nuovo con il limite
che il medico ha, che lo assoggetta al volere altrui per quanto riguarda
l’intervento eutanasico.
Due notevoli effetti della
legalizzazione dell’eutanasia: Prima di procedere oltre nell’analisi etica conviene almeno far
cenno a due possibili e importanti conseguenze di una legalizzazione, o comunque di una diffusione della prassi eutanasica.
La prima sarebbe l’affievolirsi
dell’attenzione al trattamento della sofferenza: uno studio del 1994 ha
documentato che malati di cancro appartenenti a minoranze etniche negli Stati
Uniti d’America avevano possibilità tre volte maggiori di ricevere un
trattamento inadeguato della sofferenza rispetto agli altri pazienti. Laddove
l’opzione eutanasica fosse
accolta come possibile, ne conseguirebbe molto probabilmente un affievolimento
dello sforzo teso a ridurre la sofferenza, soprattutto per quanto riguarda i
gruppi socialmente ed economicamente più deboli, per i quali il ricorso
all’eutanasia diventerebbe la soluzione più "ovvia" ed economica.
Il secondo prevedibile effetto è
ancora più grave ed esteso: una volta introdotta la possibilità dell’opzione eutanasica, si avrebbe
infatti una sorta d’inversione dell’onere della prova della dignità e del
valore di ogni vita umana. In altre parole: il paziente terminale dovrebbe
continuamente giustificare la propria scelta di non richiedere l’eutanasia
di fronte ai famigliari e al personale medico.
Ecco come J. David Velleman, autore peraltro non contrario all’eutanasia,
tratteggia una tale prospettiva: "[...]
se mai la gente giungesse a guardarti come esistente
per scelta, potrebbe aspettarsi che tu giustifichi il tuo continuare a
esistere. Se la tua venuta quotidiana in ufficio viene
interpretata come significasse che tu hai rinunciato ancora una volta a
ucciderti, ti potresti sentire obbligato ad arrivare con una risposta alla
domanda "Perché no?".
"Penso che la percezione
che ciascuno di noi ha della vita altrui come di qualcosa di dato sia radicata
così profondamente che a fatica possiamo immaginare come sarebbe la vita senza
di essa. Quando qualcuno mostra impazienza o dispetto
nei nostri confronti, diciamo scherzosamente:
"Scusa se esisto!". Ma immaginate se non fosse
uno scherzo, immaginate se vivere fosse qualcosa per cui si possa
ragionevolmente pensare di aver bisogno di una scusa. Il carico di giustificare
la propria esistenza potrebbe rendere l’esistenza insopportabile — e perciò
ingiustificabile" .
Dunque, "offrire l’opzione di morire può significare dare alla gente nuove
ragioni per morire" .
Due
conseguenze che meritano d’esser valutate soprattutto da parte di chi ipotizza
la legalizzazione dell’eutanasia: "Tanto, chi vuole ricorrervi non può
essere fermato, e chi non vuole ricorrervi non vi ricorrerà mai"...
Un parallelo con l’aborto
procurato...: L’affermazione
appena riportata è significativamente simile a quella tante volte sentita a
proposito dell’aborto procurato, così com’è simile la conseguenza di cui s’è
detto: infatti anche nel caso di patologie
dell’embrione — ma ora in quello di quasi ogni gravidanza non
"pianificata" — la scelta standard, ovvia, è per
l’aborto procurato, mentre richiede giustificazione il suo rifiuto; questa è la
prassi ormai invalsa, anche a fronte di una legislazione la cui lettera suona
diversamente.
... e con la fecondazione
artificiale: Il
parallelo con la tragica realtà dell’aborto suggerisce di essere esteso a
quella della fecondazione artificiale, mostrando così ancora più in profondità
in che modo l’eutanasia sia radicata nella stessa
cultura abortiva e favorevole alla fecondazione artificiale.
Com’è noto, gli effetti di aborto e fecondazione artificiale sono diametralmente
opposti: nell’un caso una vita umana esistente viene soppressa, nell’altro
viene prodotta a ogni costo, su richiesta. Eppure una sola è la
mentalità e la cultura che a essi è favorevole: le due
pratiche sono addirittura connesse in una medesima procedura: infatti, la
pratica della fecondazione artificiale prevede, molto spesso, un intervento
abortivo nei confronti dei cosiddetti "embrioni soprannumerari":
merita di essere ricordato — di passaggio — che chi scrive, e chi legge, non è
stato nulla di più, né nulla di meno, di uno di questi embrioni
"soprannumerari".
In entrambi i casi infatti — aborto e fecondazione artificiale — quanto viene
eliminato o prodotto — secondo una logica tipicamente consumistica — è qualcosa
di completamente manipolabile — disponibile all’intervento dei "tecnici"
—, non qualcuno che ha una natura propria e dei diritti che gli devono
essere riconosciuti nella verità, e non attribuiti arbitrariamente.
La stessa duplice minaccia che incontriamo all’origine della vita fisica la ritroviamo al
suo termine: se l’eutanasia riproduce le condizioni dell’aborto — una vita
viene arbitrariamente eliminata —, è l’accanimento terapeutico a occupare il
posto simmetrico rispetto alla fecondazione artificiale: in questo caso un
intervento tecnico, non più guaritivo né curativo,
s’incarica d’impedire la morte, rimandandola nel tempo e affidandola, di nuovo,
a un altro intervento tecnico: si ripete così, per accanimento terapeutico ed
eutanasia, anche quell’unione procedurale che abbiamo visto legare fecondazione
artificiale e aborto.
L’accanimento terapeutico: Il tema dell’accanimento terapeutico —
della distanasia — richiede d’esser ora affrontato,
benché brevemente e nei soli aspetti essenziali; il discorso si disporrà così a un approfondimento degli aspetti etici coinvolti, che sarà
poi sviluppato di seguito.
Le capacità tecniche di
prolungamento della vita — di rianimazione — hanno suscitato e suscitano
numerose e cospicue perplessità in coloro che devono
decidere se, quando e in che misura ricorrervi. Si tratta,
questo è il problema, sempre d’interventi doverosi o no? E ancora: si configurano casi in cui il ricorrervi sia
addirittura contrario alla dignità del paziente? O il
non ricorrervi è invece praticare un atto eutanasico?
Com’è chiaro, si tratta di un
tema estremamente delicato, e alieno da ogni facile
generalizzazione: a volta a volta paziente, famigliari e medico dovranno
discernere se, e secondo quali modalità, intervenire.
È possibile tuttavia offrire
indicazioni generali per rilevare se la terapia attuata sia
proporzionata, o se configuri, appunto, un accanimento terapeutico. Anche in questo caso la già citata Dichiarazione
sull’eutanasia della Congregazione per la Dottrina della Fede offre
elementi di straordinaria chiarezza in un passo che conviene riportare per esteso:
"Ciascuno ha il dovere di curarsi e di farsi curare. Coloro che hanno
in cura gli ammalati devono prestare la loro opera con
ogni diligenza e somministrare quei rimedi che riterranno necessari o utili.
"Si dovrà però, in tutte
le circostanze, ricorrere a ogni rimedio possibile?
Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all’uso dei mezzi
"straordinari". Oggi però tale risposta, sempre valida in linea di
principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine
sia per i rapidi progressi della terapia. Perciò
alcuni preferiscono parlare di mezzi "proporzionati" e
"sproporzionati".
"In ogni caso, si
potranno valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il
grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le
possibilità di applicazione, con il risultato che ci
si può aspettare, tenuto conto delle condizioni del malato e delle sue forze
fisiche e morali" .
Il documento appena citato offre
poi ai pazienti e a chi se ne prende cura quattro importanti criteri per il
discernimento: "a) In mancanza di altri
rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso del malato, ai mezzi messi a
disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono allo stadio
sperimentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l’ammalato
potrà anche dare esempio di generosità per il bene dell’umanità.
"b) È anche lecito
interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le
speranze riposte in essi [...].
"c) È sempre lecito
accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può,
quindi, imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere a un
tipo di cura che, per quanto già in uso, tuttavia non è ancora esente da
pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale al suicidio: significa
piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di
evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati
che si potrebbero sperare, oppure volontà di non imporre oneri troppo gravi
alla famiglia o alla collettività.
"d) Nell’imminenza di
una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere
la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un
prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure
normali dovute al malato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di
angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza
a una persona in pericolo" .
La "morte
dolce" e il Magistero della Chiesa cattolica: La stretta e inscindibile connessione fra
suicidio ed eutanasia ha già indicato alcuni
presupposti di una cultura eutanasica e, in
particolare, una considerazione della persona umana come soggetto di un diritto
onnipotente sulla propria vita e sulla propria morte. La vita umana — per poter
ammettere l’eutanasia — deve essere considerata qualcosa alla mercé dell’uomo.
Proprio a questa profondità s’incontra un’insanabile opposizione fra una
considerazione della vita come dono di Dio, bene di cui l’uomo è beneficiario e
responsabile, ma non possessore, o della vita come accidente biochimico,
di cui ciascuno può disporre a proprio piacimento e irresponsabilmente.
In tal senso, la valutazione
etica del suicidio si può applicare all’eutanasia: essa si oppone direttamente
ai doveri verso Dio — Padrone e Signore della vita —, a quelli verso il
prossimo — nel caso dell’eutanasia, sia da parte di chi la richiede, sia da
parte di chi la pratica — e a quelli verso sé stessi.
Il Magistero della Chiesa da tempo è intervenuto estesamente e puntualmente in tema di
eutanasia.
Converrà ripercorrere i temi
principali di tale insegnamento leggendo alcuni brani dell’enciclica Evangelium vitae, in cui Papa Giovanni Paolo
II dedica a questa realtà un’attenzione tutta particolare.
Nel primo capitolo viene tratteggiato il contesto sociale in cui l’eutanasia
viene a tema: si tratta di un’"atmosfera culturale che non coglie nella
sofferenza alcun significato o valore, anzi la considera il male per
eccellenza, da eliminare ad ogni costo; il che avviene specialmente quando non
si ha una visione religiosa che aiuti a decifrare positivamente il mistero del
dolore.
"Ma nell’orizzonte
culturale complessivo non manca di incidere anche una sorta di
atteggiamento prometeico dell’uomo che, in tal
modo, si illude di potersi impadronire della vita e della morte perché decide
di esse, mentre in realtà viene sconfitto e schiacciato da una morte
irrimediabilmente chiusa ad ogni prospettiva di senso e ad ogni speranza".
Al terzo capitolo, e sottolineando la stretta connessione fra eutanasia, suicidio
e omicidio, il Sommo Pontefice scrive: "[...] il
suicidio è sempre moralmente inaccettabile quanto l’omicidio. La tradizione
della Chiesa l’ha sempre respinto come scelta gravemente cattiva [36]. Benché determinati condizionamenti psicologici, culturali e
sociali possano portare a compiere un gesto che contraddice così radicalmente
l’innata inclinazione di ognuno alla vita, attenuando o annullando la
responsabilità soggettiva, il suicidio, sotto il profilo oggettivo, è un
atto gravemente immorale, perché comporta il rifiuto dell’amore verso se stessi
e la rinuncia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le
varie comunità di cui si fa parte e verso la società nel suo insieme. Nel suo
nucleo più profondo, esso costituisce un rifiuto della sovranità assoluta di
Dio sulla vita e sulla morte, così proclamata nella preghiera dell’antico
saggio di Israele: "Tu hai potere sulla vita
e sulla morte; conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire" (Sap 16, 13; cf. Tb 13, 2).
"Condividere
l’intenzione suicida di un altro e aiutarlo a
realizzarla mediante il cosiddetto "suicidio assistito" significa
farsi collaboratori, e qualche volta attori in prima persona, di
un’ingiustizia, che non può mai essere giustificata, neppure quando fosse
richiesta. "Non è
mai lecito — scrive con sorprendente attualità sant’Agostino
— uccidere un altro: anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché,
sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l’anima
che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene; non è lecito
neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere". Anche se
non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell’esistenza di chi
soffre, l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante
"perversione" di essa: la vera
"compassione", infatti, rende solidale col dolore altrui, non
sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza. E tanto più
perverso appare il gesto dell’eutanasia se viene
compiuto da coloro che — come i parenti — dovrebbero assistere con pazienza e
con amore il loro congiunto o da quanti — come i medici —, per la loro
specifica professione, dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni
terminali più penose.
"La scelta
dell’eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su
una persona che non l’ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso. Si raggiunge poi il colmo dell’arbitrio
e dell’ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere
di decidere chi debba vivere e chi debba morire. Si ripropone
così la tentazione dell’Eden: diventare come Dio "conoscendo il bene e il
male" (cf. Gn 3,
5). Ma Dio solo ha il potere di far morire e di far
vivere: "Sono io che do la morte e faccio vivere" (Dt 32, 39; cf. 2 Re 5, 7; 1 Sam 2,
6). Egli attua il suo potere sempre e solo secondo un disegno di sapienza e di amore. Quando l’uomo usurpa tale potere, soggiogato da
una logica di stoltezza e di egoismo, inevitabilmente
lo usa per l’ingiustizia e per la morte.
"Così la vita del più
debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della
giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone".
La morte preparata, accolta e
superata: Il tema della
morte e del morire è stato il filo conduttore di questa ricerca; essa ne ha
esplorato peraltro un solo versante, quello del rifiuto della sofferenza e
della morte, che ha nel suicidio e nella pratica eutanasica
le sue espressioni più decise e paradigmatiche. Ma non
è l’unico itinerario consentito, né alla ricerca né — tantomeno
— al cammino dell’esistenza.
L’altro itinerario è di
preparazione alla morte. Esso non ha né la concitazione della fuga né
l’angoscia del terrore di fronte alla distruzione.
Gli sono invece consentite le movenze umili di un cammino d’incontro.
E la voce della lode: "Laudato si, mi Signore, per sora
nostra Morte corporale, / da la quale nullo omo
vivente po’ scampare. //Guai a quelli che morranno ne
le peccata mortali! // Beati quelli che troverà ne le
tue sanctissime voluntati,
/ ca la morte seconda no li farà male. // Laudate e benedicite mi Signore,
/ e rengraziate e serviteli cun
grande umiltate".