Gli Editoriali del Circolo “Anna Maoddi

a cura della Redazione Web

 

Perché la nostra è una scelta di Destra

di Alfredo Mantovano

Ad Alta Voce: Fini e la proposta di voto agli immigrati

Di Gustavo Selva

La seconda fase di An

di Adolfo Urso

Dopo il "crollo delle ideologie": la politica e il "ritorno al reale”

Di G. Cantoni

"Dal PCI al PDS": le tappe e i contenuti di una metamorfosi rivoluzionaria fino al 1994

di M. Invernizzi

Essere di “Destra”

di G. Cianciano

Dietro la barba di Castro

Di G. Cantoni

Thanatos ed eutanasia

di L. Cantoni

Equitazione per disabili

di A. Piu

 

PERCHE’ LA NOSTRA E’ UNA SCELTA DI DESTRA

La vicenda dell’immigrazione, in Italia e nel mondo, non tollera di essere sintetizzata in una o più fotografie, valide una volta per tutte. Merita di essere raffigurata, senza pretesa di esaurirla, per lo meno con un filmato.

E’ proprio del filmato articolarsi in scene e in contesti diversi: un anno fa la nuova legge sull’immigrazione, fortemente voluta dall’intera maggioranza e dal governo, ha iniziato a produrre i suoi effetti; ha, cioè, iniziato a modificare le scene di un lungometraggio che nel 2000 erano in buona parte diverse da quelle attuali: dove sono adesso, per fare qualche esempio fra i tanti, i gommoni che, col loro carico di clandestini e di disperazione, solcavano ogni notte il Canale d’Otranto?
Dove sono le carrette del mare che, partendo dai mari del Sud, attraversavano il golfo di Aden, e poi il Canale di Suez, e quindi arrivavano sulle coste dell’Italia meridionale, soprattutto calabresi?

Certo, esistono ancora gli sbarchi sulle coste meridionali della Sicilia e delle isole di Pantelleria e di Lampedusa: ma la quantità complessiva degli arrivi di clandestini è, grazie anche alla legge Fini-Bossi, notevolmente inferiore rispetto a due-tre anni fa.

E, per proseguire nel confronto fra scenari, quali immagini potevano raffigurare, prima di quella legge, il lavoro onesto ma irregolare di tante collaboratrici familiari o di tanti dipendenti di ristoranti e pizzerie?

Oggi queste persone, sempre in virtù di quella legge, pagano le tasse, ricevono i contributi e l’assistenza sanitaria: il tutto in un contesto di sicurezza, dal momento che hanno rilasciato le impronte digitali, così osteggiate a suo tempo dal Centrosinistra, e quindi sono identificati uno per uno.

Che significa tutto questo?
Significa che, mentre fino a un paio di anni fa l’esigenza più forte era di contenere l’emergenza, oggi l’emergenza è circoscritta territorialmente, temporalmente e quantitativamente.

Significa, quindi, che si può pensare ad altro; per esempio, a intensificare l’integrazione di coloro che sono entrati regolarmente, o hanno acquisito uno status di regolari con la Fini-Bossi.

Integrazione significa disponibilità di un alloggio decoroso – la nuova legge contiene prescrizioni precise in proposito -, rispetto delle nostre leggi, conoscenza della lingua, inserimento dei figli a scuola; significa anche interesse per le sorti della nostra comunità.

Perché, in questo quadro, scandalizzarsi di discutere, come ha chiesto il vicepresidente del Consiglio, di quell’ulteriore contributo all’integrazione costituito dal voto per le amministrative per chi abbia già un radicamento e una presenza stabile in Italia?

E sia, per esempio, in possesso della carta di soggiorno, che si può ottenere dopo almeno sei anni di presenza legale e continuativa.

È un passaggio intermedio verso il graduale e definitivo inserimento nella comunità nella quale lo straniero ha scelto di vivere, che vede come meta conclusiva il riconoscimento della cittadinanza.

È ben vero che una proposta del genere è stata avanzata negli ultimi anni dalla Sinistra; può aggiungersi che, dopo aver costituito oggetto di vari annunci, è stata riposta nel cassetto per l’incapacità della stessa sinistra di individuare una posizione unitaria in quello schieramento; ma pure per la consapevolezza che un passo del genere era impossibile nel momento in cui ci si dimostrava nei fatti incapaci di uscire dall’emergenza.

La Destra non deve aver timore di muovere dei passi significativi in questa direzione: ha titolo a farlo proprio perché può rivendicare i risultati di una politica per l’immigrazione regolare e contro quella clandestina la cui positività è sotto gli occhi di tutti.

Ha titolo a farlo perché, consapevole dell’impossibilità di frenare flussi migratori che esistono e non cesseranno, è altrettanto convinta della necessità di regolarli con raziocinio, come sta avvenendo.
Ha titolo a farlo perché non ha alcun complesso di inferiorità a rivendicare la propria identità culturale e di popolo: anzi, questo è necessario proprio ai fini di una corretta integrazione.
Il nostro obiettivo è la creazione di una società dove si possa convivere bene.

Non basta convivere da “separati in casa”, ma bisogna puntare ad una convivenza regolata e armoniosa.

Il punto di partenza per questa integrazione è una chiara affermazione dell'identità nazionale italiana.
Tale chiarezza è necessaria perché lo straniero deve conoscere l'entità nella quale chiede di volersi inserire.

In questo senso il Paese ospitante ha il dovere di manifestare con chiarezza la propria identità, per far crescere una società radicata nella propria tradizione e aperta alle altre.
Ci vorranno tempo e pazienza, ma se si rispetta la cultura del Paese ospitante e i ritmi necessari all'integrazione degli immigrati i risultati saranno soddisfacenti.

Questo vuol dire, per esempio, impegno perché nelle scuole gli extracomunitari studino l’italiano, invece dell’arabo; perché le moschee siano esclusivamente luoghi di culto, e non contenitori per forme di predicazione paraterroristica; perché i flussi di arrivo siano orientati sulla base di consonanze culturali che consentano una migliore integrazione; perché prosegua l’inflessibilità verso i clandestini e verso chi li sfrutta (confidando in decisioni giudiziarie non stravaganti: proprio ieri la Cassazione è arrivata a stabilire che un extracomunitario condannato per spaccio di droga non può essere espulso!).

L’ipotesi avanzata da Fini non rientra nel programma di governo?
Non vi rientrava neanche la legislazione contro il terrorismo internazionale: che tuttavia è stata varata a poche settimane dalla costituzione del governo Berlusconi perché nel frattempo c’era stato il crollo delle Twin Towers. Quanto all’immigrazione, il fatto nuovo, che impone una riflessione, è costituito dalla buona riuscita della politica dell’esecutivo, che sarebbe strano se fosse disconosciuta da chi dell’esecutivo è parte autorevole.
D’altra parte, era stata proprio la Lega ad annunciare l’opportunità di una riflessione ampia su questo tema, a distanza di un tempo congruo dall’entrata in vigore della nuova legge: è lecito al vicepresidente del consiglio apportare il suo contributo di idee e di proposte al dibattito su norme che al 50% portano il suo nome?

Certamente è lecito a una Destra per la quale la politica è al tempo stesso ragione e passione non restare affezionata a slogan suadenti o suggestivi, ma preoccuparsi, come forza di governo, delle prospettive future della nostra nazione: pur se questo costa discussione, confronto aspro e sforzo per farsi capire.
Ma proprio questi elementi consentono alla politica di avere un’anima.

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Ad Alta Voce:

“La proposta di Fini sul voto agli immigrati”

Cerco di fare in questa "mia" rubrica domenicale, il "punto" sulla proposta di Gianfranco Fini di riconoscere il diritto di voto per le elezioni amministrative agli immigrati, che hanno il permesso regolare di lavoro, che pagano le tasse, che mandano i loro figli nelle scuole italiane, e soprattutto che hanno dimostrato di rispettare le leggi per un periodo che non sarà mai inferiore ai sei-otto anni. Ho già detto in diverse dichiarazioni che approvo l’iniziativa di Fini, la considero sociale, moderna ed europea, e per An emblematica per il completamento del discorso aperto a Fiuggi, quando la Destra missina che aveva ancora qualche pulsione "antisistema" decise di fare propri i valori democratici e cristiani e liberali: il che non vuole dire politicamente democristiani, perché resta vero che, nella Prima repubblica, di quei valori il "consociativismo cattocomunista" fu esattamente il contrario.

L’iniziativa di Gianfranco Fini ha già ottenuto il risultato che il leader di AN si proponeva: vedere cioè se era giunto il momento di avviare un discorso serio e una proposta concreta, il che vuol dire per un parlamentare, con un seguito legislativo. L’accettazione del tema è venuta dallo stesso Silvio Berlusconi, naturalmente con la speranza, che à anche mia, che tutta la Casa delle libertà possa trovarsi d’accordo su un testo condiviso. Ma la risposta più convincente sul valore democratico, civile, sociale ed europea dell’iniziativa del leader di AN la danno i cittadini. Il 71 per cento degli italiani ritiene che alle condizioni previste da Fini, sia giusto che gli immigrati votino per il Sindaco e i consigli locali delle comunità dove lavorano.

Io non capisco perché Bossi non giudichi questa opinione che si è formata fra la gente (e soprattutto fra le donne) un frutto della legge che oltre a quello di Fini porta il suo nome. Questa legge ha regolarizzato quasi settecentomila immigrati clandestini. Un buon numero di questi fanno lavori che gli italiani non vogliono più fare, e da cui si deve desumere che questi immigrati non sottraggono posti di lavoro agli italiani: fra i regolarizzati c’è, poi, quella specialissima categoria di "badanti" per anziani e bambini, il che significa che nell’opinione di chi li assume, questi immigrati godono della massima fiducia se gli si affida la cura di persone certamente fra le più care e preziose della famiglia.

Ora questa fiducia si è rafforzata con i risultati ottenuti dalla legge Bossi-Fini: diminuzione dei numeri degli sbarchi clandestini, espulsione di quei clandestini che commettono reati, in virtù degli accordi che l’Italia ha sottoscritto con i paesi di origine. Ma soprattutto la maggiore garanzia di avere immigrati che non vengono in Italia per compiere atti criminali è data dal legame fra ingresso in Italia e preventivo contratto di lavoro, che è uno dei punti cardine della legge Bossi-Fini.

Lo so che questi risultati fanno meno notizia della vecchietta che viene scippata da un extracomunitario in un piccolo paese o nella periferia di una grande città; o degli spacciatori extracomunitari che creano la psicosi di una aggressività genericamente attribuita agli extracomunitari. Ma il loro numero fortunatamente è una percentuale bassissima rispetto a quanti lavorano regolarmente nelle nostre case, nei nostri campi, nelle nostre fabbriche, nei nostri negozi.

Non c’è dubbio che la proposta del leader di An ha anche uno scopo politico. L’extracomunitario non una cosa o soltanto un a merce: è una persona. E dovremmo saperlo noi italiani che per decenni siamo stati, in certe regioni specialmente, un popolo di emigrati verso la Germania, la Svizzera e il Belgio in Europa e verso gli Stati Uniti d’America e l’ America Latina fin da prima dell’unità d’Italia e verso il Canada e l’Australia nel secondo dopoguerra. E’ stata la Destra, con Mirko Tremaglia, a volere che le nostre leggi dessero il diritto di cittadinanza politica con il voto agli italiani all’estero come premessa per riconoscere agli extracomunitari analogo diritto di voto amministrativo in Italia.

Alcuni amici di An hanno detto che Gianfranco Fini ha preso questa iniziativa senza consultare nessuno e per la sua visibilità politica nella Casa delle Libertà. Non vi trovo nulla di male. La funzione di un leader è anche quella di aprire il dibattito, di indicare le soluzione legislative . Anche il momento è quello giusto per fronteggiare un alleato di governo come Bossi che un giorno spara contro "Roma ladrona", un altro propone di trasferire la capitale a Milano. Il leader di AN fa una proposta dopo avere maturato la convinzione che anche l’Unione europea va in quella direzione e a questa posizione Bossi replica minacciando di far cadere il Governo italiano. Un partito della coalizione deve rispettare gli accordi della coalizione; ma siccome è la stessa Lega a riconoscere che la proposta di Fini, come leader di An non fa parte del programma del governo, non si può impedire che il tema venga proposto per la seconda parte di questa legislatura agli alleati come programma di governo (se a Bossi come ministro va bene), con l’ovvia, banale considerazione che una legge diventa tale, solo a condizione che il Parlamento la approvi.

Naturalmente non mi nascondo dietro l’ipocrisia di un dito, dicendo che questa iniziativa di Fini ha un più ampio significato politico europeo. Agli amici di An dico che se il 71 per cento degli italiani vuole dare il voto agli immigrati regolari, significa che non sono soltanto a sinistra gli italiani che condividono questa idea di Fini. Credo, inoltre che dobbiamo avere più fiducia nella capacità dei programmi amministrativi e dei candidati della Casa delle Libertà (Lega compresa) di ottenere, domani, i voti dei nuovi elettori, immigrati in Italia.

L’iniziativa di Fini marca una presenza di An nell’ assetto politico della Casa delle libertà. Le idee ( e non parlo soltanto della per me modesta cosa che in sé e per sé è il voto amministrativo degli immigrati) che guardano il futuro assetto dell’Unione europea hanno tutte diritto di cittadinanza, purchè tendano a rafforzare i valori della libertà, della democrazia, della socialità. Se poi vogliamo che il riferimento alle radici cristiane dell’Europa sia iscritto nel preambolo della Costituzione europea, non vedo come possiamo alzare barriere fra vecchi e nuovi cittadini dell’ Unione Europea. Dobbiamo riconoscere che Gianfranco Fini sa di che cosa parla e dove vuole portare An come leader italiano della Destra e come costituente europeo. La vuole portare nel solco rinnovato delle radici cristiane e sociali del bavarese Stoiber (offro questa notazione al leghista, professor Albertoni) dei programmi liberali dello spagnolo Aznar e del francese Nicolas Sarkozy il cui giudizio sulla politica di Fini ha per me più valore di quello di Jean Marie Le Pen che ha lo sguardo politico rivolto al passato anche per la soluzione dei problemi che si annunciano nel futuro dell’Europa.

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La seconda fase di AN

Della necessità che An compia un ulteriore salto di qualità si parla da tempo.

Il tema domina il dibattito interno dalla fine dell'inverno scorso anche se soltanto di recente il partito è approdato alle prime scelte "operative" di rilievo per aprire la cosiddetta "seconda fase", attesa e sollecitata dalla quasi totalità di dirigenti e iscritti ma anche da molti osservatori esterni di prestigio.

Per inquadrare correttamente il problema, che non è soltanto organizzativo ma anche e soprattutto di rapporti con gli alleati della Cdl, bisogna fare un piccolo passo indietro. Tornare a due anni fa, all'atto di nascita dell'esecutivo Berlusconi. Ricordare i molti e diffusi pregiudizi che ancora circolavano nei confronti della destra e del suo ruolo di governo. Molti ritenevano (e si muovevano di conseguenza) che la presenza di An "nella stanza dei bottoni" potesse creare problemi. E ancora un anno fa c'era chi scriveva (e chi utilizzava certe analisi come alibi) che Fini non avrebbe potuto assumere direttamente la delega degli Esteri senza mettere a rischio le relazioni e gli interessi internazionali del Paese.
Oggi, i giudizi e le considerazioni sulla "affidabilità" della destra italiana sono radicalmente cambiati, in qualche caso addirittura ribaltati. Basta leggere ciò che scrivono i corrispondenti esteri dei principali quotidiani europei e americani, o chiedere alle cancellerie internazionali.

La destra, nella percezione "profonda" dei commentatori e degli analisti, quella che conta davvero perché crea opinione e consenso, non è più la zavorra del governo, ma semmai il suo "valore aggiunto".

La presenza della destra ai livelli decisionali del Paese non è "il problema" del governo ma, in molti casi, "la soluzione".

E Alleanza nazionale è agli occhi di molti la componente della Cdl più credibile ed equilibrata, quella su cui fare perno ogni qual volta la necessità del dialogo e della ragionevolezza diventa imperativa.
In buona parte questo merito va iscritto alla ottima prova data dalla nostra delegazione al governo.

In tutti gli ambiti, anche in quelli più difficili, dall'ambiente all'agricoltura, dagli esteri al commercio estero e certamente agli italiani nel mondo, non mancano i giudizi positivi, spesso in controtendenza rispetto a quelli attribuiti agli esponenti di altre formazioni.

La destra al governo ha dimostrato di essere all'altezza della situazione, più e meglio di altri, esercitando un ruolo positivo, anche se da posizioni oggettivamente meno visibili e rilevanti di quelle attribuite ad altri partner.
E' da questa valutazione che partiamo quando affermiamo che dalla "destra al governo" è necessario passare al "governo della destra". Non è uno slogan o un gioco di parole, ma la sintesi di un progetto politico a tutto tondo.

Da un governo che vede la partecipazione dei ministri di An (spesso, però, in capitoli non decisivi), ad un governo che "sappia" di destra.

Da una coalizione che si è qualificata per una generica tensione al cambiamento, a un progetto di modernizzazione fortemente caratterizzato dai nostri valori.
Tocca ad An, a nostro avviso, imprimere all'alleanza e al governo una nuova spinta propulsiva, quella che altri sembrano aver smarrito nella routine dell'ordinaria amministrazione o nelle difficoltà degli equilibri interni. Tocca ad An caratterizzare la nuova fase della legislatura nel segno di riforme sociali ed economiche che, insieme con quelle istituzionali, sappiano cambiare gli assetti di potere e adeguare ai tempi il Paese.

La destra, la nostra destra, non è giunta al governo per un accidente della storia ma per cambiare la storia.

Abbiamo creato un nuovo partito e inventato un nuovo modello politico che è diventato modello in Europa, forgiando un bipolarismo diverso e più motivato.
Ora, occorre andare avanti, porsi ulteriori obbiettivi.

Imprimere una accelerazione riformista alla politica del governo e aprire un nuovo capitolo a livello europeo.
Nel primo ambito, è necessario sfuggire all'ipoteca leghista che sembra determinare oltre ogni ragionevole misura tutte le scelte di rilievo, da quelle istituzionali a quella delle riforme nel settore economico e previdenziale, in un'ottica valligiana che non vede oltre i propri colli.

E c'é da chiedersi se non sia giunto il momento di chiedere una revisione degli assetti di governo, secondo una logica "premiale" che troppe volte è stata evocata senza poi mai essere attuata.

 An ha il diritto e forse anche il dovere di reclamare posizioni che possano permetterle di incidere in modo significativo sulle decisioni di fondo dell'esecutivo - pensiamo alla politica economica, ma anche ai grandi temi della sicurezza e della giustizia - imprimendo quell'accelerazione riformista di cui abbiamo parlato.

E poi, per dirla tutta, non si è mai vista tanta concentrazione di potere nella mani dello stesso partito, senza peraltro riscontrare grandi e significativi risultati.
Quanto allo scenario europeo, è necessario capire come sia possibile "capitalizzare" l'ottima prova di Fini nella Costituente senza perdere i risultati conseguiti, tra mille difficoltà, con la riunificazione delle destre democratiche nel gruppo dell'Europa delle Nazioni.

Qualcuno parla di "listone" del Polo o anche addirittura di un'unica lista Fi-An, senza Udc e Lega, per la prossima competizione per l'Europarlamento.

C'é da chiedersi innanzitutto a quale fine e a quale percorso politico risponderebbe questo "esperimento".

Ogni scelta in materia elettorale non è priva di conseguenze, e certamente non lo sarebbe una decisione di questo tipo, che rappresenterebbe una nuova svolta di rilievo dopo quella che dieci anni fa, proprio in queste settimane, diede vita ad An e al Polo delle libertà.

Noi non siamo pregiudizialmente contrari, ma vogliamo capire, e bene, soprattutto quali sono o potrebbero essere le prospettive successive a un eventuale "listone".

In che direzione ci porterebbero, quali scenari potrebbero determinare a livello continentale.

Abbiamo costruito un grande partito che sta segnando la storia dell'Europa.

Nessuno ce lo ha regalato. E' il frutto sofferto del lavoro e delle speranze di milioni di persone.

Anche a loro, soprattutto a loro, dobbiamo rendere conto, perché è giusto così ed è in questi passaggi che si misura una vera classe dirigente.
Parliamone dunque. Alla luce del sole. Anche a questo ha contribuito il meeting promosso dalle tre riviste che da anni tengono alto il livello delle riflessioni, delle analisi, delle proposte della destra italiana: "Area", la rivista della destra sociale, "Percorsi" con il suo patrimonio neo-conservatore, e la nostra "Charta", che cerca sempre nuove frontiere. Tre esperienze politiche e culturali che hanno certamente molto in comune: laboratori di idee e non mere congreghe di componenti; luoghi dove si misurano (e crescono) le classi dirigenti, non solo circoli di potere.

L'appuntamento era fissato per Fiuggi, ancora una volta Fiuggi, una località indissolubilmente legata alle "grandi scelte" della destra italiana.

Siamo certi che in molti hanno gradito il nostro invito a riflettere. Per poi decidere. Insieme e motivati.

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Equitazione per disabili

Dalla sedia a rotelle al cavallo: sembrerebbe una soluzione impossibile, una utopia.
Ed invece già gli antichi Ittiti avevano capito che si poteva utilizzare il cavallo per uso terapeutico, tanto che furono i primi autori di un trattato sull’equitazione come metodo rieducativo.
Successivamente, nel 478 a.C., Ippocrate prescriveva l’equitazione per curare l’insonnia ed Asclepiade di Frusa nel 124 a.C. indicava tale terapia per combattere l’epilessia e vari tipi di paralisi.
Nell’era moderna l’ippoterapia fu introdotta per la prima volta nei Paesi Scandinavi circa 70 anni fa, ed in seguito è stata praticata in Inghilterra ed in Francia. Oggi ben 25 nazioni dentro e fuori l’Europa l’applicano per scopi terapeutici. Attualmente l’Italia è presente con decine e decine di Centri che operano su tutto il territorio, ma purtroppo tale metodologia è stata quasi sempre dimenticata dai mass-media.
Pionieri dell’ippoterapia nel nostro Paese sono stati i medici Luciano CUCCI e Neri COPPONI che nel 1976 hanno implementato il primo centro di riabilitazione in un maneggio di Buccinasco, alla periferia di Milano.

Oggi i ragazzi portati di handicap fisici e mentali trattati con l’ippoterapia nel nostro Paese sono ormai alcuni migliaia. Durante la seduta di riabilitazione, i cavalli vengono, in un primo momento, condotti al passo dai terapisti, in questa fase si utilizzano le qualità naturali del cavallo, il ritmo, il movimento sinusoidale dell’animale la sua corporeità.
Nella seconda fase della riabilitazione equestre vengono introdotti esercizi specifici, mirati all’handicap di cui è portatore il soggetto in terapia, con l’obiettivo di favorire la coordinazione dei movimenti, l’orientamento nello spazio, la creazione di una positiva immagine mentale del proprio corpo, con evidenti ripercussioni sul proprio sé psichico. Infine l’allievo viene spinto ad interessarsi del governo del cavallo, comunicando con esso per mezzo degli ordini che gli impartisce.
Questa fase aiuta soprattutto la socializzazione e serve come chiave di apertura di rapporti interpersonali con il mondo esterno. A conclusione di quest’ultima fase, sovente il portatore di handicap è stato felicemente inserito nelle lezioni collettive di equitazione di un normale maneggio.

Uno studio catamnestico è stato recentemente effettuato dall’equipe tecnico-scientifica dell’Anire, attraverso un “ set-up” di valutazione psicologica e comportamentale, comprendente una griglia di valutazione neuromotoria, l’analisi dei tempi di attenzione, l’applicazione dei testi dei labirinti e mediante colloqui con i genitori di 100 soggetti portatori di handicap.
Nella maggioranza dei casi si è evidenziato un miglioramento neuromotorio, sull’allineamento, sul controllo delle sinergie globali, sui processi di contrazioni e sull’equilibrio statico e dinamico.

A livello neuropsicologico si è rilevato un aumento dei tempi di attenzione, una maggiore capacità di organizzazione spaziale e quindi di orientamento, una maggiore capacità esecutiva, oltre ad un aumento della capacità espressiva, dell’esecutività e di una migliore canalizzazione dell’aggresività.

A differenza dell’esercizi che si svolgono in palestra a scopo terapeutico, la terapia equestre coinvolge il paziente in quanto egli trova un fine ai suoi movimenti: montare a cavallo, imparare a guidarlo, a tenere le redini, oltre a trovarsi in un ambiente più gradevole rispetto ad una asettica stanza di ospedale o di una normale palestra per riabilitazione.
Proprio per questo motivo la rieducazione equestre riesce ad ottenere gli stessi risultati che si ottengono in palestra, ma con tempi estremamente ridotti.
L’ambiente più salubre e più gradevole dei centri ippici hanno altresì il vantaggio di invogliare i familiari ad accompagnare il paziente, facilitando ulteriormente l’incontro e la socializzazione tra portatori di handicap e normodotati. Inoltre, al disabile in sella ad un cavallo vengono riconosciute delle capacità prima sottostimate.

Egli infatti dimostra di saper fare uno sport e, per la prima volta, può guardare la gente dall’alto verso il basso, e non viceversa, come è condannato a fare stando seduto su una sedia a rotelle. Il cavallo, inoltre è il simbolo “ futurista” di libertà, di velocità e quindi cavalcando, il ragazzo lo considera quasi come il prolungamento del proprio corpo, può camminare finalmente senza il mezzo che lo fa più vergognare, la “carrozzella” e soprattutto senza accompagnatori, si sente finalmente autonomo.
Si auspica che in breve tempo gli Enti e le strutture sanitarie nazionali e locali possano favorire lo sviluppo e l’utilizzo di questo tipo di terapia che, pur non provocando guarigioni miracolose, regala magici momenti di felicità a chi non ha occasioni per essere felice.

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Essere di Destra

Che cosa vuol dire essere di destra? Una delle caratteristiche più importanti della Destra è il modo di affrontare il tema dell'eguaglianza.  La Destra condanna l'eguaglianza sociale, intesa come omologazione spregiudicata, in nome di una diseguaglianza naturale in base alla quale nasciamo con diverse capacità e attitudini per le quali dobbiamo essere considerati, in modo diverso. Tutti nasciamo diversi ma dobbiamo avere le stesse possibilità economiche e culturali di poter spiccare all'interno della società. Pertanto la Destra crede in una giustizia sociale attraverso la quale ogni persona meritevole va premiata. Prendendo questo come punto di partenza per rispondere alla nostra domanda sull'essenza della Destra, ci troviamo già di fronte  ad alcuni dei valori che ci contraddistinguono. Il merito è, per noi, il principale metro per giudicare le persone e attraverso ciò giungiamo alla più vasta concezione di meritocrazia. Non possiamo essere d'accordo con chi dice "siamo tutti uguali", con chi schiavo del conformismo, ci vuol portare al "livellamento" degli uomini cancellando così la valorizzazione delle capacità di ogni singolo uomo. E' proprio tale valorizzazione delle qualità che ci contraddistingue. Insomma, chi merita deve essere premiato perché è giusto e serve da stimolo all'uomo per farlo impegnare nel miglioramento della società. Elemento importante della Destra è la concezione dell'uomo e della famiglia. L'uomo è l'entità prima della nostra società. A partire dal singolo si arriva di conseguenza a parlare della famiglia come di una società naturale, di una società più piccola. Il rispetto alla famiglia è dovuto quindi non solo perché dettato dal buon senso, ma anche perché il nucleo familiare è il punto di partenza di ogni giovane per entrare a far parte della società. Ovviamente l'educazione dettata dalla famiglia risulta essere così di fondamentale rilievo. Dalla singola persona, dalla famiglia, si passa al rispetto della società in cui viviamo e al rispetto quindi delle istituzioni in generale. Rispetto però non vuol dire per noi accettazione passiva; la nostra è una presenza attiva, uno strumento di stimolo , di continuo miglioramento del paese in cui viviamo. Essere di destra vuol dire affrontare una perenne battaglia con se stessi alla ricerca di un qualcosa che sottolinei il valore dello spirito in contrapposizione al materialismo imperante. Essere di destra vuol dire difendere le proprie idee basandosi su valori eterni preservandoli anche in una società che li calpesta.  Essere di destra vuol dire avere una coscienza sociale che spinga verso la realizzazione di un mondo più vivibile, di un mondo con un nuovo ordinamento, di un mondo dove valori, civiltà e tradizione si incontrino. La destra per cui ogni giorno lottiamo è una destra nuova, moderna, impegnata nel sociale per risolvere i problemi delle persone comuni, una destra che vive a contatto con la gente, una destra che crede nella libertà d'impresa ma non nelle concentrazioni di capitale o nei monopoli, una destra che garantisce rigore economico ed equità.
Questa è la risposta alla domanda d'inizio articolo. Essere di destra vuol dire tutto questo.

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Dietro la barba di Castro:

qualche istantanea di un regime socialcomunista vigente

Da sempre corre in Italia un giudizio superficiale a proposito del socialismo reale iberoamericano, considerato come una versione debole di tale regime, neppure lontanamente paragonabile alle sue modalità tedesca o slava. Questo abbaglio interpretativo è stato incrementato dal cosiddetto crollo del Muro di Berlino, cioè dall’inizio della metamorfosi dell’impero socialcomunista mondiale, sì che il giullare di una superpotenza — così pensano molti —, scomparsa la superpotenza, è a maggior titolo solo e semplicemente un giullare, da non prendere sul serio all’estero in quanto incapace di far gran male anche all’interno. Poiché, tragicamente per i cubani, le cose stanno molto diversamente, e poiché nella mitologia dei nostalgici rossi — soprattutto di quelli di area cattolica, fra i quali anche soggetti in significativa posizione gerarchica — il dottor Fidel Castro Ruz è l’astro centrale di una costellazione di cui si auspica il levarsi tempestivo all’orizzonte prima che l’umanità tutta precipiti nelle tenebre del consumismo, credo valga la pena di dotarsi di qualche informazione sulla situazione cubana. Ma, poiché ricostruirne brevemente la storia significa esporsi all’accusa di aver operato una selezione maliziosa dei fatti, e poiché la ricostruzione potrebbe essere soltanto breve, presento un identikit di tale situazione attraverso flash, attraverso informazioni giornalistiche e dichiarazioni — tutte successive al 1989 —, altrettanti punti che, collegati dal lettore come in una enigmistica pista cifrata, permettono di cogliere, dietro la maschera carnevalesca, il ghigno della morte. E la strumentazione mi viene offerta soprattutto da un articolo che ha come sottotitolo La situazione cubana in pillole. Senza commenti, comparso sulla rivista Tradición Familia Propiedad, organo della Sociedad Chilena de Defensa de la Tradición, Familia y Propiedad, nel fascicolo n. 98, dell’ottobre 1996 e in corso di diffusione nel paese andino 

Aborto, suicidio e prostituzione: "La promiscuità di adolescenti e di giovani promossa dal governo comunista fa perdere loro il senso della moralità — afferma S. E. mons. Eduardo Boza Masvidal, vescovo cubano in esilio —. L’aborto viene praticato ampiamente con il pieno appoggio del governo. Un terzo delle giovani fra i 15 e i 19 anni hanno fatto almeno un aborto. In totale, ogni dieci nascituri, sei vengono abortiti. È la maggiore percentuale dell’emisfero e forse di tutto il mondo"; e ancora: "Si calcola che solamente all’Avana vi siano circa 35.000 prostitute, che trasformano Cuba nel paradiso del turismo sessuale. Per il governo, se entrano dollari, siano benvenuti, anche se a costo della dignità della donna cubana. Cuba ha pure il livello più elevato di suicidi dell’emisfero" . ""Fra altre ragioni, Cuba ha fatto la rivoluzione per non essere più il bordello degli Stati Uniti. C’è riuscita, ora siamo il bordello dei messicani, degli spagnoli e dei tedeschi, che organizzano sex-charter diretti all’isola", esclama angosciato un rappresentante dell’agenzia turistica Habanatour" 

Casa: "Vi sono 55.000 abitazioni che, se non vengono riparate immediatamente, entro pochi mesi dovranno essere fatte evacuare [...]. Soltanto il 55% delle case dell’Avana riceve acqua potabile direttamente, ma con interruzioni dovute a guasti. La mancanza di energia elettrica e il cattivo stato delle tubature fa sì che l’acqua potabile si mescoli con le acque di fogna. Il cattivo stato delle case produce un pericolo strutturale di crollo, la possibilità di incendi a causa di corti circuiti è aumentata dalla mancanza improvvisa di illuminazione, dal momento che l’interruzione e il ritorno dell’energia elettrica sovraccarica sempre le linee o i fili conduttori nelle case" (Diario Las Américas, Stati Uniti d’America, 29-10-1995). "Se l’Avana era in uno stato d’abbandono, ora è in agonia. [...] Il deterioramento urbano è solo il riflesso della distruzione di una società" (El Semanal, Spagna, 5-11-1995).

 Istruzione universitaria solo per i sostenitori della Rivoluzione: "Il governo cubano ha deciso che nelle università di Cuba verranno ammessi solo gli studenti che dimostrano di difendere la rivoluzione "nelle idee e nelle strade". "Sì", ha risposto senza incertezza il ministro dell’Educazione Superiore di Cuba, Fernando Vecino Alegret, quando il suo intervistatore gli ha chiesto se entreranno all’università solo i partigiani della rivoluzione. "Anche se talora in questo vi è trascuratezza, si tratta di un principio conquistato, al quale non rinunceremo"" (La Nación, Costa Rica, 11-9-1994). 

Medicina d’avanguardia solo per stranieri: ""Il luogo ideale per la vostra salute", recita l’invitante pieghevole propagandistico di SERVIMED, organismo incaricato di promuovere il turismo sanitario a Cuba. La visita alle installazioni è allettante: cliniche dotate di materiale ultramoderno, chirurghi e medici di alto livello, camere ultraconfortevoli. Le autorità hanno deciso di utilizzare i propri settori d’avanguardia per far entrare valuta estera. Mentre i cubani devono far fronte a una grave penuria di medicinali e sono costretti a ricoverarsi in ospedali nei quali la mancanza di detersivi fa sì che le misure igieniche più elementari non vengano rispettate" (Le Figaro, Francia, 22-9-1995). 

Trapianti di tessuto cerebrale di feti appena abortiti: "Per assicurare al governo preziosa valuta estera, una dottoressa cubana sarebbe stata costretta a eseguire trapianti di tessuto cerebrale di feto, ottenuto da aborti appena fatti, su ricchi pazienti stranieri affetti dal morbo di Parkinson. Lo ha scritto ieri il quotidiano britannico Indipendent in una corrispondenza dall’America Latina basata sulle confessioni della dottoressa Hilda Molina, la quale ha personalmente eseguito i trapianti, che fruttavano al governo fino a 20.000 dollari ciascuno" (la Repubblica, Italia, 13-8-1995). Si tratta di trapianti contrattati con l’azienda del turismo statale. "Secondo la dottoressa Hilda Molina Morejón — che ha abbandonato la pratica di questo delitto e Cuba dopo essersi convertita al cattolicesimo —, gli interventi chirurgici sono combinati attraverso l’azienda turistica statale Cubanacan, che introita quanto rendono gli interventi. Le donne che abortiscono non verranno mai informate sul destino dei feti" (O Globo, Brasile, 28-7-1995). 

Economia: "Superinflazione e deficit sono in ultima analisi i principali risultati della politica castrista, che affossa sempre più l’economia. Riassuntivamente, "il 70% degli impianti industriali dell’isola è paralizzato, la produzione agricola è diminuita di un 50% rispetto al 1989 e i servizi pubblici hanno subìto una contrazione di circa un 50%"", afferma il professor Antonio Jorge, economista della Florida International University, che conclude: "Perciò è evidente che il disastro finanziario è irreversibile e completa la catastrofe della ormai disastrosa crisi dell’economia reale del paese" (Dinero, Colombia, marzo 1996). 

Furto, fame, schiavitù e repressione: pilastri del "socialismo di mercato": "A Cuba rubano tutti e tutti parlano di cibo. Il furto, la fame, la schiavitù e la repressione sono i pilastri del "socialismo di mercato" di Fidel Castro. A Cuba è in vendita tutto, anche i giovani corpi dei figli della rivoluzione, ma i cubani comuni non partecipano e non traggono beneficio dal socialismo di mercato del regime di Castro" (Dinero, Colombia, marzo 1996). 

L’"embargo" e il fallimento del sistema: "Il blocco degli Stati Uniti contro Cuba è stato un fallimento totale perché è eluso da molti paesi, comunque la colpa della povertà e delle limitazioni vissute a Cuba è dell’amministrazione pubblica che non ha avuto successo", ha affermato S. E. mons. Alfredo Petit Vergel, vescovo ausiliare dell’arcidiocesi dell’Avana in un’omelia pronunciata a San José de Costa Rica nel 1995: "Mons. Petit ha dichiarato che, purtroppo, la verità di quanto accade a Cuba non è nota perché si fa una grande propaganda a favore del governo cubano, rafforzata dal fatto che vengono invitati stranieri, che sono ospitati in buoni alberghi e si mostra loro un paese irreale. Con molta fermezza ha detto di essere disposto a sostenere in qualsiasi luogo la sua opinione sul fatto che il popolo è stato sprofondato nella miseria e nelle privazioni dai fallimenti dell’amministrazione governativa"; "[...] se Cuba sta godendo di una quantità inaudita di investimenti stranieri, agli abitanti dell’Avana non è giunto nulla dello sviluppo economico che si dice venga prodotto da questi investimenti"; "i "soci" e gli "amministratori" di tutte le imprese miste sono scelti e approvati personalmente dal comandante [Fidel Castro]. Inoltre i lavoratori sono selezionati e approvati dallo Stato cubano e controllati continuamente nel loro lavoro dal sistema di sicurezza del regime. Gli stipendi e i salari pagati a questi lavoratori cubani sono percepiti in dollari dal regime di Castro, che poi "paga" in pesos al tasso ufficiale, mettendosi in tasca 84 centavos per ogni dollaro (cioè il regime confisca l’84% del salario). A questo riguardo, il mercato del lavoro di Castro somiglia più alla servitù contrattata oppure alla schiavitù che all’economia di mercato" (Eco Católico, Costa Rica, 16-4-1995). 

Oppressione: Secondo esponenti della Junta Patriótica Cubana, "a Cuba sono stati fucilati più di 48.000 cubani, mentre nelle prigioni comuniste sono passati più di 400.000 cubani e cubane come prigionieri politici"; e un milione e mezzo di cubani, su una popolazione stimata in circa undici milioni, vive in esilio. "Cuba è uno Stato poliziesco con una struttura repressiva modello. Neppure le nazioni dell’Europa Orientale hanno raggiunto l’estensione e l’efficacia della polizia politica cubana, forse con l’eccezione del KGB: la polizia politica cubana è di una perfezione insospettata. Lo Stato poliziesco cubano ha creato una rete di vigilanza come non vi è stata in nessun altro paese del "socialismo reale": i Comitati di Difesa della Rivoluzione (CRD). [...] Le condanne a lunghi anni di prigione per "delitti" che non sono tali in nessun altro luogo hanno riempito le carceri di prigionieri politici. Inoltre, vi è la punizione "civile": perdita del lavoro, della possibilità di studiare, del diritto al miglioramento sociale, oltre a essere un perpetuo appestato sociale e a essere permanentemente sorvegliato" (Diario 16, Spagna, 14-5-1991). 

Un programma per mantenere Fidel Castro al potere e per ottenere dollari: "Il socialismo di mercato non è un programma economico per riformare Cuba, ma un programma politico per ricuperare la rivoluzione cubana e perpetuare il potere assoluto di Fidel Castro" (Dinero, Colombia, marzo 1996). "I cambiamenti attuali sembrano far parte di un piano d’insieme destinato a far circolare esclusivamente dollari nel paese e a venderlo al miglior offerente [...] il turismo sessuale costituisce l’attrazione principale di Cuba [...] la maggioranza della popolazione è letteralmente esasperata per la fame, e non migliora la situazione l’annuncio che centinaia di migliaia di posti di lavoro verranno soppressi" (Le Monde, Francia, 4-2-1995). 

La solitudine dei cubani: Concludo con un’ultima citazione, ancora di mons. Eduardo Boza Masvidal: "Sentiamo la grande solitudine in cui si trova il popolo cubano nella lotta per la vita e per la libertà. Sembra l’unico popolo nella nostra America senza il diritto a esser libero e per il quale non esista il tanto richiamato rispetto all’autodeterminazione dei popoli" (19).

Vogliamo lasciarlo solo nella lotta per la vita e per la libertà oppure schierarci al suo fianco, capendo che — anche senza particolari altruismi ed eroismi — la sua vita e la sua libertà non sono estranee alla nostra vita e alla nostra libertà?

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Dopo il "crollo delle ideologie": la politica e il "ritorno al reale" 

L’avvenimento di maggior rilievo politico nella storia contemporanea è per certo costituito dall’implosione del sistema imperiale socialcomunista, avvenuta nel 1989. Tale rilievo è fondato sul fatto che detto sistema imperiale è stato la realizzazione politica di maggior mole che la memoria storica ricordi, favorita e accompagnata dall’uso terroristico della strumentazione tecnologica dello sviluppo materiale dell’umanità, nucleare non escluso. Il crollo "misterioso" di tale sistema imperiale — misterioso perché ne sono ignote cause adeguate, dal momento che tutte quelle consuetamente addotte non sono tali da rendere globalmente ed esaurientemente conto dell’esito catastrofico, almeno in una prospettiva monocausale — ha prodotto un effetto liberatorio sullo stato psicosociale dell’intera umanità, allontanando il terrore della catastrofe nucleare.

Ma lo stato d’euforia seguito a tale crollo non ha favorito e non favorisce la riflessione sui fatti, non solo sull’implosione ma sul suo soggetto, il sistema imperiale in questione. Così non si apprezza adeguatamente che il sistema imperiale socialcomunista era un’ideocrazia, cioè l’intronizzazione istituzionale, l’istituzionalizzazione di un’ideologia, di una visione del mondo distorta in quanto incentrata su una verità parziale, la cui metafisica è un’utopia. Così si dimentica che un articolo della Costituzione sovietica degli anni 1930 recitava essere il Governo dell’URSS una cellula del PCUS, il Partito Comunista dell’Unione Sovietica; e che le vittime enumerate nel macabro inventario eretto nel 1997 da un gruppo di storici francesi, Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, non sono soprattutto oppositori attivi e a mano armata del regime ideocratico, ma principalmente oppositori passivi, cioè componenti della società che non si adattavano al progetto ideologico: per dirla con Dante, "materia [...] sorda" "a l’intenzion de l’arte" utopica.

Così, soprattutto, non si coglie che l’implosione del regime socialcomunista — nel suo principale focolaio nell’Europa Orientale e in sue rilevanti metastasi in tutto il mondo — mette in questione, con effetto domino, ogni istituzionalizzazione ideologica, quindi l’istituzionalizzazione di ogni ideologia. Dunque, tale implosione non costituisce assolutamente la vittoria della manipolazione ideologica della libertà, cioè dell’ideologia "liberale" sul socialcomunismo, ma la vittoria del reale — certo meno gravemente offeso nella prospettiva ideologica liberale che in quella socialcomunista, ma non perciò non offeso — su ogni ideologia.

Perciò, al proposito — proprio di ogni ideologia — di "ri-creazione" del reale "sbagliato", il crollo del sistema imperiale socialcomunista offre la possibilità e suggerisce la doverosità di sostituire il proposito del rilevamento, della gestione e del miglioramento dell’esistente. La formula suona di profilo basso, e in un orizzonte non troppo lontano sembra fare la sua comparsa la riduzione della politica all’amministrazione. Questa percezione scorretta è anzitutto alimentata dal fatto che tutti — piaccia o no — fuoriusciamo da una temperie culturale caratterizzata dal gramsciano "tutto è politica" ; quindi che il crollo delle ideologie istituzionalizzate e totalitariamente onnipervasive viene colto come la fine della realtà stessa, delle idee e degli ideali. Per contro, la fine delle ideologie è fine della scorretta allocazione gerarchica delle diverse realtà manipolate appunto ideologicamente o della loro traumatica mutilazione, non assolutamente fine delle realtà stesse: per tutte le ipotesi, per esempio, la fine della lettura economico-classista della storia non è assolutamente fine delle classi sociali, della rilevanza della vita economica né, tantomeno, la dichiarazione della sua irrilevanza in nome di un mal inteso "spiritualismo"; inoltre, l’attenzione alla realtà, la "contemplazione" della realtà piuttosto che la sua aggressione o mutilazione ideologica informa sia sullo stato, sulla condizione storica della realtà stessa, che sul suo essere, sulla sua natura, nonché — in ultima analisi — sul da farsi a suo proposito. Infatti, da un canto lo stato, la condizione della realtà, si ricava dalla sua descrizione che, nel caso della società, è descrizione sociologica; d’altro canto, la natura dell’uomo e della società, dicendo esplicitamente o almeno suggerendo il loro rispettivo essere alimentano le idee così che — infine — lo scarto fra l’esistente e l’essere, fra l’"essere" e il "dover essere", definisce e permette d’identificare l’ideale verso cui orientare organizzativamente l’esistente favorendo il suo svolgimento, il suo sviluppo verso la sua perfezione, ma — previamente e principalmente — non opponendo ostacoli a tale sviluppo.

Segni non equivoci, benché ancora nelle intenzioni, dell’indispensabile "ritorno al reale" , della "conversione alla realtà", si possono felicemente cogliere nel documento predisposto per la Conferenza Programmatica di Alleanza Nazionale, organizzata a Verona marzo 1998. 

"Nel suo realismo — si legge nella premessa di tale documento, I valori e gli strumenti, al paragrafo 2, Costruire il Sistema Italia, che costantemente la distingue dagli utopismi più o meno mascherati delle forze politiche e sociali a vario titolo "progressiste", la Destra diffida di quanti, in nome di "altruismi" ideologicamente motivati e quindi per ciò solo sospetti, intendono imporre agli esseri umani dall’alto, dal basso o comunque dall’esterno, le loro teste, volontà, intelligenze, aspettative, progettualità ai progetti, volontà, teste, aspettative, intelligenze degli uomini nella loro ricca e articolata pluralità. Alla Destra invece basta — e sarebbe già molto, e in tal senso intende lavorare — che la rete istituzionale, amministrativa, educativa, normativa, fiscale, invece di costituire un ostacolo, sia organizzata e tessuta in modo da rappresentare appunto un’opportunità" (8). Ancor più qualificante è quanto scritto nella parte seconda, Popoli, conoscenza, identità tra innovazione e tradizione, al paragrafo 1, Dignità della persona, dignità della Nazione: "[...] la Destra predilige per sua scelta fondante il principio di realtà rispetto al principio di utopia, e insieme il gradualismo rispettoso del dato empirico di fronte ai massimalismi delle suggestioni a vario titolo rivoluzionarie e drasticamente novatrici" .

La linearità e la puntualità dell’asserto — che ha il tono di una degnità vichiana — garantisce non solo dell’intenzione, ma lascia anche ben sperare circa la capacità di superare ogni residuo ideologico — il crollo dell’ideologia istituzionalizzata inteso come sconfitta dell’ideologia "altrui" e come occasione storica per la realizzazione della "propria" — e di affrontare coraggiosamente il mare "fra il dire e il fare". E — sia chiaro — l’eventuale fallimento o incompletezza del tentativo non lo condanna in modo definitivo — "la disperazione [...] in politica mi pare un’autentica mostruosità", scrive correttamente Charles Maurras —, ma aggiorna semplicemente il ritorno al reale, con svantaggio sempre maggiore per i ritardatari mentre il reale stesso continua ad attendere pazientemente. Ma, con tutta franchezza, non vedo perché farlo ancora aspettare e non "rimettere" veramente "in cammino la speranza".

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"Dal PCI al PDS": le tappe e i contenuti di una metamorfosi rivoluzionaria fino al 1994

Che cos’è il PDS, la nuova "cosa" nata dal PCI, il Partito Comunista Italiano, dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989?

Si tratta di comunisti rimasti tali, ma costretti a cambiare il nome e il programma per mantenere un consenso eroso dal fallimento del socialismo reale?

O è il frutto di un mutamento reale, cioè di un ritorno ai princìpi della Rivoluzione francese, che non si sarebbero inverati in quella d’Ottobre, e quindi della ripresa del tentativo di coniugare libertà e uguaglianza senza sacrificare nessuna delle due?

O, ancora — e sempre nell’ipotesi del mutamento reale —, si tratta della conseguenza politica della vittoria culturale del "pensiero debole", e quindi della nascita del partito relativista, del "partito radicale di massa", del partito del "pensiero debole" organizzato?

Oppure, più semplicemente — come veniva spiegato nei Seminari di Formazione Anti-Comunista promossi da Alleanza Cattolica negli anni Settanta e Ottanta —, poiché il comunismo non esaurisce la Rivoluzione, dopo il fallimento ideologico e pratico del socialcomunismo, il processo di opposizione nella storia al piano di Dio sull’uomo e sulle nazioni, cioé appunto la Rivoluzione, continua attraverso altre tappe?

Per rispondere adeguatamente a queste domande bisogna anzitutto ripercorrere le fasi principali che hanno visto nascere il PDS: allo scopo, mi servo ampiamente uno studio di Piero Ignazi, ricercatore nel Dipartimento di Politica, Istituzioni, Storia dell’Università di Bologna. 

La nascita della "cosa": Il 12 novembre 1989, tre giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, il segretario generale del PCI, on. Achille Occhetto, nel corso di una manifestazione partigiana in un quartiere di Bologna, enuncia il progetto di trasformare radicalmente il partito in una nuova "cosa". Il Comitato Centrale del PCI approva il progetto del segretario nella riunione tenuta del 20 al 24 novembre con 219 voti favorevoli, 73 contrari e 34 astenuti. La trasformazione verrà confermata con la maggioranza dei due terzi dei delegati nel corso del Congresso straordinario nel marzo del 1990, il XIX del PCI, mentre il successivo XX Congresso sancirà ufficialmente la nascita del nuovo soggetto politico, il Partito Democratico della Sinistra.

Secondo Piero Ignazi, il processo di cambiamento del PCI avviene in due fasi:

1. la prima va dalla sconfitta elettorale del 1987 alla caduta del Muro di Berlino nel 1989, ed è caratterizzata dall’"articolazione dei fini", cioé da un parziale mutamento delle finalità del PCI e da un graduale abbandono della sua "diversità" organizzativa, cioé del "centralismo democratico";

2. la seconda fase comincia nel 1989 con l’annuncio, da parte dell’on. Achille Occhetto, della radicale trasformazione del PCI e si conclude due anni dopo, nel 1991, con l’avvenuta "sostituzione dei fini", cioé con la nascita di un soggetto politico che abbandona esplicitamente il progetto di instaurare una società comunista attraverso la lotta di classe e che rinuncia al centralismo democratico, permettendo ufficialmente la nascita di correnti all’interno del partito. 

Il PCI dopo il fallimento del "compromesso storico": La storia del PCI ha conosciuto numerose e significative mutazioni tattiche e strategiche dopo il ritorno di Palmiro Togliatti in Italia, alla fine della seconda guerra mondiale: dalla svolta "democratica" e anti-insurrezionale di Salerno, nel 1944, alla destalinizzazione dopo il 1956; dalla strategia di "compromesso storico", con il conseguente ingresso del PCI nei governi detti di "solidarietà nazionale", dal 1976 al 1979, fino all’abbandono di questa strategia in seguito alla sconfitta elettorale del 1979 e alla scelta dell’"alternativa democratica" nel 1980; e, ancora, con lo "strappo" dall’URSS, voluto dall’on. Enrico Berlinguer e progressivamente realizzatosi nel corso degli anni Ottanta.

Comunque, nel corso di questi decenni, il PCI aveva sempre mantenuto, come obiettivo della propria azione politica, la trasformazione socialista del paese, una meta che nessuno che volesse rimanere nel partito aveva mai messo in discussione, anche perché la politica del partito stesso veniva costantemente premiata dai risultati elettorali, che vedevano il PCI in continua ascesa.

Ma il logorio dovuto al rimanere in "mezzo al guado", cioé al voler governare senza riuscirvi, rimanendo a metà strada fra il potere e l’opposizione — come avvenne durante i governi di "solidarietà nazionale", quando il PCI venne coinvolto nella politica di austerità promossa dall’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti, senza peraltro beneficiare ancora del potere legale —, costò al PCI il primo regresso elettorale, nel 1979, che bastò per far cessare la politica di "compromesso storico".

Erano gli anni in cui l’utopia della Rivoluzione del Sessantotto sfociava nel terrorismo e nell’incremento della diffusione della droga mentre, a livello culturale, le "forti" ideologie rivoluzionarie lasciavano il posto al "pensiero debole", al trionfo del relativismo e del nichilismo, e al "tutto è politica" subentrava il "ritorno al privato".

Cominciava l’era craxiana — il tempo di cui è stato indubbio protagonista il segretario del PSI on. Bettino Craxi —, fra l’altro caratterizzata da una dura lotta per l’egemonia nella Sinistra, nella quale appunto il PSI sceglieva il riformismo socialista come referente storico e ideologico per liberarsi dalla sudditanza politica verso il PCI, mentre quest’ultimo conosceva uno dei periodi certamente più difficili della sua storia, messo in difficoltà dal venir meno della capacità seduttiva della mitologia comunista fra i giovani, dalla progressiva diminuzione quantitativa della classe operaia, cioé del soggetto rivoluzionario per eccellenza, e — soprattutto — dal venire alla luce in modo sempre più palese dello sfacelo morale e materiale nei paesi del socialismo reale.

Così, le sorti della Repubblica Italiana si giocavano soprattutto all’estero, in modo particolare nell’URSS, dove avvenivano i grandi mutamenti politici e istituzionali, che avrebbero poi avuto ripercussioni negli altri Stati comunisti dell’Europa Orientale e, quindi, anche in Italia, dove esisteva il maggior partito comunista del mondo non comunista. Infatti, i mutamenti epocali avvenuti con Juri Vladimirovic Andropov e poi, principalmente, durante la presidenza di Mikhail Serghevic Gorbaciov, interessano l’evoluzione del PCI in Italia oltre che per il progressivo venir meno del PCUS come punto di riferimento e come fonte di finanziamento, anche per le analoghe modalità di attuazione del mutamento stesso. Infatti, in entrambi i casi, i cambiamenti avvengono per iniziativa del vertice, sollecitati da pressioni esercitate da situazioni specifiche: in specie, "suggeriti" nell’URSS dal fallimento del progetto di mantenere il potere e, in Italia, dal fallimento del progetto di conquistarlo. 

1987: la sconfitta elettorale: La lieve flessione nelle elezioni del 1983 — solamente - 0,5% — viene fatta dimenticare dalle elezioni europee del 1984, nelle quali il PCI trionfa e, con il 33,3% dei voti espressi, diventa il primo partito italiano. Naturalmente, il successo fa sì che i comunisti non riflettano — almeno in apparenza — sulla loro crisi e sul fatto che la vittoria elettorale, conseguita sull’onda dell’effetto emotivo provocato dalla morte del segretario del partito, on. Enrico Berlinguer, è stata ottenuta soprattutto grazie alla confluenza dei voti precedentemente riversatisi sul PDUP, il Partito Democratico di Unità Proletaria, quindi va valutata tenendo presente l’altissimo numero di astensioni, di schede bianche e di schede nulle: insomma, il PCI aumenta soltanto dell’1,4% rispetto alle precedenti elezioni politiche del 1983.

Poi vengono le sconfitte nelle elezioni amministrative del 1985 e, soprattutto, nel referendum promosso dallo stesso PCI sulla "scala mobile", sempre nello stesso anno, ma la vera crisi esplode dopo la grave flessione elettorale nelle elezioni politiche del 1987, quando il partito raccoglie il 26,6% dei voti espressi e ritorna al di sotto del risultato del 1968.

Tutti conoscono l’enorme importanza che, nella prospettiva marxista, ha la verifica nella storia della propria azione politica: perciò, tornare al di sotto del risultato elettorale conseguito nel 1968 significava che, dopo vent’anni di lotta rivoluzionaria — che pur aveva profondamente cambiato cultura e costume degli italiani, grazie alla pratica della rivoluzione culturale gramsciana — il comunismo aveva raggiunto il suo massimo di capacità di convincimento, che non avrebbe potuto andare oltre e che, quindi, era necessario rinunciare a quell’apparato ideologico e politico che ormai rappresentava un ostacolo per la conquista del potere: cioè, era necessaria un’altra "cosa".

Non so se sia stato questo il ragionamento — che peraltro mi sembra molto marxista — che ha inizialmente provocato la decisione di promuovere il cambiamento del PCI, ma certamente il mutamento si mette in moto e comporta l’insediamento dell’on. Achille Occhetto alla vicesegreteria quindi, a causa delle cattive condizioni di salute del segretario, l’on. Alessandro Natta, alla segreteria nel maggio del 1988.

L’elezione dell’on. Achille Occhetto avviene in un periodo di crisi non abituale nel partito, con gli organi dirigenti costretti a subire le domande e le discussioni della base militante, ormai apertamente relative all’identità dell’essere comunisti, e non più soltanto alla linea politica o alla strategia del partito. La sua stessa elezione non avviene all’unanimità e la direzione del partito si spacca.

L’on. Achille Occhetto è sostenuto dal centro berlingueriano e dalla sinistra dell’on. Pietro Ingrao, nelle cui file lo stesso neosegretario aveva militato. Fino al 1989 la sua azione sul partito opera alcuni cambiamenti anche importanti, ma si ferma o retrocede ogniqualvolta sembri rinnegare i fondamenti dell’identità comunista, in particolare il legame con la Rivoluzione d’Ottobre e i momenti "mitologici" della storia del PCI. Significativa è la grande reazione dei massimi esponenti del partito dopo l’insinuazione — avanzata nell’estate del 1989 da un intellettuale vicino all’on. Achille Occhetto, Biagio de Giovanni — sul coinvolgimento di Palmiro Togliatti nei delitti provocati dalla politica cominformista.

A mio avviso, i due principali cambiamenti nel periodo dell’"articolazione dei fini", cioè dal 1987 al 1989, riguardano l’ancoraggio ideologico del nuovo PCI ai princìpi della Rivoluzione francese e il progressivo venir meno, all’interno del partito, del centralismo democratico, con il manifestarsi di dissensi pubblici e il formarsi delle correnti.

 La seconda fase: la "sostituzione dei fini": La stessa azione riformatrice di Mikhail S. Gorbaciov nell’URSS — la perestrojkaviene letta dai comunisti italiani come testimonianza della sostanziale bontà del sistema uscito dalla Rivoluzione d’Ottobre, proprio in quanto sistema riformabile. Dal 1987 al 1989 l’azione riformatrice dell’on. Achille Occhetto sembra muoversi in perfetta sintonia con quella di Mikhail S. Gorbaciov: cambiare certamente e anche molto, ma nell’ambito della prospettiva socialcomunista, secondo l’ottica berlingueriana dell’immissione di elementi di socialismo nella società italiana.

Soltanto con il 1989 e con il crollo dei regimi comunisti nei paesi dell’Europa Orientale avverrà il distacco radicale e la fuoriuscita del PCI dal solco tracciato a partire dalla Rivoluzione guidata da Vladimir Ilic Lenin.

Con l’avvento dell’on. Achille Occhetto alla guida del partito si verificano importanti mutamenti anche nella composizione delle strutture direttive: per esempio, fra i membri della segreteria, cioé dell’esecutivo ristretto, del PCI nel 1983 e quelli del 1989, l’on. Achille Occhetto è l’unico elemento di continuità, così come è radicale il cambiamento nella composizione della Direzione del partito — il "cuore del gruppo dirigente", come lo definisce Piero Ignazi — con ventidue nuovi ingressi — il 42,3% —, eletti dal XVIII Congresso nel 1989.

La seconda fase del cambiamento si compie fra la fine del 1989 e il febbraio del 1991 e consiste nel contemporaneo mutamento del nome e dell’identità ideologica del partito. I principali artefici e sostenitori del cambiamento sono, naturalmente oltre al segretario del partito, gli esponenti della nuova classe dirigente, entrata nelle strutture direttive con l’on. Achille Occhetto, gli uomini della "destra" riformista guidata dall’on. Giorgio Napolitano, mentre il centro berlingueriano e la sinistra dell’on. Pietro Ingrao si dividono nel sostegno al segretario, e dalla corrente dello stesso on. Pietro Ingrao entrano nell’orbita del segretario personaggi come l’on. Antonio Bassolino e dell’on. Bruno Trentin.

La linea politica dell’on. Achille Occhetto viene appoggiata soprattutto dai funzionari e dai dirigenti locali e, in particolare, dai rappresentanti dell’Emilia-Romagna, che costituiscono il 30% del partito. Essi sosterranno la mozione congressuale a favore del cambiamento nel corso del XX Congresso del PCI — svoltosi dal 31 gennaio al 4 febbraio 1991 —, dove la tesi dell’on. Achille Occhetto otterrà il 64,1% dei voti favorevoli, con 807 delegati a favore su 1.259.

 L’ancoraggio ai princìpi della Rivoluzione francese: L’aspetto relativo al rapporto fra la "nuova sinistra" e le due rivoluzioni, quella francese del 1789 e quella russa del 1917, è stato trattato, fra gli altri, da Biagio de Giovanni, in un convegno promosso dall’Area Politiche Culturali del PDS, a Roma, nei giorni 26 e 27 febbraio 1992 (8). Nel suo intervento, Biagio de Giovanni sostiene che la caduta del comunismo deve essere accettata dalla Sinistra e deve costituire l’occasione perché quest’ultima ritorni ai princìpi dei diritti dell’uomo sanciti dalla Rivoluzione francese e violati invece da quella comunista del 1917; così facendo, la Sinistra impedirà che tali princìpi rimangano patrimonio soltanto della tradizione liberaldemocratica, purché sappia rinunciare al legame con la rivoluzione intesa come processo per instaurare una nuova società. La tesi di Biagio de Giovanni viene ripresa dall’on. Achille Occhetto, che si richiama pure ai princìpi del 1789 e ai diritti dell’uomo: la "nuova cosa", secondo questa prospettiva, sarebbe una specie di partito radicale di massa, il partito dei diritti dei diversi in tutti i campi, il partito che esalta la libertà senza alcun limite e la democrazia come mito trainante della propria azione politica. A quest’ultimo riguardo, concludendo i lavori del convegno, l’on. Achille Occhetto dirà: "Dobbiamo ripensare la democrazia, come democratizzazione integrale della società, come frontiera in continuo movimento verso la conquista di nuovi territori" (9), assumendo la democrazia non soltanto come metodo con cui si prendono le decisioni politiche. Infatti, com’era stato detto nell’introduzione allo stesso convegno dall’on. Claudia Mancina, "[...] la democrazia non è semplicemente un metodo, perché proprio nelle sue procedure c’è un aspetto sostantivo, che la rende desiderabile, la rende anche un fine e un valore, anzi il valore-base della politica, senza il quale gli altri non possono essere perseguiti. Cioé: il processo democratico non ci assicura che verranno prese delle decisioni buone, ma è comunque un bene che le decisioni vengano prese attraverso il processo democratico".

Chiudendo lo stesso convegno, l’on. Achille Occhetto spiegherà il passaggio dal PCI al PDS in questi termini: "Nell’87 noi cogliemmo che una lunga stagione politica del nostro paese si era ormai conclusa. Quella del consociativismo, quella — come dicemmo — legata all’idea che l’incontro tra le grandi forze politiche popolari fosse necessario e sufficiente a produrre rinnovamento.

"Nell’89 ci siamo misurati con il collasso dei regimi autoritari dell’Est europeo e con la fine dell’epoca della guerra fredda; con la fine dell’ordine internazionale — e anche interno — che aveva come quadro di riferimento ineludibile una certa configurazione, quella della contrapposizione tra blocchi.

"[...]

"Il Pci, nessuno può discuterlo, ha fatto la sua parte. Ma, appunto, tra l’87 e l’89 abbiamo preso consapevolezza che tutto ciò, una grande eredità, era alle nostre spalle. Che tutti dovevamo ricominciare" .

Lo stesso uomo politico concludeva: "Perché democratici e di sinistra?

"Siamo voluti tornare alle fonti. Alle fonti della modernità politica. Alla fonte comune che ha dato alimento ideale, per due secoli, a tutti i movimenti democratici e di sinistra in Occidente".

 Quale partito?: Secondo Piero Ignazi, l’identità della "nuova cosa" assomiglia a tre modelli diversi: il partito della socialdemocrazia o laburista, voluto soprattutto dalla "destra" riformista dell’on. Giorgio Napolitano, che si ispira alle socialdemocrazie europee; il partito antagonista-movimentista, rappresentato dalla sinistra dell’on. Pietro Ingrao e dell’on. Antonio Bassolino, oppure il partito radicale di massa, che sostituisce la classe operaia come referente privilegiato dell’azione politica con il "cittadino" e con i suoi diritti, in questo seguendo la scelta per i princìpi della Rivoluzione francese fatta dall’on. Achille Occhetto.

Quest’ultimo difficilmente accetterà di ingabbiare il PDS in una sola di queste definizioni ma, anche se ha rifiutato l’ipotesi del partito radicale di massa, è indubbio che il PDS sembra realizzare sempre più un modello di questo genere, che — fra l’altro — gli permette di essere il perno delle alleanze elettorali con le quali si candida a governare, guidando appunto tutte le altre forze progressiste come una locomotiva traina i vagoni.

L’alleanza elettorale guidata dal PDS appare come l’espressione politica di molteplici posizioni ideologiche, tutte però riconducibili sul piano culturale a quell’unica che, in certo modo, non ne esclude nessuna, il "pensiero debole", cioé l’affermazione che nega l’esistenza di qualsiasi "verità delle cose" e riduce la convivenza civile a un semplice convenzionalismo, per cui i diritti civili dell’uomo — quelli a cui l’on. Achille Occhetto si richiama come fonte della propria azione politica — vengono determinati dagli interessi temporanei dei singoli uomini e dei diversi gruppi umani, ma non sono assolutamente valori perenni e metastorici. La conclusione spiega le contraddizioni dell’ideologia politica del fronte progressista: il sostegno ai diritti del cittadino, ma non a quelli del bambino non nato, le campagne contro l’estinzione di alcune specie animali e il favore all’eutanasia, la solidarietà ai "diversi" anche contro natura e il silenzio sulle necessità della famiglia, soprattutto quando numerosa, vessata dalla persecuzione fiscale, minacciata dal pervertimento del costume ed emarginata nella vita sociale e politica, e — ancora — la mancanza di solidarietà con la scuola libera, che aspetta da cinquant’anni l’equiparazione a quella di Stato. Troppo spesso la polemica contro il fronte progressista si limita all’aspetto economico e alla richiesta rivolta al PDS di rinunciare al collettivismo e all’assistenzialismo, mentre sorvola su questi punti fondamentali, quando non li trascura.

 Le elezioni politiche del 27 e 28 marzo 1994: Superate le grandi difficoltà che hanno accompagnato il cambiamento, il PDS si candida alla guida del governo della Repubblica Italiana dopo le elezioni politiche del 27 e 28 marzo 1994. Per opporsi a questo tentativo risultò essere determinante il non essersi limitati a un impegno che derivi dalla paura che il PDS nascondesse una posizione comunista mai veramente abbandonata — paura del resto legittima, conoscendo il trasformismo strutturale dell’ideologia comunista —, ma descrivere e combattere il PDS anche per quello che è e disse di essere allora. Tanto meglio se questa opposizione ebbe il grande risultato di favorire una riflessione e un accostamento a quei princìpi naturali e cristiani che il fronte progressista, direttamente o indirettamente, contrasta radicalmente. 

INDICE

Thanatos ed eutanasia

Mariae, saluti infirmorum

La morte "selvaggia". Rifiutata, nascosta, truccata

"L’antico atteggiamento, in cui la morte vicina e familiare è, al tempo stesso, rimpicciolita e sdrammatizzata, è troppo in contrasto col nostro; della morte noi abbiamo tanta paura da non osar più pronunciare il suo nome.

"Perciò, quando diciamo di questa morte familiare che è addomesticata, non intendiamo dire che prima era selvaggia e che in seguito è stata addomesticata. Vogliamo dire, al contrario, che è diventata selvaggia oggi" .

La società moderna ha il terrore della morte. E a buon diritto.

Una volta rifiutato ogni senso trascendente alla vita umana, ridotta a vita biologica di un corpo-macchina, la morte si è trovata a essere — insieme ed enigmaticamente — la banale interruzione della funzionalità di una macchina, e la fine inappellabile e senza senso di ogni uomo. E perciò viene anzitutto nascosta, con tutto quanto a essa richiama, a cominciare dal luogo-cimitero.

Una delle più importanti modalità con cui questo nascondimento viene attuato è certamente l’ospedalizzazione della morte e la sua medicalizzazione: il malato detto "terminale" — una delle numerose strategie linguistiche di occultamento della realtà della morte e del morire — viene isolato dal resto della comunità, frequentemente abbandonato da famigliari e da amici, e affidato alle sole cure del personale sanitario. I medici e — soprattutto — gli infermieri si trovano così a dover gestire la maggior parte delle morti, tacitamente investiti da una società che fugge la morte e che le rifiuta ogni senso, dell’insostenibile compito di rispondere alle angosciate domande degli agonizzanti, domande sul senso della loro vita e della loro morte sì, ma anche richieste di affetto, di compassione e di calore. I membri del personale sanitario, cui la cultura diffusa consente di percepirsi solo come "tecnici della salute" di corpi-macchina, si trovano allora a dover costantemente fronteggiare — e fuggire — il fallimento completo e definitivo della loro attività.

Se i recenti fenomeni della medicalizzazione e dell’ospedalizzazione della morte costituiscono una delle condizioni storiche più importanti per inquadrare l’attuale dibattito sull’eutanasia, un’altra strategia — accanto a quelle del rifiuto e della fuga — merita un cenno: è quella della morte truccata.

Infatti, la diffusione panica della fobia delle morti reali — anzitutto della mia morte — si accompagna a un’ostentazione altrettanto panica di morti fittizie: la celebrazione televisiva e cinematografica del rito crudele di morti tanto numerose quanto finte e orribili costituisce un ossessivo sforzo di esorcizzazione delle morti vere, prive — queste — di effetti speciali, ma pur dotate di quell’effetto naturale di porre radicalmente la domanda sul senso, escludendo insieme ogni risposta parziale, fittizia o evasiva. Lo spettatore di un film non è chiamato a rispondere di fronte alle domande che l’agonizzante pone — e alla magna quaestio che egli stesso è diventato  —, è anzi del tutto irresponsabile di fronte alle morti fittizie.

 La "morte dolce" procurata: In questo contesto culturale si pone oggi il problema dell’eutanasia.

Si pone anzitutto come problema di comprensione e di definizione, non semplicemente di parole, ma della realtà che esse indicano: che cosa è l’"eutanasia"? 

Eutanasia e suicidio medicalmente assistito: cenni definitori

Dopo aver già da tempo abbandonato il legame con l’etimo greco — eu-thánatos, "morte buona" —, il termine eutanasia viene usato nell’attuale dibattito in sensi spesso molto diversi.

Frequentemente si distingue fra eutanasia attiva — o positiva, o diretta —, là dove il medico, o chi per lui, interviene direttamente per procurare la morte di un paziente, ed eutanasia passiva — o negativa, o indiretta —, dove si ha invece astensione da interventi che manterrebbero la persona in vita. Si distingue inoltre fra eutanasia volontaria, quella esplicitamente — e reiteratamente — richiesta dal paziente, ed eutanasia non volontaria, quando la volontà del paziente non può essere espressa, perché si tratta di persona incapace; in lingua inglese la distinzione è fra voluntary e nonvoluntary, ed esiste anche il caso di un’eutanasia involuntary, quella cioè praticata contro l’espressa volontà del paziente.

Eutanasia si oppone talora a distanasia, a indicare invece l’astensione da interventi medici di prolungamento della vita non rispettosi della dignità del paziente. Prossimo concettualmente e fattualmente all’eutanasia, benché distinto da essa, è poi il suicidio medicalmente assistito — physician assisted suicide o, eufemisticamente, p.a.s. —, in cui la morte è conseguenza diretta di un atto suicida del paziente, ma consigliato e/o aiutato da un medico.

Si tratta, come si vede, di una mappa di significati tutt’altro che omogenea e definita, e assai sensibile alla prospettiva teorica adottata.

Una definizione completa e precisa — che verrà seguita in questo testo — è quella contenuta nella Dichiarazione sull’eutanasia "Iura et bona", pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1980: "Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati". 

Sofferenza, trattamento del dolore ed eutanasia: Una delle caratteristiche definitorie dell’eutanasia è il suo obiettivo di ridurre la sofferenza.

Talora si ritiene che la richiesta di un intervento eutanasico o di un’assistenza al suicidio da parte dei pazienti sia direttamente proporzionale alla gravità della loro malattia, e alla loro sofferenza. Si tratta, invero, di una semplificazione indebita. Se prendiamo in esame i casi di suicidio, per esempio, "i malati terminali costituiscono solo una piccola porzione del numero totale di suicidi. In effetti, la maggior parte delle persone che si uccidono gode di una buona salute fisica. Fra tutti i suicidi solo tra il due e il quattro percento sono malati terminali . Uno studio condotto su adulti oltre i cinquant’anni ha mostrato che persone erroneamente convinte che stavano morendo di cancro si suicidarono in un numero maggiore rispetto a quelle che avevano effettivamente una malattia terminale. Questo studio supporta la stima secondo cui due terzi degli anziani che muoiono per suicidio godono di una salute relativamente buona .

"Gli individui con una grave malattia cronica e terminale hanno un rischio di suicidio maggiore — alcuni studi suggeriscono che il rischio per i pazienti di cancro è di circa due volte quello della popolazione globale. Alcuni esperti però hanno osservato che molti pazienti terminali sperimentano un fenomeno chiamato cancer cures psychoneuroses. Questo fenomeno si ha quando i pazienti si rendono conto di avere un cancro o un’altra malattia progressivamente terminale, e quando il processo con cui fanno fronte e dominano la loro paura della morte dissolve molte altre ansie o nevrosi. Come spiegato da uno psichiatra, "quando l’attenzione di una persona si allontana dai divertimenti banali della vita, può emergere un apprezzamento più pieno dei fattori elementari dell’esistenza".

"Perciò alcuni pazienti terminali possono presentare uno stress psicologico inferiore a quanto ci si possa aspettare. A parte le circostanze in cui i pazienti sono depressi, i malati terminali hanno spesso capacità di ripresa, e lottano per la vita attraverso le loro malattie. Gli studi indicano che su molti pazienti con grave sofferenza, sfiguramento o disabilità, la grande maggioranza non desidera il suicidio. In uno studio su pazienti malati terminali, fra quelli che espressero una volontà di morire, tutti soddisfacevano i criteri di diagnosi della depressione endogena. Come gli altri suicidi, i pazienti che desiderano il suicidio o una morte anticipata durante una malattia terminale soffrono solitamente di una malattia mentale che può essere trattata, per lo più di depressione " .

L’esperienza degli hospice, cliniche il cui scopo è l’umanizzazione dell’assistenza ai pazienti in fin di vita e il trattamento del dolore — le cosiddette cure "palliative" —, infirma ulteriormente questa correlazione sofferenza-desiderio di morire apparentemente così ovvia . "Pazienti con una sofferenza non controllata possono vedere la morte come l’unica fuga dalla sofferenza che stanno sperimentando. In ogni caso, la sofferenza non è solitamente un fattore di rischio indipendente. La variabile significativa nel rapporto fra sofferenza e suicidio è l’interazione fra sofferenza e sentimenti di disperazione e depressione. Come affermato da uno psichiatra: "La sofferenza gioca un ruolo importante nella vulnerabilità al suicidio; comunque l’associazione di un disagio psicologico e di un disturbo dell’umore sembrano essere co-fattori essenziali nell’alzare il rischio del suicidio del malato di cancro".

Eliminato il pregiudizio di cui s’è detto, è possibile ora far cenno ad alcuni aspetti giuridici dell’eutanasia. Benché il parlamento inglese avesse discusso già nel 1936 una proposta di legalizzazione dell’eutanasia, e con l’eccezione della legislazione nazionalsocialista, fino a un periodo molto recente essa non ha avuto posto nella legislazione come fattispecie a sé: le pratiche eutanasiche venivano ricondotte, a volta a volta, ad altre fattispecie esistenti, solitamente all’omicidio e al suicidio.

La "morte dolce": i suoi presupposti e alcune conseguenze: S’è detto del complesso rapporto fra sofferenza e suicidio o desiderio di morire. Pure, nell’eutanasia — e nella sua approvazione sociale e legalizzazione — vi è un elemento nuovo: l’intervento di un’altra persona, quasi sempre di un medico o di un operatore sanitario, intervento inteso ad alleviare il dolore con il porre un termine alla vita del paziente.

Si tratta, anzitutto, di una risposta tutt’altro che ovvia: un omicidio sarebbe l’aiuto adeguato a un sofferente; ovvero si verrebbe addirittura a configurare un dovere da parte di qualcuno — il medico o chi per lui — di uccidere una persona che gliene faccia richiesta; o, ancora, si attribuirebbe a qualcuno — medico, giudice, famigliare? — il diritto di stabilire se una vita innocente sia meritevole o no d’essere vissuta.

"Bisogna rispettare la libertà del paziente", si ripete spesso da parte dei sostenitori dell’eutanasia, incorrendo così nell’aporia dello schiavo: si può rinunciare liberamente alla libertà, alla condizione fondamentale del suo normale esercizio, la vita? La richiesta del sofferente è piuttosto quella che gli si allevi il dolore, e tale è la responsabilità del medico, la cui vocazione è di farsi prossimo al paziente e di alleviarne le sofferenze fisiche e spirituali, non quella di essere arbitro della sua vita e della sua morte.

La condizione per ammettere la liceità — e la legalità — dell’eutanasia è dunque l’affermazione di un diritto onnipotente e irresponsabile dell’uomo a disporre della propria vita, con aggiunto — si tratta di un corollario non casuale, una volta accettato il modello del medico-tecnico — un curioso obbligo da parte di alcuni, i medici e/o il personale sanitario, di realizzare l’atto eutanasico richiesto.

È vero: a volta a volta la cultura e la legislazione si sono impegnate — lo si è visto nel caso olandese e in quello australiano —, e presumibilmente s’impegneranno, a porre limitazioni a tale diritto e a tale dovere: ma si tratta d’incoerenze locali, che non hanno alcun fondamento teorico una volta ammesso un ipotetico diritto all’eutanasia. Affermato che la vita senza valore può essere soppressa, a chi spetterà poi il diritto e l’onere di stabilire quando la vita è tale? Perché, infatti, dovrebbero "beneficiare" del diritto all’eutanasia solo i malati, o solo gli anziani, o solo i malati gravi?

Perché non dovrebbe essere come scrivono con sconcertante coerenza Roland Jaccard e Michel Thévoz nel loro Manifesto per una morte dolce, secondo cui "ogni individuo dovrebbe avere il diritto di disporre di sé, di drogarsi, di uccidersi, per ragioni che riguardano lui soltanto, perché è sieropositivo o perché quel mattino piove. Non è in alcun modo giustificato attendere l’agonia per concedergli questa libertà" ?

Tale diritto presuppone e implica infatti un più generale diritto al suicidio, più lo strano dovere di cui s’è detto: la vita umana è, in questa prospettiva, un bene completamente disponibile per chi ne è soggetto, di nuovo con il limite che il medico ha, che lo assoggetta al volere altrui per quanto riguarda l’intervento eutanasico.

 Due notevoli effetti della legalizzazione dell’eutanasia: Prima di procedere oltre nell’analisi etica conviene almeno far cenno a due possibili e importanti conseguenze di una legalizzazione, o comunque di una diffusione della prassi eutanasica.

La prima sarebbe l’affievolirsi dell’attenzione al trattamento della sofferenza: uno studio del 1994 ha documentato che malati di cancro appartenenti a minoranze etniche negli Stati Uniti d’America avevano possibilità tre volte maggiori di ricevere un trattamento inadeguato della sofferenza rispetto agli altri pazienti. Laddove l’opzione eutanasica fosse accolta come possibile, ne conseguirebbe molto probabilmente un affievolimento dello sforzo teso a ridurre la sofferenza, soprattutto per quanto riguarda i gruppi socialmente ed economicamente più deboli, per i quali il ricorso all’eutanasia diventerebbe la soluzione più "ovvia" ed economica.

Il secondo prevedibile effetto è ancora più grave ed esteso: una volta introdotta la possibilità dell’opzione eutanasica, si avrebbe infatti una sorta d’inversione dell’onere della prova della dignità e del valore di ogni vita umana. In altre parole: il paziente terminale dovrebbe continuamente giustificare la propria scelta di non richiedere l’eutanasia di fronte ai famigliari e al personale medico.

Ecco come J. David Velleman, autore peraltro non contrario all’eutanasia, tratteggia una tale prospettiva: "[...] se mai la gente giungesse a guardarti come esistente per scelta, potrebbe aspettarsi che tu giustifichi il tuo continuare a esistere. Se la tua venuta quotidiana in ufficio viene interpretata come significasse che tu hai rinunciato ancora una volta a ucciderti, ti potresti sentire obbligato ad arrivare con una risposta alla domanda "Perché no?".

"Penso che la percezione che ciascuno di noi ha della vita altrui come di qualcosa di dato sia radicata così profondamente che a fatica possiamo immaginare come sarebbe la vita senza di essa. Quando qualcuno mostra impazienza o dispetto nei nostri confronti, diciamo scherzosamente: "Scusa se esisto!". Ma immaginate se non fosse uno scherzo, immaginate se vivere fosse qualcosa per cui si possa ragionevolmente pensare di aver bisogno di una scusa. Il carico di giustificare la propria esistenza potrebbe rendere l’esistenza insopportabile — e perciò ingiustificabile" .

Dunque, "offrire l’opzione di morire può significare dare alla gente nuove ragioni per morire" .

Due conseguenze che meritano d’esser valutate soprattutto da parte di chi ipotizza la legalizzazione dell’eutanasia: "Tanto, chi vuole ricorrervi non può essere fermato, e chi non vuole ricorrervi non vi ricorrerà mai"... 

Un parallelo con l’aborto procurato...: L’affermazione appena riportata è significativamente simile a quella tante volte sentita a proposito dell’aborto procurato, così com’è simile la conseguenza di cui s’è detto: infatti anche nel caso di patologie dell’embrione — ma ora in quello di quasi ogni gravidanza non "pianificata" — la scelta standard, ovvia, è per l’aborto procurato, mentre richiede giustificazione il suo rifiuto; questa è la prassi ormai invalsa, anche a fronte di una legislazione la cui lettera suona diversamente. 

... e con la fecondazione artificiale: Il parallelo con la tragica realtà dell’aborto suggerisce di essere esteso a quella della fecondazione artificiale, mostrando così ancora più in profondità in che modo l’eutanasia sia radicata nella stessa cultura abortiva e favorevole alla fecondazione artificiale.

Com’è noto, gli effetti di aborto e fecondazione artificiale sono diametralmente opposti: nell’un caso una vita umana esistente viene soppressa, nell’altro viene prodotta a ogni costo, su richiesta. Eppure una sola è la mentalità e la cultura che a essi è favorevole: le due pratiche sono addirittura connesse in una medesima procedura: infatti, la pratica della fecondazione artificiale prevede, molto spesso, un intervento abortivo nei confronti dei cosiddetti "embrioni soprannumerari": merita di essere ricordato — di passaggio — che chi scrive, e chi legge, non è stato nulla di più, né nulla di meno, di uno di questi embrioni "soprannumerari".

In entrambi i casi infatti — aborto e fecondazione artificiale — quanto viene eliminato o prodotto — secondo una logica tipicamente consumistica — è qualcosa di completamente manipolabile — disponibile all’intervento dei "tecnici" —, non qualcuno che ha una natura propria e dei diritti che gli devono essere riconosciuti nella verità, e non attribuiti arbitrariamente.

La stessa duplice minaccia che incontriamo all’origine della vita fisica la ritroviamo al suo termine: se l’eutanasia riproduce le condizioni dell’aborto — una vita viene arbitrariamente eliminata —, è l’accanimento terapeutico a occupare il posto simmetrico rispetto alla fecondazione artificiale: in questo caso un intervento tecnico, non più guaritivo né curativo, s’incarica d’impedire la morte, rimandandola nel tempo e affidandola, di nuovo, a un altro intervento tecnico: si ripete così, per accanimento terapeutico ed eutanasia, anche quell’unione procedurale che abbiamo visto legare fecondazione artificiale e aborto. 

L’accanimento terapeutico: Il tema dell’accanimento terapeutico — della distanasia — richiede d’esser ora affrontato, benché brevemente e nei soli aspetti essenziali; il discorso si disporrà così a un approfondimento degli aspetti etici coinvolti, che sarà poi sviluppato di seguito.

Le capacità tecniche di prolungamento della vita — di rianimazione — hanno suscitato e suscitano numerose e cospicue perplessità in coloro che devono decidere se, quando e in che misura ricorrervi. Si tratta, questo è il problema, sempre d’interventi doverosi o no? E ancora: si configurano casi in cui il ricorrervi sia addirittura contrario alla dignità del paziente? O il non ricorrervi è invece praticare un atto eutanasico?

Com’è chiaro, si tratta di un tema estremamente delicato, e alieno da ogni facile generalizzazione: a volta a volta paziente, famigliari e medico dovranno discernere se, e secondo quali modalità, intervenire.

È possibile tuttavia offrire indicazioni generali per rilevare se la terapia attuata sia proporzionata, o se configuri, appunto, un accanimento terapeutico. Anche in questo caso la già citata Dichiarazione sull’eutanasia della Congregazione per la Dottrina della Fede offre elementi di straordinaria chiarezza in un passo che conviene riportare per esteso: "Ciascuno ha il dovere di curarsi e di farsi curare. Coloro che hanno in cura gli ammalati devono prestare la loro opera con ogni diligenza e somministrare quei rimedi che riterranno necessari o utili.

"Si dovrà però, in tutte le circostanze, ricorrere a ogni rimedio possibile? Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all’uso dei mezzi "straordinari". Oggi però tale risposta, sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine sia per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi "proporzionati" e "sproporzionati".

"In ogni caso, si potranno valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni del malato e delle sue forze fisiche e morali" .

Il documento appena citato offre poi ai pazienti e a chi se ne prende cura quattro importanti criteri per il discernimento: "a) In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso del malato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l’ammalato potrà anche dare esempio di generosità per il bene dell’umanità.

"b) È anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi [...].

"c) È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può, quindi, imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere a un tipo di cura che, per quanto già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale al suicidio: significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, oppure volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività.

"d) Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute al malato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza a una persona in pericolo" .

 La "morte dolce" e il Magistero della Chiesa cattolica: La stretta e inscindibile connessione fra suicidio ed eutanasia ha già indicato alcuni presupposti di una cultura eutanasica e, in particolare, una considerazione della persona umana come soggetto di un diritto onnipotente sulla propria vita e sulla propria morte. La vita umana — per poter ammettere l’eutanasia — deve essere considerata qualcosa alla mercé dell’uomo. Proprio a questa profondità s’incontra un’insanabile opposizione fra una considerazione della vita come dono di Dio, bene di cui l’uomo è beneficiario e responsabile, ma non possessore, o della vita come accidente biochimico, di cui ciascuno può disporre a proprio piacimento e irresponsabilmente.

In tal senso, la valutazione etica del suicidio si può applicare all’eutanasia: essa si oppone direttamente ai doveri verso Dio — Padrone e Signore della vita —, a quelli verso il prossimo — nel caso dell’eutanasia, sia da parte di chi la richiede, sia da parte di chi la pratica — e a quelli verso sé stessi.

Il Magistero della Chiesa da tempo è intervenuto estesamente e puntualmente in tema di eutanasia.

Converrà ripercorrere i temi principali di tale insegnamento leggendo alcuni brani dell’enciclica Evangelium vitae, in cui Papa Giovanni Paolo II dedica a questa realtà un’attenzione tutta particolare.

Nel primo capitolo viene tratteggiato il contesto sociale in cui l’eutanasia viene a tema: si tratta di un’"atmosfera culturale che non coglie nella sofferenza alcun significato o valore, anzi la considera il male per eccellenza, da eliminare ad ogni costo; il che avviene specialmente quando non si ha una visione religiosa che aiuti a decifrare positivamente il mistero del dolore.

"Ma nell’orizzonte culturale complessivo non manca di incidere anche una sorta di atteggiamento prometeico dell’uomo che, in tal modo, si illude di potersi impadronire della vita e della morte perché decide di esse, mentre in realtà viene sconfitto e schiacciato da una morte irrimediabilmente chiusa ad ogni prospettiva di senso e ad ogni speranza".

Al terzo capitolo, e sottolineando la stretta connessione fra eutanasia, suicidio e omicidio, il Sommo Pontefice scrive: "[...] il suicidio è sempre moralmente inaccettabile quanto l’omicidio. La tradizione della Chiesa l’ha sempre respinto come scelta gravemente cattiva [36]. Benché determinati condizionamenti psicologici, culturali e sociali possano portare a compiere un gesto che contraddice così radicalmente l’innata inclinazione di ognuno alla vita, attenuando o annullando la responsabilità soggettiva, il suicidio, sotto il profilo oggettivo, è un atto gravemente immorale, perché comporta il rifiuto dell’amore verso se stessi e la rinuncia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità di cui si fa parte e verso la società nel suo insieme. Nel suo nucleo più profondo, esso costituisce un rifiuto della sovranità assoluta di Dio sulla vita e sulla morte, così proclamata nella preghiera dell’antico saggio di Israele: "Tu hai potere sulla vita e sulla morte; conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire" (Sap 16, 13; cf. Tb 13, 2).

"Condividere l’intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarla mediante il cosiddetto "suicidio assistito" significa farsi collaboratori, e qualche volta attori in prima persona, di un’ingiustizia, che non può mai essere giustificata, neppure quando fosse richiesta. "Non è mai lecito — scrive con sorprendente attualità sant’Agostino — uccidere un altro: anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l’anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere". Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell’esistenza di chi soffre, l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante "perversione" di essa: la vera "compassione", infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza. E tanto più perverso appare il gesto dell’eutanasia se viene compiuto da coloro che — come i parenti — dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro congiunto o da quanti — come i medici —, per la loro specifica professione, dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni terminali più penose.

"La scelta dell’eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l’ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso. Si raggiunge poi il colmo dell’arbitrio e dell’ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire. Si ripropone così la tentazione dell’Eden: diventare come Dio "conoscendo il bene e il male" (cf. Gn 3, 5). Ma Dio solo ha il potere di far morire e di far vivere: "Sono io che do la morte e faccio vivere" (Dt 32, 39; cf. 2 Re 5, 7; 1 Sam 2, 6). Egli attua il suo potere sempre e solo secondo un disegno di sapienza e di amore. Quando l’uomo usurpa tale potere, soggiogato da una logica di stoltezza e di egoismo, inevitabilmente lo usa per l’ingiustizia e per la morte.

"Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone"

La morte preparata, accolta e superata: Il tema della morte e del morire è stato il filo conduttore di questa ricerca; essa ne ha esplorato peraltro un solo versante, quello del rifiuto della sofferenza e della morte, che ha nel suicidio e nella pratica eutanasica le sue espressioni più decise e paradigmatiche. Ma non è l’unico itinerario consentito, né alla ricerca né — tantomeno — al cammino dell’esistenza.

L’altro itinerario è di preparazione alla morte. Esso non ha né la concitazione della fuga né l’angoscia del terrore di fronte alla distruzione.

Gli sono invece consentite le movenze umili di un cammino d’incontro.

E la voce della lode: "Laudato si, mi Signore, per sora nostra Morte corporale, / da la quale nullo omo vivente po’ scampare. //Guai a quelli che morranno ne le peccata mortali! // Beati quelli che troverà ne le tue sanctissime voluntati, / ca la morte seconda no li farà male. // Laudate e benedicite mi Signore, / e rengraziate e serviteli cun grande umiltate".

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