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L'abbigliamento greco Una società pastorale e austera era all’origine della cultura ellenica che nel primo millennio avanti Cristo dilagò nel bacino del Mediterraneo e la ricchezza in seguito raggiunta non modificò la semplicità dell’abbigliamento greco delle origini, le cui vesti erano chitone, himation, clamide, claina e peplo. Tali abiti, simili per uomo e donna, tranne il peplo che era esclusivamente femminile, rimasero sostanzialmente immutati nel tempo, perché immutato nell’ambito della moda greca rimase il principio per cui era il corpo a modellare l’abito e non l’abito la persona, come al contrario avviene oggi. Le vesti greche erano infatti dei semplici drappi di stoffa di forma rettangolare, simili ai sari delle donne indiane o ai pareo delle tahitiane, e avevano la caratteristica di non essere cucite secondo una forma precisa o un "modello" predeterminato, ma di essere solo drappeggiate intorno alla persona. Inoltre, molto importante era il modo in cui si indossava un abito perché denotava anzitutto il ceto sociale, nonché la personalità e il gusto di chi lo portava. Con il tempo variarono infatti soltanto la qualità dei tessuti, la lunghezza degli abiti ed il modo di indossarli. La stoffa più comune era la lana. di varia consistenza e peso, tessuta in casa dalle donne. Conosciuto era anche il lino, che nell'economia micenea aveva occupato un posto di rilievo, usato anche per gli indumenti dei soldati. Tra la fine dell'età elladica e della potenza acheo-micenea e l'età classica, la coltivazione del lino venne abbandonata e fu ripresa, non prima del V secolo, soltanto nell'isola di Amorgo. Il cotone non era sconosciuto, ma era considerato tessuto raro ed esotico e veniva importato dall'Oriente. Altro tessuto utilizzato era il bisso, ricavato dai filamenti di molluschi bivalvi come il Mytilus Pinna e serviva per la realizzazione di capi molto cari e ricercati. I Greci appresero i procedimenti di tintura del lino e della lana dai Minoici, Egiziani e Fenici, che usavano coloranti naturali. Oltre al bianco, i Greci usavano tre colori più o meno diluiti e mescolati: il giallo, il turchino ed il rosso. La tintura in rosso era la più costosa perché ottenuta con l'uso della porpora, estratta da una ghiandola di molluschi marini del Mediterraneo, i Murici. Uno dei maggiori centri produttivi di lana e di porpora era Taranto. Una stoffa tinta di porpora, infatti, prendeva proprio il nome dalla città ed era detta tarantῖnon. La natura di questo tessuto, molto leggero e trasparente, lo rendeva adatto alle donne, soprattutto alle etere, e ai ballerini effeminati. Il tipo più comune di lana era più pesante e i punti a rilievo che si formavano dalla tessitura avevano senso decorativo.
Sopra la parte apribile della gonna, vi era un'alta cintura pettorale, che nascondeva la chiusura dell'abito e sorreggeva il seno, coperta da un giubbetto a bolero senza maniche, più lungo sui fianchi. Tutto l'assieme era ulteriormente coperto da un krédemnon, un leggero scialle ricadente in due punte sotto le spalle. Per quanto riguarda la copertura del capo, si usava un
triangolo di tessuto unito che ricadeva sulle braccia. Per ornare il capo, vi
era anche il pòlos, un ornamento chiuso nella parte superiore, sferico,
cilindrico o anche quadrangolare, introdotto dall'Oriente nel mondo greco-antico,
dove appare come copricapo caratteristico di alcune divinità o di donne
impegnate in cerimonie di culto.
Il peplo (pέploς) – L’abito nazionale delle donne dell'antica Grecia, era costituito da un rettangolo di lana caratterizzato nella parte superiore da un ampio risvolto, detto apoptygma (a sin.). L’uso di tale abito è attestato già in Omero che lo chiamava ἐanός e rimase generale fino alla seconda metà del VI secolo, quando fu generalmente sostituito, eccetto che a Sparta, dal chitone ionico di lino. Continuò però ad essere utilizzato non più come vestito unico, direttamente sulla pelle, ma al di sopra del chitone, come mantello (epìblema) (a ds.). Poteva essere di colore zafferano, blu, rosso od anche decorato da preziosi ricami. ἀpόptugma, che poteva ricadere fino alla cintola e dare l'impressione di una tunichetta sovrapposta. Se l’apoptygma veniva invece posato sul capo, esso serviva da velo (krédemnon).I lembi superiori dell’abito erano appuntati sulle spalle e sul fianco da spille dette fibule (pέronai). Il peplo lasciava le braccia scoperte e rimaneva di solito aperto lungo il fianco destro. In vita era stretto da una cintura, chiamata zώnh, indossata o sotto o sopra l’apoptygma. Quando nella cintura veniva rimboccata, sblusandola, parte della stoffa, il gruppo di pieghe che si formava era detto kόlpoV . Le spartane continuarono ad indossare il peplo aperto sul fianco sinistro come abito unico, mentre le
donne ateniesi lo utilizzarono anche come sottoveste o camicia da notte. A partire dal V secolo le fonti letterarie usano il termine χitw@n anche per il peplo, perché con il passare del tempo tali vesti si scambiarono le caratteristiche.
Il chitone (citώn) - L’indumento
di base del vestiario greco antico era il Chitone, una tunica
di origine orientale, introdotta in Grecia dagli Ioni.
Quello femminile, lungo fino ai piedi, era costituito da due teli rettangolari
in lino, ma in epoca classica anche di lana, sovrapposti e cuciti insieme lungo
uno solo (c. dorico) o entrambi i bordi dei lati
Il c. ionico poteva avere un kólpos (a sin.) , formato dalla sblusatura della stoffa nella cintura, oppure delle maniche formate dai lembi della parte superiore dell’abito appuntati con spille. Il kolpos poteva variare in lunghezza e arrivare anche fino alle caviglie. A partire dal V secolo si diffonde l’uso di una doppia cinta ( a sin.). A volte alla cinta venivano attaccate delle bretelle che si incrociavano o davanti e dietro o solo dietro e servivano a mantenere le pieghe del chitone aderenti alla persona. Il c. dorico era invece cucito solo sul fianco destro e aveva un apoptygma (ripiegatura) che dava l'impressione di una corta tunica sopra la gonna. Il Chitone era sempre accompagnato da un mantello. In casa, le donne greche, come veste quotidiana, usavano tuniche più corte, pratiche e aderenti, senza cintura chiamate generalmente "citώnia". Tali indumenti erano utilizzati anche come sottovesti (hipdolémata) sotto il chitone. Fra queste, sembra fosse prevalente l'uso di camiciole gialle di lino, mentre capi di "biancheria" di lusso erano le "amorgine" corte e trasparenti e le "cimberiche" lunghe e a sacco, ma sempre sottilissime. Molte sottovesti dovevano arrivare al ginocchio e differivano poco dagli abiti maschili.
L’himation (ἱmάtion)
era un mantello simile per ambedue i
sessi. Le donne greche
Nelle stagioni più miti, venivano usate mantelline di lana più piccole e leggere delle precedenti, quasi degli scialli, fra cui la clanίV . Il "diplax," era un mantello più piccolo dell’himation simile alla "chlamys" degli uomini. Veniva ripiegato in due prima di essere indossato, fermato sulla spalla destra con una spilla e poi fatto passare sotto il braccio sinistro. Simile al diplax era il chlamidon, una mantellina con numerose pieghe.
Lo strofion (strόfion) - Era una fascia di cotone o di lino indossata sotto la tunica all’altezza del petto per sorreggerlo. Può essere considerato l’antenato del reggiseno.
I A partire dalla metà del V secolo, fu sostituito da un abito più corto, il chitoniskos, che, molto più pratico, arrivava poco sopra il ginocchio ed era stretto in vita da una cintura, o anche da due, (a ds). A partire dalla metà del V secolo, fu sostituito da un abito più corto, il chitoniskos, che, molto più pratico, arrivava poco sopra il ginocchio ed era stretto in vita da una cintura, o anche da due, (a ds). Gli uomini liberi lo indossavano, fissandolo su ambedue le spalle con dei bottoncini, in modo da coprire entrambe le ascelle. Se la stoffa del chitone era particolarmente ricca, essa veniva drappeggiata in modo da formare delle false maniche e prendeva così il nome di keridos. Gli schiavi e coloro che lavoravano utilizzavano invece un modello ancor meno ingombrante e più pratico, l’ἐξwmίv che veniva fermato solo sulla spalla sinistra per lasciare libero il braccio destro e permettere così maggiore libertà di movimento. Ad Atene, il chitone corto e senza cintura era indossato dai giovani e dai fanciulli e faceva parte anche del vestiario dei guerrieri, i quali lo portavano sotto la corazza, per isolare e proteggere la pelle. In genere il chitone era di lana, più pesante in inverno e più leggera in estate, ma poteva essere anche di lino o di altro tessuto. Se la stoffa era scura e scadente, l’abito era più umile e destinato all’utilizzo da parte di schiavi.
L’himation (ἱmάtion) era un mantello, altro abito molto diffuso, utilizzato da uomini e donne, liberi o schiavi. (come quello di Alcibiade) era considerato effeminato. Veniva indossato sopra la tunica o direttamente sulla pelle come indumento unico o sopra un semplice perizoma. Era solitamente appoggiato sulla spalla sinistra e lasciato ricadere dalla spalla sul fianco o attraverso il petto, oppure piegato a triangolo o a rettangolo e portato da una spalla all'altra: non era cucito, né fermato da spille e bottoni, ma solo drappeggiato e lasciava libero il braccio destro e il busto. Era un indumento ampio, comodo e molto pratico e spesso indossato come indumento unico dagli uomini, veniva utilizzato nei banchetti, in casa o per andare in palestra. I cittadini più benestanti possedevano un mantello per ogni stagione, mentre i più indigenti ne avevano soltanto uno per tutto il corso dell’anno. Da Sparta, dove era di uso comune, si diffuse anche in Attica un corto e ruvido mantelletto, il tribonio (t r ίb wn o t r i b ώn i o n ), che lasciava scoperte gambe e cosce, e che divenne il costume distintivo dei filosofi che lo indossavano tutto l’anno senza tunica. Erano innumerevoli le fogge con cui si portava il mantello e il modo in cui lo si drappeggiava era considerato una forma d’arte, che denotava gusto ed eleganza, oltre a servire come elemento distintivo tra uomini liberi e schiavi. I ricchi, infatti, lo posavano sulla spalla sinistra e lo avvolgevano intorno al corpo, lasciando cadere il lembo destro sul braccio sinistro, mentre i poveri drappeggiavano, in senso inverso, la parte sinistra del mantello. Esso poteva inoltre essere posato su entrambe le spalle, o avvolto attorno al corpo in modo che oltre al braccio sinistro, rimanesse coperto anche quello destro. Quest’ultimo era il modo in cui lo indossavano gli oratori, i quali consideravano indecoroso avere le braccia scoperte.
La clamide
(clamύV
)
era il mantello militare, di cui si vedono esempi nel fregio fidiaco del
Partenone. Era
Talvolta era fermato alla gola e la banda sinistra gettata sulla spalla destra, in modo che ne rimanesse inviluppata interamente la parte superiore del corpo. La fortuna della clamide, che, nata in Grecia come indumento militare, si diffuse a Roma e in seguito anche fra i Goti, rimanendo in uso ancora nel Trecento, fu dovuta alla sua praticità e alla scioltezza di movimento permessa nel cavalcare, durante la caccia e in viaggio. In Grecia, le origini militari di tale indumento si mantennero vive a livello simbolico, perché per un generale dell’esercito la clamide rappresentava il segno del comando, mentre per i giovani che la ricevevano in dono segnava simbolicamente il passaggio dall’infanzia alla pubertà. La claina (claῖna) era un altro nome per mantello. Inizialmente bianchi, il chitone e la claina vennero poi colorati di rosso, porpora, violetto, giallo e turchino.
I Greci non utilizzavano molto i cappelli, tranne che in campagna o durante i lunghi viaggi, per proteggere la testa dai raggi del sole. Nell’Odissea Omero ci presenta Ulisse che osserva il padre Laerte mentre pota una pianta con un berretto di pelo di capra sul capo, l'aἰgeίh kunέh. Le fonti ci parlano anche di altri tipi di berretti, come quello di pelle di volpe (ἀlwpekίς ), cappello prettamente invernale e copricapo nazionale dei cavalieri traci. Il cappello in feltro (
pῖloς
) si modellava sulla Ogni regione aveva il proprio pῖloς caratteristico: ad esempio, nella città di Atene, troviamo il pῖloς ἀrkάdikoς . Ad Atene era utilizzato anche dagli efebi. Di origine macedone era la kausίa, largo cappello di feltro a forma di piatto. I
Per quanto riguarda le donne greche, esse non amavano particolarmente i copricapi, ed infatti l'unico prettamente femminile era il velo (krήdemnon). Quando le donne utilizzavano il cappello, esso aveva la stessa forma del petaso
maschile, con l'unica differenza che esso aveva forma conica (qolίa).
Il kerkryphalos
(kekrύfaloς)
era una reticella a maglie larghe, utilizzato La taenia (tainίa) era un nastro semplice per capelli (donna a sin.). Il sakkos (sάkkoς) era una lunga fascia avvolta intorno la testa che racchiudeva tutti i capelli (donna al centro). La sphendone (sfendόnh) era una fascia per raccogliere i capelli sopra la nuca (donna a ds.)
Notizie riguardanti l'attività artigianale nel campo della calzoleria ci pervengono da molte fonti, una delle quali è il settimo mimo in versi giambici di Eronda, che descrive la bottega del calzolaio Cerdone e i cui protagonisti sono il calzolaio stesso, il pigro aiutante Drimilo, Metrò una mediatrice per gli acquisti e due clienti. Lo svolgimento degli affari avveniva in questo modo: i clienti si ritrovavano nella bottega del calzolaio (skuteύς), solitamente accompagnati da un mediatore che mercanteggiava sul prezzo, stabilito in base al materiale e al tempo impiegato dal calzolaio nella realizzazione della calzatura. Un vaso rodio ci mostra un calzolaio che taglia con un trincetto un pezzo di cuoio seguendo la forma del piede di un ragazzo che sta in piedi sul dischetto. piede mediante delle strisce dello stesso materiale passanti per il collo del piede. Questa era una forma primitiva di sandalo (pedῖlon), scarpa da riposo, assicurata al piede da corregge di pelle, la cui suola, perfettamente ritagliata sulla forma del piede, era solitamente di cuoio, ma nelle varianti più economiche, era costituita da legno o sparto. Queste prime calzature furono si evolsero nei sandάlia, un cui modello erano le krηpῖdeς portate da ambo i sessi in viaggio, in caso di cattivo tempo o per fare lunghi viaggi in condizioni difficili. Quelle femminili erano di pelle più morbida e potevano essere anche colorati. Oltre ad i sandali esistevano delle varianti più eleganti le blaῦtai, adatte anche agli uomini. In seguito, l'ingegno e la fantasia degli artigiani diedero vita a moltissimi modelli differenti. Senofonte ci informa che i calzolai univano suole e tomaie con tendini anomali e seguivano una procedura standardizzata nell'assemblaggio delle calzature. Esisteva una norma di galateo per la quale chi avesse dovuto partecipare ad un banchetto doveva presentarvisi con scarpe ai piedi per non insudiciare, ma giunto nell'androne della casa se le sarebbe tolte per permettere ad uno schiavo di lavargli i piedi. Una derivazione del sandalo era la krhpίς , una scarpa su cui vi erano piccole aperture per l'ortelio e per il dorso del piede. Essa aveva un uso anzitutto maschile perchè utilizzata di rado dalle donne. Su questo modello si svilupparono delle varianti ma quello classico era fornito di un reticolo di lacci intorno al calcagno, o di aperture intorno al tallone o alla parte laterale del piede, cosicchè le dita rimanevano libere come nel sandalo. Questo tipo di calzatura veniva utilizzata anche in campo militare.
L'ἐndromίς era una scarpa maschile più pesante, alta sino al ginocchio, adatta ad uso militare o per percorrere terreni accidentati. Poteva avere la suola chiodata e parti di tomaia che ricoprivano il tallone e i lati del piede, allacciate da corregge incrociate sul dorso dello stesso.
Le ἐmbάdeς di probabile origine babilonese o tracia, erano scarpe chiuse, per ambo i sessi. Ve ne potevano essere vari modelli, basse o alte a stivaletto, e di diverso colore, come quelle sicione di colore bianco, o quelle laconiche di colore rosso, ma loro comune caratteristica era di non avere tallone. Calzatura prettamente femminile senza tacco era il diάbaqron. Le calzature femminili potevano essere decorate da applicazioni in metallo e colorate anche con porpora. Le nunfίdeς erano le calzature indossate dalle spose. Le Baucides (baukίdeς) (dal greco baukός, "smorfioso, delicato ") erano costose calzature color zafferano popolari soprattutto fra le etere (Athenaeus, Epitome 13.23.568). Alcune avevano suole di sughero per aumentare l’altezza di chi le indossava. Le karbάtinai erano scarpe semiaperte, proteggevano il tallone e le dita del piede ed erano molto similie all'ἀrbύlh. I coturni, (kόqornoς parola di probabile origine lidia, vd. Herodotus 1.155) erano scarpe o stivali degli attori tragici, caratterizzati da una suola larga, non ritagliata sulla forma del piede, tanto che non esisteva distinzione tra il paio destro e quello sinistro, spesso alta o altissima per aumentare l’altezza di chi l’indossava . Alcune fonti attestano l’uso di calzature indossate all'interno delle mura domestiche. È noto invece che soprattutto le donne all'interno della propria abitazione usavano andare scalze; mentre nell'Atene classica, chi seguiva i costumi spartani, soleva camminare scalzo anche all'esterno della propria abitazione. Esistevano anche delle calze dette Piloi, il cui nome deriva dal termine greco per feltro (pῖloς) usate solitamente con le embades o endromis per proteggere la pelle del piede e mantenerlo caldo. Per proteggere le gambe dal freddo vi si applicavano lunghi pezzi di stoffa che arrivavano fino al polpaccio, Queste stoffe venivano poi cucite alle estremità e venivano utilizzate probabilmente anche per isolare la pelle dal cuoio. Le Trochadia erano i sandali greci indossati dai corridori. I principali centri di lavorazione del pellame erano la Sicilia, il Mar Nero, la Cirenacia e l'Asia Minore. I calzolai ricoprivano sia il ruolo di fabbricanti di scarpe sia di conciatori di pelli e tra di loro ricordiamo Cleneto. Le pelli venivano conciate con allume e quelle così trattate erano molto apprezzate e quindi costose, mentre il grasso di maiale o la morchia d'olio le rendevano più morbide. Per colorarle o conciarle venivano utilizzati Foglie di more, corteccia di alcune conifere, scorze di melograno, ghiande, radici e bacche di vite selvatica, frutti dell'acacia egiziana e corteccia di quercia. Le pelli venivano colorate come i tessuti, utilizzando cortecce vegetali, neri di origine minerale o metallica e terre rosse.
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