a n d r e a s t e r p a |
E x h i b i t i o n s |
|
▪
home
▪
essays
|
3 Ore e 15 Minuti
o n e s h o t 1 3 g i u g n o
“Tre ore e
quindici minuti”, al tempo stesso il tema di una mostra e la sua durata
effettiva. Il tempo dell’esposizione s’identifica con quello, effimero,
del vernissage. Ma qual è il tempo che dedichiamo a un’opera d’arte, da
spettatori? Le continue sollecitazioni cui i nostri organi di senso -e la
vista in primo luogo- vengono sottoposti quotidianamente finiscono per
creare un flusso percettivo, un rumore di fondo da cui emergono frammenti
di messaggio il più delle volte casuali e incoerenti. La babele iconica
propinata dagli schermi televisivi sollecita il nostro sguardo in modo
talmente invasivo da influenzare lo stesso processo di selezione degli
stimoli che il nostro cervello mette in atto, di giorno e di notte. Le
modalità della visione, i tempi di attenzione si modificano rapidamente e
ciò non può non avere conseguenze sullo sguardo rivolto a un’opera d’arte.
Nell’epoca di Daguerre un ritratto imponeva tempi di posa lunghissimi e
persino un apparecchio per tenere immobile la testa del modello. In base a
varie testimonianze letterarie, un’opera d’arte veniva contemplata a
lungo, secondo una nozione del tempo e dello sguardo a noi ormai del tutto
estranea. Furono gli Impressionisti, a introdurre l’immediatezza e il
senso dell’effimero nell’occhio dello spettatore. Più tardi l’illusione
del movimento restituita dallo scorrere dei fotogrammi accelerò i tempi di
risposta e di attenzione del pubblico, ma è stata la tecnica
pubblicitaria, con la sua capacità di attrarre sguardi abitualmente
confusi e distratti, a infondere alle modalità della visione un’ulteriore
rapidità di focalizzazione. La domanda che sorge spontanea è: siamo ancora
in grado di guardare il tempo necessario, di soffermarci su un quadro, una
scultura, una fotografia osservando da diverse prospettive, muovendoci
dall’insieme al singolo dettaglio, gustando la costruzione formale, la
tessitura, la materia, le variazioni timbriche o tonali, i piani e i
volumi, il rapporto dell’opera con lo spazio? In ogni mostra d’arte
contemporanea la domanda viene riproposta, sia pure in modo implicito. In
fondo la sperimentazione è in primo luogo la ricerca di un nuovo punto di
vista, di una nuova modalità dello sguardo, un’interrogazione sull’opera o
anche solo sul progetto dell’opera che solleciti la vista in modo
inaspettato, creando corti circuiti, evidenziando ciò che è negato o non
percepito, ma anche l’atto stesso del percepire. Ha scritto Umberto Eco
che ogni opera d’arte impone percorsi ripetuti, ma solo alcune eleggono
questo principio a base della propria poetica. Di sicuro il tempo di
percorso è una componente ineliminabile, come tempo necessario alla
lettura, alla decodifica e interpretazione. Ci sono opere che giocano
sulla loro complessità per imporre un’attenzione prolungata e altre in cui
è proprio l’icasticità del segno a colpire, opere in cui l’artista
suggerisce il percorso esecutivo e altre in cui l’uso della citazione fa
leva sulla competenza e sulla memoria iconica del fruitore. Il tema della
mostra circoscrive il tempo a una misura precisa, ma è proprio questo
limite, a sollecitare interpretazioni tanto varie. Si va dall’ironia
apocalittica di Mario Verta, con la sua citazione dickiana, alla parodia
dell’efficienza militare di Pier Maurizio Greco, dalla fredda e al tempo
stesso morbosa allusività di Consuelo Mura a quella tenue e preziosa di
Manuela Alampi. Il meccanismo associativo è reso di volta in volta più
oscuro, nell’invilupparsi della forma di Adriana Cappelli, fino a farsi
cifratura informale di emozioni in Antonella Catini o sfociare nel
simbolismo arcaizzante di Paola Giacon. Per Claudio Lia invece la pittura
è testimonianza diretta, affidata all’insorgere dei colori; una diversa
strutturazione del tempo è riscontrabile nella torsione del marmo in
Isabella Nurigiani, un gioco di luce e ombra che articola lo spazio
circostante. Serena Meggiorini propone i suoi riflessi, le sue atmosfere
da impressionismo astratto, laddove Anna Costantini, dietro l’apparente
casualità del gesto, si affida a sottili rispondenze di tessiture e di
toni. La ricerca personale di ogni artista e l’opera che ne è il risultato
sono articolazioni del tempo, tempo dell’ideazione e dell’esecuzione, che
s’interseca con i percorsi diacronici e sincronici dei visitatori, con
quelli della memoria, stratificarsi impercettibile d'immagini, pronte ad
affacciarsi per suggerire nuovi svolgimenti, nuove elaborazioni. Ecco
allora la stilizzazione del segno di Andrea Sterpa a fianco della
partitura geometrizzante di Rosella Barretta, gli sfalsamenti luministici
e temporali di Claudio Orlandi accanto alla composizione di tracce e
orlature di Gabriele Simonetti, registrazione paradossale dell’effimero,
del transeunte. E cosa di più labile di sfuggente, di un paesaggio colto
dal treno, come mostra Giuliano Pastori? Nell’opera di Antonietta
Campilongo la percezione dello scorrere del tempo è scandita dal ritmo
architettonico, elemento di costanza nell’entropia progressiva dei
sentimenti. In altri casi il tempo è fermato e ricomposto in un volto,
come in Angela Vinci o, con vigore espressionistico, in Andrea Cardia. Se
Massimiliano Doria evoca la precarietà con lo sfibrarsi del tessuto, in
Giovanni Novi s’impone l’urgenza espressiva del colore acceso. Un’altra
urgenza è percepibile nel livore anatomico di Rosanna Fedele, mentre
l’impassibilità combinatoria è la cifra ironica di Paola de Santis.
Vincenza Spiridione, infine, riconduce l’excursus temporale al suo
significato tragico di lotta per la sopravvivenza. Come si vede, ogni
singola opera suggerisce una visione del tempo, sia esso percepito come
istantaneità, ritmo, durata o memoria. Le tre ore e i quindici minuti
destinati a questa mostra rappresentano una sfida per chi espone e chi
osserva, un laboratorio del tempo e dello sguardo, affinché si torni a
guardare, a scrutare nella superficie, nella tessitura, negli interstizi
di una struttura e ci si veda riflessi, si ritrovi un distacco, una
visione che non scivola davanti alle cose, ma alle cose dell’arte
restituisce il tempo, tutto il tempo che ci vuole." Stefano
Iatosti
comunicato stampa
http://www.gospark.it/magazine/index.asp?Sez=02&Ord=7&Cod=216&SubSez=02&PageType=art&LastClick=3 |