IL FORMAGGIO GUASTO Mia zia ha avuto sempre stretti rapporti con i riccesi trapiantati nelle campagne toresi. Credo che il rapporto era generato da una sorta di mutuo soccorso. La zia concedeva prestiti in denaro, che puntualmente non le veniva restituito. I debitori però, forse per ammansirla, le concedevano doni in natura. Fu così che nel 1965, un riccese abitante presso il ponte di Toro, ( Zio Giovanni Del Zingaro) donò alla zia alcune pezze di formaggio fresco, appena cagliato. Io e il vecchio nonno, dopo aver assaggiato quel formaggio, ce la cavammo con copiosa diarrea, mentre la zia e i miei due fratelli furono costretti al ricovero presso l’ospedale. Era successo che il vecchio “debitore”, vedovo e solo, non riuscendo, forse, a pulire bene i paioli di rame utilizzati per la cagliata del formaggio, non avendo rimosso del verderame presente alla base del recipiente, tale inconveniente aveva generato una alterazione chimica durante la bollitura, contaminando il formaggio preparato in quel paiolo. Ne seguì naturale inchiesta giudiziare per i succitati fatti che furono divulgati anche dalla stampa. Il vecchio fu costretto a versare una pesante multa e al rimborso delle spese ospedaliere ai malcapitati. Dopo la dimissione dall’ospedale, la zia, arrabbiata e risentita per l’accaduto, ebbe a richiedergli i soldi dati in prestito al contadino, costui ebbe seccamente a replicarle: “ ma come, dopo che mi hai costretto a versare i soldi della multa e quelli per l’ospedale, pretendi ancora altri soldi? La zia da quella risposta capì che ancora una volta, quei finti amici, l’avevano beffata. LA “VRODA” CALDA , ovvero, lo scattone non si usava a Toro Una ragazza torese, della famiglia d’Amico, era fidanzata con un bel ragazzo, suo coetaneo, ma costui non tornò mai più dalla guerra e la ragazza, disperata, pensava di rimanere eterna zitella. Gli anni avanzavano e per l’infelice ragazza non c’era speranza che potesse trovare un nuovo fidanzato. Fu soccorsa dalla fortuna, allorquando, suo padre, falegname, aveva invitato, durante la fiera in paese, un venditore di scale e botti di Casalciprano, affinchè acquistasse delle assi di legno residue, buone solo per il mestiere dell’ospite e idonee per i suoi manufatti. L’affare fu fatto e il falegname volle offrire all’ospite anche il pranzo. La ragazza fu molto gentile con l’ospite. Colpito dalla gentilezza della ragazza, il venditore di botti, che nonostante l’avanzata età, era ancora scapolo, in seguito, tornato in paese, chiese la mano della ragazza, e lieto fu il falegname di accordargliela. Ora, in quel primo pranzo a Toro, l’ospite fu trattato con tutti i riguardi ed ebbe a pranzare maccheroni e carne. Quando la fidanzata, in seguito, ebbe a fare l’entrata ufficiale dai futuri suoceri a Casalciprano, i vecchi furono molto accoglienti ma le prepararono solo del semplice scattone, pane raffermo imbevuto con vino caldo, insomma una sorta di zuppa, che a Toro non si usava. Estremamente delusa la ragazza ebbe a dire, con certa enfasi allo sposo: “ ma come, io a Toro ti ho accolto a casa mia con carne e maccheroni e tu mi hai fatto trovare, come una scrofa, la “vroda” calda ! L’ARTISTA “FIACCA” IN PIAZZA Erano tutti stanchi la sera, dopo i faticosi lavori nei campi per potersi portare nella piazza e vedere lo spettacolo di Fiacca. Fiacca si esibiva in vari esercizi molto spettacolari. La prima sera fece il suo spettacolo per pochi spettatori, quasi tutti ragazzi, ma nelle sere seguenti, il pubblico aumentò. Nella terza serata la piazza era gremita, insufficiente per contenere il gran pubblico, accorso ad applaudire l’artista di strada, che addirittura dai balconi gli lanciavano i fiori, osannandolo. Per i suoi spettacoli aveva bisogno di continui travestimenti e di utilizzare strani arnesi; per tale scopo fu sfrattato il barbiere e messo a disposizione il suo salone. Si esibiva insieme ai componenti della sua famiglia che lo coadiuvavano nelle sue imprese. Era impressionante vederlo rompere un boccione di vetro con un martello, sminuzzare il vetro e adagiarlo per terra affinchè vi si potesse posare sopra e dopo l’esercizio mostrare le ferite e il sangue che gli ricopriva tutta la schiena. Poi prendeva due grossi cavi elettrici e faceva accendere delle lampade sulle sue braccia. Faceva difficili esercizi di saltimbanco e di equilibrista. Non meno sorprendente il numero che lo vedeva legato da grossa catena dalla quale , grazie alla sua possente muscolatura, riusciva a divincolarsi. Per i numeri comici si serviva del suo fido cagnolino che, ben ammaestrato, riusciva a far ridere a crepapelle gli spettatori. Era utilizzato proprio il suo cagnolino a raccogliere tra la gente, con un piccolo canestro tra i denti, le numerose offerte, mentre dai balconi lanciavano altre monete, divertendosi a colpire il cane. Ma gli uomini, impazienti, attendevano l’esibizione della sua avvenente figliola, seminuda, che con delle movenze dolci e conturbanti, riusciva ad eccitare gli uomini e a far ingelosire le donne. Con i suoi balletti, al suono della fisarmonica del padre, Fiacca, si avvicinava a qualche uomo fingendolo di baciare. Con la danza finale, lenta, al suono di un mesto violino, la vedeva slacciarsi la residua sottoveste e velocemente riguadagnava il salone ulteriormente svestita. Fu a causa di questo numero un po’ ardito per quel 1958, che qualcuno additò e indicò quello spettacolo volgare, e che soprattutto, violava la quiete pubblica e il comune senso del pudore. Purtroppo, le malelingue, asserirono, che quegli indecorosi spettacoli erano controllati anche dal parroco, che dal torrione del campanile, controllava da vicino la vita morale dei propri fedeli. Fiacca andò via dal paese nel generale rimpianto, tranquillinzandone però uno: il parroco. DOPO I PORCI. Quell’anno, forse perché aveva nevicato tanto, forse perché era stato sparso tanto di quel letame, forse perché era stata effettuata l’anno prima una buona potatura, insomma, quelle piante di mele limoncelle si mostravano finalmente rigogliose, tanto che Zio Natangelo osservava con orgoglio quei frutti e, quasi rapito, ne contemplava la lucente bellezza. Decise di coglierle di mancanza, a fine settembre: si sarebbero conservate per tutto il lungo inverno. Col suo fedele asinello, munito di bigonce, si recò per ben tre giorni consecutivi nella Valle delle Canne, per andare a cogliere quei bei frutti . Fece più volte la spola tra la campagna e il paese con le bigonce zeppe di mele, che spesso facevano inciampare il povero asino sovraccarico nelle fratte . Lungo il viottolo ne dispensava parecchie a chi gli augurava, quasi con invidia “Sante Martine” e lui, felice di rispondere “Bonminute, favorite, pigliatevene quante ne volete, riemepitevi pure la bisaccia”. Nel fondaco le adagiò con cautela sul pavimento di cotto, sotto il cascione, nel soffitto, sulla ” pirtiere”, sull’impalcato, e tante anche sotto il sottoscala. Non sapeva proprio dove metterle più, tante le aveva riposte anche sotto i letti e nella base della credenza. Ma erano veramente tante! Allora Zio Natangelo, con finto altruismo, ne dispensò a tutti vicini, non abituati a ricevere doni da quell’ uomo da tutti ritenuto piuttosto avaro. Si rese conto che non poteva lasciare altre mele residue nelle bigonce, si sarebbero infradiciate. Allora, visto che doveva recarsi all’Ufficio postale per riscuotere la pensione, vi andò carico di due grossi canestri pieni di mele. Durante la fila ne dispensò parecchie e giunto presso lo sportello, disse alle impiegate: “signorine, le volete queste mie mele? Purtroppo, quest’anno ne ho avuto tante: non so proprio dove metterle, ho riempito tutti gli angoli di casa, la soffitta è sovraccarica ed ho paura che crolli, i vicini sono sazi e i porci non vi dico…”. Allora, una delle due signorine allo sportello, mentre ritirava il suo canestro, ebbe a replicargli umilmente: "Beh , visto che ne avete raccolto proprio tante e i vostri porci non ne vogliono proprio più , datele pure a noi ! Era la prima volta in paese, che quelle temute impiegate che dispensavano tanti soldi ai pensionati, avevano l’umiltà di porsi gerarchicamente financo dietro i porci. POZZI E FONTANE A TORO "L'agro del Comune di Toro e' attraversato dal fiume Tappino , bordeggiato da altro fiume, detto Fiumarello di S.Giovanni. Il secondo immette nel primo, e questo si scarica nel Fortore. Il primo, cioe' il Tappino da' moto a due molini. Non fanno pantani nocivi avendo entrambi libero corso. Quante fontane pubbliche sono, dentro l'abitato ? Quanta acqua possono dare in un determinato tempo, misurandola con la caraffa napolitana di trentatre' once e mezza ? Niuna fontana pubblica si trova dentro l'abitato. Quante fontane pubbliche si trovano per le campagne? Per le campagne in siti piu o meno prossimi all'abitato, trovansi dieci fontane, e si chiamano: Pozzo a Monte, Fontana al Monte, Pozzo di Lucia, Fontana Viola, Fontana Peluso, Fontana a Basso, Fontana Nuova, Pozzo della Canala, Pozzo Santa Maria, Pozzo Nnuovo. Il primo da trecento tini di caraffe quindici l'uno, al giorno; ma nei mesi di luglio, agosto, settembre, o delle volte anche in ottobre, non da' piu' di 24 tini al giorno. L'acqua e' fresca , leggiera, ed ha tutte le buone qualita' di acqua potabile. la stessa quantita' da' la seconda fontana; ma l'acqua e' pesante. Il pozzo da cento tini al giorno, ma nei mesi estivi dissecca quasi totalmente. L'acqua e' pesante. La quarta da' duecento tini al giorno d'acqua pesante. La quinta da trecento tini al giorno d'acqua salsa. La sesta da trecento tini al giorno d'acqua salsa. La settima da duecento tini al giorno d'acqua pesante. L'ottava da cento tini al giorno d'acqua potabile. Il nono da duecento tini al giorno di acqua potabile, ma nei mesi estivi ne da trenta. Il decimo , il piu' lontano dell'abitato, da perennemente trecento tini al giorno d'acqua potabile, fresca e leggiera. Tutti questi serbatoi d'acqua non hanno iscrizione, ne' vi e' tradizione dell'epoca della loro costruzione; ma le pietre vive, quasi interamente rose nei punti in cui le donne intromettevano le braccia per attingere l'acqua, indicano di esser state costruite in epoche remote. soltanto si sa che il decimo fu scavato nel 1794." Luigi Alberto Trotta L’ albero della cuccagna in piazza in piazza. Durante la festa di S.Antonio, nel primo pomeriggio, prima che scendesse la banda a rallegrare il paese con le marcette, al centro della piazza del paese fu issato l’enorme palo della cuccagna, alla cui sommità fu posto il cerchio con i soliti doni prelibati. Dagli altarini votivi fu prelevato qualche raro prosciutto, salami, formaggi, che poi vennero posti a circolo nel cerchio dell’albero della cuccagna. Gli altri doni: agnelli, pasta, uova, vino e olio furono poi venduti all’asta, sulla cassa armonica, in piazza, per contribuire alle spese dei festeggiamenti. Martinangelo, come al solito, fu addetto ad ungere e ad ingrassare il palo, e man mano che scendeva i gradini della scala, i numerosi spettatori assiepati a circolo, non capirono se quell’esagerato luccichio sulla sua fronte era dovuto all’unto o al sudore, alcuni scommisero che si trattava di semplice emozione nell'intento di compiere quel rito che ormai sapeva di liturgico, per la estrema serietà con la quale Martingelo lo assolveva ogni volta. Uno stuolo di baldi giovani, mossi più dall’esibire la loro forza muscolare che mirare alle leccornie in alto sul palo, avanzarono a turno e salirono solo di qualche metro lungo il palo, ma il grasso li faceva scivolare inesorabilmente a terra. Il pubblico si divertì a dismisura ad osservare quei giovani sporchi e unti che caddero miseramente a terra, dopo alcuni ardui e vani tentativi . Giovanni Iacobacci quell'anno era disoccupato, mosso più dal bisogno di conquistare quel prelibato trofeo, anzichè quello di esibire la sua pur possente forza, fu l’unico tra i concorrenti che riuscì nell’ impresa di portarsi a casa tutto quel ben di dio. Oltre alle sue forti braccia con le quali agganciò il palo, le sue abili gambe si attorcigliarono lungo l’asse come una serpe, ed avanzò in alto senza cedere e mai indietreggiare. Giovanni, quell’anno, per quell’impresa si servì di una valida complice: la moglie. Costei aveva dotato il marito di una speciale tuta, fatta di sacchi di iuta, sulla quale aveva cucito almeno una decina di grosse tasche. Giovanni riempì tutte quelle tasche di cenere che cosparse, con rapide bracciate, man mano che avanzò in alto, sulla viscida superficie del palo.La fatica e la calura estiva resero quell’uomo irriconoscibile, a causa del sudore e del grasso, che si appiccicarono come pece su quella tuta di iuta, trasformandolo in un caronte che fece enorme paura ai bambini presenti numerosi allo spettacolo. Molti si congratularono col vincitore, senza peraltro potergli stringere la mano, annerita dal grasso. Di nuovo, anche questa volta entrò in gioco l’aiuto insostituibile della moglie, che riuscì a liberarlo da quelle incrostazioni di unto e grasso, lavandolo per ore in una tinozza piena d’acqua calda, con rena e sapone, come era solita fare quando ripuliva i cocci di rame.La gioia di Giovanni fu grande, non tanto perché vincitore nel divertente gioco, ma perché quella fu occasione propizia, unica, di procacciarsi un prosciutto, salami e formaggi che sfamarono la sua numerosa famiglia per mesi. IL PORCELLINO DI S. ANTONIO QUASI IN TUTTI I PAESI, DA PARTE DI QUALCHE CONTADINO CHE HA AVUTO UNA PROSPERA NIDIATA DI PORCELLINI DA PARTE DELLA PROPRIA SCROFA, USA DONARNE UNO IN ONORE AL SANTO PROTETTORE DEGLI ANIMALI, SANT ’ ANTONIO ABATE, LA CUI FESTA RICADE A META’ GENNAIO. IL PORCELLINO DAPPRIMA VIENE FATTO GIRARE PER TUTTO IL PAESE DA PARTE DEI RAGAZZINI CHE LO CONDUCONO LEGATO DI CASA IN CASA, IN CERCA DI QUALCHE ALIMENTO, E POI, MAN MANO VIENE LASCIATO LIBERO DI SCODINZOLARE SOLO PER TUTTO L’ABITATO.TUTTI LO ACCOGLIEVANO VOLENTIERI E SALUTANDOLO CON “ VAI IN PACE, ANTONIO” GLI DAVANO DA MANGIARE. NESSUNO OSA MALTRATTARLO PERCHE’ SI TEME L’ EVENTUALE VENDETTA DI SANT ’ ANTONIO. IL PORCELLINO, UNA VOLTA INGRASSATO, VIENE VENDUTO UN PO’ A TUTTI AFFINCHE’ SI CONTRIBUISCA CON IL DENARO ALLE SPESE PER LA FESTA DI A. ANTONIO. TUTTI ACQUISTANO UN PO’ DELLA SUA CARNE PER DEVOZIONE DEL SANTO ROTTURA DELLA PIGNATTA Nel corso delle feste si issavano con una corda a tre metri da terra delle pignatte legate ad una corda ben tesa. All’interno delle pignatte vengono inserite dei premi per chi riesce, bendato, a romperle con una mazza lunga, qualche volta i premi consistono in acqua, cenere o carbone qualche altra volta in piccole somme di denaro. Tutti si divertono in piazza al divertente spettacolo molto seguito dagli astanti. La cuccagna In cima ad un palo, alto otto o nove metri, cosparso di olio di lino e sapone, viene posto un premio: una pezza di formaggio, un prosciutto, un gallo o altro. Chi riesce a raggiungere la sommità del palo e acciuffare i premi ne diviene padrone. Essendo il palo sdrucciolevole, i contendenti si muniscono di cenere o crusca per attecchire la presa. Tutti ridono per le ardue arrampicate. La visita di leva Partimmo in quattro dal paese, eravamo tutti della stessa classe, chiamati ad assolvere alla visita di leva. Col treno raggiungemmo Foggia. L’avviso che avevamo avuto ci invitava a raggiungere il locale Distretto Militare, dove trovammo altri giovani in attesa di sottoporsi a quella visita. I locali della caserma, fatiscenti, sporchi e scuri, incutevano certo disagio e la prospettiva di dover consumare lì il pranzo, nella mensa militare, fu scartata subito, ancor di più fu scartata l’ipotesi di poter rimanere a dormire in quegli squallidi cameroni militari. Preferimmo andare in una modesta pensione. Ci presentammo di buon mattino al Distretto Militare. Fummo invitati a spogliarci e ufficiali medici alquanto annoiati, svogliatamente eseguivano le solite monotone operazioni quotidiane. Fummo pesati, misurati, auscultati, tastati, ecc. Ma tutti attendevamo con preoccupante ansia la visita al basso ventre. Un ufficiale medico, omone grosso e grasso, con presa sicura e senza minimamente scomporsi, acchiappava violentemente lo scroto e con movimenti svelti e decisi cercava di indovinare forma e consistenza degli attributi in esso contenuti. Eravamo tutti nudi, quando imprevedibilmente, ci ritrovavammo a dover competere in una gara di virilità, perché uno scostumato di Riccia, in attesa della visita, indicava a dito, con gran scherno, coloro che la natura aveva meno dotato. Uno del nostro gruppo, che aveva preso alloggiio con noi alla stessa pensione,vistosi additato, per non soggiacere all'ignobile affronto, ricorreva a strane manovre, pur di non subire pubblico ludibrio. Ma il riccese, accortosi del facile espediente del nostro amico, oltre allo scherno, lo derise con sarcasmo. Insomma, il nostro compagno di pensione ne uscì avvilito, umiliato, da quella caserma, perché il poveretto, ci diceva, rimasto orfano, aveva trascorso gran parte della fanciullezza in collegio ed era anche un po’ inibito. Tornati, insieme a lui, nella pensione, in serata ci fu proposto se gradivamo la compagnia di una donnetta. Sarà stato per l’affronto subito in mattinata da quel cafone, sarà stato per smentire nei fatti la sua discussa virilità, senza scomporsi minimamente, il nostro amico si avviò dietro la donnetta, che in una stanza della stessa pensione esercitava quell'antico mestiere. Eravamo in trepidante ansia di sapere dall’amico come fosse andata e lui, euforico, quasi tramortito, forse perchè alla sua prima esperienza, in romanesco, avendo conservato quella parlata del collegio di Roma, dove aveva studiato, ci fa: - “ che bello, era er paradiso, me sembrava Eva tutta nuda, me tirava come er mulinello, m’ero scordato pure de pagarla … che bello, che bello…che bello! Il suo entusiasmo e le sue parole ci avevano fatto ridere e dimenticare del vile affronto subito in caserma, evidentemente non occorrono grandi cannoni per abbattere la “Bastiglia”, basta anche un cannoncino, purchè miri bene e centri l’obiettivo. postato da: Anchise1 alle ore 13:48 | link | commenti categorie: IL PELLEGRINAGGIO... IL PELLEGRINAGGIO I fedeli si riunivano sotto la guida di un capo, detto 'u prjiore, si mettevano 'n goppe 'i spalle 'a v'sazze (sulle spalle la bisaccia) piena di provviste e partivano verso i santuari. Le mete erano soprattutto in puglia: a s. Michele Arcangelo sul Gargano, s.Nicola a Bari e all' Incoronata di Foggia. Oppure in Campania: al santuario della Madonna di Montevergine e a quello della Madonna di Pompei . I piu' poveri, i piu' devoti e i piu' resistenti andavano a piedi; i proprietari di animali cavalcavano le loro bestie da soma; gli altri andavano a pagamento sul carro. Il carro ( 'u traine ) trasportava fino a 40 persone su 'i tav'lune ( grosse assi di legno): I piu' giovani si sedevano dietro con le gambe ciondoloni. In tempi piu' recenti sono stati utilizzati prima gli autocarri, poi le autocorriere. Durante i pernottamenti i pellegrini dormivano quasi tutti nelle case private, sopra i sacchi di paglia. Il viaggio dei pellegrini che si recavano al santuario di s. Michele Arcangelo durava una settimana. Si partiva la mattina presto, dopo aver assistito alla s.messa e aver ricevuto la benedizione. i pellegrini si mettevano in processione e cantavano le litanie, poi, all'uscita del paese, nei pressi della masseria "Beniamino", avveniva lo scambio dei saluti tra chi partiva e chi restava. La prima fermata era presso la taverna di Pietracatella: i pellegrini mangiavano, mentre gli animali riposavano. Sulle salite ripide di motta Montecorvino, dopo la sosta al santuario di Volturara, 'i traine potevano trasportare solo le persone anziane o piu' deboli. Giunti al santuario, sempre col canto delle litanie, facevano tre giri intorno alla chiesa e dopo aver comprato le candele da donare al santuario, in ginocchio entravano devotamente. Al ritorno dai santuari, i fedeli formavano una processione, le donne avanti, gli uomini dietro. Si andava uno per fila e ognuno portava una candela, molte volte dipinta di fiori. Iniziava il corteo una persona che portava lo stendardo con cui dal paese si era venuti incontro ai pellegrini, seguiva quindi il crocifisso della comitiva. Si cantavano le litanie, uno cantava da solista, tutti gli altri fedeli rispondevano in coro "ora pro nobis". Le persone che andavano ai santuari erano spinte dalle motivazioni piu' diverse. Prima di tutti vi erano le giovani coppie di sposi, che andavano ad invocare una buona figliolanza, e i fedeli che avevano un voto da sciogliere. Altri pellegrini si dirigevano ai santuari per motivi piu' profani. Dopo aver semintao il granoturco, in attesa della raccolta del grano,si concedevano una "pausa di piacere". Nonostante le severe condanne delle persone piu' devote, per la maggior parte il viaggio costituiva un'occasione di divertimento, anche se sotto agiva la spinta di una fede piu' o meno rudimentale. * Al trainere (guidatore del carro) il vino veniva offerto dai pellegrini. si racconta che una volta, la compagnia di Montagano era trasportata da 'nu trainere di nome Michele. I suoi compaesani cantavano "Michele ! vive sant' Michele !", e lui intanto beveva…bevendo e bevendo si ubriaco' e incomincio' ad andare fuori strada. " e mo' che fai" ?, gli chiesero spaventati i pellegrini. " e vvu' avete ditte: vive Michele ! e i' v'veve.." rispose allegramente u' trainere. Tema della testimonianza di questa settimana è il malocchio, ovvero diagnosi e cura di una malattia frequentissima un tempo e oggi certamente non scomparsa, ma ha cambiato pelle: parliamo della superstizione. Da piccolo abitavo vicino alla casa di Zia Maria. Perennemente vestita di nero, scheletrica e alta, mi incuteva soggezione e paura. Nelle lunghe sere d’inverno mi raccontava favole e filastrocche. Storie di briganti, di fate, di orchi, di streghe, di lupi mannari, di “mazzamarille”, venivano narrate da lei a tutti i bambini del vicinato, forse con intenti pedagogici, per farci stare buoni perchè finiva sempre col minacciare “ altrimenti la strega prenderà anche a voi”. Ad una curiosa concezione magico-superstiziosa si collegava tutto quel mondo di favole e di leggende di zia Maria, ma rari erano anche quei nonni e genitori che non usavano tali forme di suggestione . Quando ci ammalavamo come primo rimedio i genitori ci mandavano da zia Maria. Allora le malattie nei bambini erano abbastanza numerose e frequenti, ed anche la più lieve indisposizione faceva stare in ansia l'intera famiglia. Tutte le malattie erano imputate al "malocchio" e in funzione di questa diagnosi curate da zia Maria. Ci si poteva ammalare ed eventualmente morire di "malocchio" diceva lei. Per combattere il "malocchio" bisognava "incantarlo" , diceva . Prendeva un piatto contenente dell’acqua, faceva la croce recitando, ogni volta che si toccava la parte superiore del piatto, la formula di rito. Dette le parole, lasciava cadere tre gocce d'olio nell'acqua del piatto; se quest'olio si scioglieva, Zia Maria era certa che si trattava di "invidia", altrimenti no. Allora si metteva a recitare salmi strani con toni minacciosi. Se il "malocchio" non scompariva neanche con questo "contramalocchio" Zia Maria diceva che doveva trattarsi di un "malocchio ferrato" ossia "malocchio" fatto fa una persona che aveva con sé un oggetto di ferro. Seguivano altri riti ancora più tenebrosi. Io, durante quei riti magici, avevo paura, perché si nominavano insieme santi e streghe. Soprattutto ero convinto che la vera strega era lei: Zia Maria. LA PAURA In una notte primaverile, dagli occupanti della vecchia casa di Rua della Scimmia, si udirono grida isteriche che svegliarono i vicini. Era Zio Vicienzo che, impaurito, gridava - “la paura, la paura, aiuto, aiuto.. la paura” mentre la moglie , ancor più spaventata, nella precipitosa fuga dal vicolo, si scontrò con Zio Nicolangelo che le chiese cosa diavolo le fosse capitato, e Zia Ninella, tutta esagitata, a gridare : ” ho paura della paura, ho paura della paura” . I vicini avevano avvisato quella coppia di anziani di non comprare quella casaccia , certo, si era venduta per molto poco, ma solo perché nessuno la voleva. Il motivo era semplice, perché quella casa era abitata dalla “paura”, ma i due vecchi non vollero dare ascolto ai vicini. In paese si raccontava che in passato fosse stata abitata da una sposa infelice, e per tale motivo morta avvelenata. Ora, di tanto in tanto, il suo spirito inquieto, vagava sotto forma spettrale per casa di Zio Vicienzo, con rumori strani. Insomma, i vicini non ne potevano più di quegli spaventi notturni e allora Zio Nicolangelo, omone grosso e coraggioso, mossosi a compassione dei vicini, pieno di coraggio, entrò in quella casa spiritata e si mise a recitare al alta voce la formula magica imparata dal magaro -” Tre parti di Dio e una di Maria, dimmi chi sei ? “ E mentre avanzava per sfidare e allontanare la “paura” notò sopra il portabarili di Zio Vicienzo una grossa caldaia, dalla quale fuoriuscivano grosse lumache, messe lì a spurgare da Zio Vicienzo, che volendo uscire da quel recipiente, risalendo fino all’orlo, poi, rumorosamente ricadevano in pentola, facendo tutto quel rumoraccio che aveva fatto gridare, in piena notte, Zio Vicienzo e Zia Ninella ,contro la temuta paura. Visita episcopale 1846 "Nel 1846 venne l'Arcivescovo di Benevento, il cardinale Domenico Carafa di Traetto. il prelato viaggiava a cavallo, perche' ancora non era costruita la strada carreggiabile da Campobasso a Toro, accompagnato da quattro canonici, due camerieri e dal suo vicario, monsignor pasquale balsamo, barese. il paese era festante; si trattava delle cresima; e un viavai di compari, comari e figliocci, nastrai, cerajoli, orefici, cursori di curia, animava le vie e le piazze con parecchi capannelli insoliti e le campane suonavano a distesa. Il prelato fu nostro ospite per una settimana." DELLA VITA E DELLE OPERE DI DOMENICO TROTTA E DE' SUOI TEMPI NELLA PROVINCIA DI MOLISE"- TORO 1879 postato da: Anchise1 alle ore 13:27 | link | commenti categorie: CULTI DI S. ANTONIO... Le pagnottelle di s. Antonio - il culto di donare pagnottelle di pane nel giorno di s. Antonio e' legato ad uno dei miracoli del santo: guari' un bambino e invito' i genitori a donare ai poveri tanto grano quanto era il peso del bimbo. La tradizione del pane e' arrivata dal Veneto in tempi non antichissimi, e si e' svolta sempre allo stesso modo, anche oggi che i poveri non ci sono piu'. Le pagnottelle , preparate per l'occasione, si collocano in un ampio cesto e si fanno benedire , di solito alla prima messa del convento dei frati, e vengono poi distribuite . Per devozione, prima di mangiarle, si baciano, segnandosi col segno di croce e recitando una preghiera. IL MONACELLO altro culto devozionale per il santo dei miracoli, e' quello del "monacello" il bimbo che colpito da qualche male, viene rivestito dell'abitino marrone col cordoncino, per impetrare la grazia della guarigione o per grazia ricevuta. A volte lo si faceva indossare per mesi interi, per pura scaramanzia. IL FUOCO DI S. ANTONIO Anche questa usanza tradizionale collegata a riti antichi, di purificazione e di propiziazione, viene ripetuta durante la tredicina dedicata al santo, sicche', ogni sera in ogni via o rione viene acceso un falo' di canne e frasche. La sera del 13 , l'ultima, viene issato sul falo' un fantoccio a forma di bambola che viene bruciato appena le fiamme del falo' lo lambiscono. seguono poi tavolate , intorno al fuoco, con gnocchi e salsiccia. postato da: Anchise1 alle ore 13:15 | link | commenti categorie: GASTRONOMIA TORESE PIETANZE CONTADINE A FARINE DE RENDIN'JE' I contadini poveri avevano come base della loro alimentazione la farina di ganturco. Con essa alcuni facevano i "fraschetille " una specie di polenta piu' grossolana e piu' liquida. Dopo aver stacciata la farina, la si raduna nel mezzo del tavoliere, e dopo averci fatto un piccolo fossetto nel mezzo, vi si versa dell'acqua tiepida e si da' ad impastare. Di tutto l'impasto ne forma una grossa palla che lentamente e con cura schiaccia, in modo da ridurla in forma di un grosso e pesante disco giallo oro e vi imprime nel mezzo con la mano dritta il segno di croce. dopo prepara il luogo di cottura della pizza, cioe', spazza il centro del focolare ben bene e poi ve la depone sotto la coppa, ricoprendo quest'ultima della brace e cenere del fococlare. Sistematio tutto, la pizza, bella e cotta, si leva dal fuoco, si spezza e si mescola o coi legumi o con la minestra verde. Durante la giornata viene mangiata con peperoni o pomodoro sotto aceto, o semplicemente unta con olio soffritto con aglio. Il segno della croce impresso nel bel disco giallo fa si che la pizza possa facilmente dividersi in quattro parti. FRASCATILLE: si fa soffriggere cipolla e pomodoro, si aggiunge circa 700 gr. di farina con acqua l’acqua si fa scendere piano piano sulla farina fino a formare delle piccole palline che un po’ alla volta vengono cotte con l’impasto. quindi si fa cucinare per 5 minuti. PANUNTE : pizza a mallevita con baccala’ o pomodoro o salsiccia, cicolilli o peperoni. CIPOLLATA : con abbondante cipolla, che si soffrigge nell’olio di oliva , si aggiungono pezzi di baccala’ che si cucinano per 5 minuti, si aggiunge quindi pizza di granone e si mescola facendo cuocere ancora per circa 5 o 10 minuti. SCIALBETTA : mosto cotto con aggiunta di neve fresca. SANGUE DI PORCO : un litro di sangue con due litri di mostocotto, con aggiunta di mandorle e bucce di arancia. si fa bollire per tre o quattro ore a bagnomaria finche’ si solidifica un po’. i bambini lo spalmavano su fette di pane e ne erano ghiottissimi. MACCARUNE CA' MULLICHE: si prendono i maccheroni cosidetti “ perciati” che si cuociono al dente, quindi si aggiunge mollica, precedentenmente triturata sulla tavola da bucato, che viene intrisa con olio , aglio e prezzemolo e con l’aggiunta di un pezzo di cannella . A' SCANNATURE : si versa del sangue fresco di animale appena squartato, in recipiente smaltato basso e largo che dondolonadolo ne permetta il caglio con spessore di qualche centimetro. si fa bollire l’acqua con sale e si tuffa il sangue solidificato tagliato a listelli di 4 / 5 centimetri. dopo 10 miniti di bollitura, quindi scolare . si taglia dopo la bollitura. si fa soffriggere la cipolla con olio d’oliva e un po’ di pomodoro e si fa rosolare, mescolare e farlo insaporire il tutto per 10 minuti. si accompagna con pizzamallevita. PIZZA MALLEVITA : 1 kg. di farina, ½ bicchire olio di oliva, 1 cucchiaino bicarbonato e acqua tiepida e sale. si mescola affinche’ l’impasto sia morbido e liscio e si cuoce sottocoppa per ¾ d’ora su liscia ben fatta e preparata *** ** liscia ben preparata: per sapere se la liscia e’ pronta, si pulisce con scoparello e buttando un po’ di farina di granone, questo deve poter bruciare. postato da: Anchise1 alle ore 13:02 | link | commenti (1) categorie: per acqua con la tina ANDARE PER ACQUA CON LA “TINA ” Munite di "spara e tina” andavano le donne ad attingere l’acqua dai vari pozzi del paese : pozzo a monte, fontana a valle , neviera. Se la ritualistica degli sguardi d’amore nelle giornate di festa avveniva davanti alla chiesa, sfacciatamente, per tutto l’anno si rinnovava sulla strada che portava al pozzo. Questo era il quotidiano impegno delle ragazze che andavano a prendere l’acqua. “Alzati presto e non farti precedere dalle altre” dicevano le mamme alle figlie, specialmente nei mesi estivi, quando la siccita’ impoveriva i pozzi e non si riusciva ad attingere acqua pulita. Acqua melmosa veniva fuori da quelle poveri sorgenti, ma nessuno la voleva; toccava a chi attingeva per ultimo. allora liti furibonde si accendevano ai bordi delle fonti ove ognuna affermava i suoi diritti di precedenza. “Andare per acqua” era, pero’, anche momento di gioia. Il pozzo si trovava lontano, ma la distanza non spaventava quelle giovani fanciulle: una volta, due volte, tre volte travasavano l’acqua della tina al recipiente piu’ grande e via di nuovo ad attingere. Il pozzo era il punto di incontro con le amiche, ma non solo con loro. Lui era li’ , all’angolo della strada. La ragazza sentiva lo sguardo su di se’ ma passava diritto, con indifferenza, senza voltarsi; scambiarsi un saluto o poche parole nemmeno a pensarci. Quel giovanotto, probabilmente, non era l’uomo dei suoi sogni e, sicuramente, non sarebbe divenuto l’uomo della sua vita, ma la presenza riempiva di felicita’ il cuore della ragazza. Allora quando il contenitore o i barili dell’acqua tenuti in casa stavano per essere riempiti e la festa mattutina dell’amore volgeva alla fine, la ragazza tendeva ad allungare il tempo e il rituale: a meta’ strada, quando nessuno la vedeva, riversava per terra il contenuto della tina e via di nuovo ad attingere nuova acqua e nuovi sguardi d’amore per cui sognare e non inaridire. POZZI E FONTANE A TORO rapporto sullo "stato delle acque" di Luigi Alberto Trotta al Peside della Provincia L'agro del comune di Toro e' attraversato dal fiume Tappino , bordeggiato da altro fiume, detto Fiumarello di S.Giovanni. Il secondo immette nel primo, e questo si scarica nel Fortore. Il primo, cioe' il Tappino da' moto a due molini. Non fanno pantani nocivi avendo entrambi libero corso. Quante fontane pubbliche sono, dentro l'abitato ? Quanta acqua possono dare in un determinato tempo, misurandola con la caraffa napoletana di tretatre' once e mezza ? Niuna fontana pubblica si trova dentro l'abitato. Quante fontane pubbliche si trovano per le campagne? Per le campagne in siti piu o meno prossimi all'abitato, trovansi dieci fontane, e si chiamano: pozzo a Monte, fontana al Monte, pozzo di Lucia, fontana Viola, fontana Peluso, fontana a Basso, fontana Nuova, pozzo della Canala, pozzo Santa Maria, pozzo Nuovo. Il primo da trecento tini di caraffe, quindici l'uno al giorno; ma nei mesi di luglio, agosto, settembre, o delle volte anche in ottobre, non da' piu' di 24 tini al giorno. L'acqua e' fresca , leggiera, ed ha tutte le buone qualità di acqua potabile. La stessa quantità da' la seconda fontana; ma l'acqua e' pesante. Il pozzo da cento tini al giorno, ma nei mesi estivi dissecca quasi totalmente; l'acqua e' pesante. La quarta da' duecento tini al giorno d'acqua pesante. La quinta da trecento tini al giorno d'acqua salsa. La sesta da trecento tini al giorno d'acqua salsa. La settima da duecento tini al giorno d'acqua pesante. L'ottava da cento tini al giorno d'acqua potabile. Il nono da duecento tini al giorno di acqua potabile, ma nei mesi estivi ne da trenta. Il decimo , il più lontano dell'abitato, da perennemente trecento tini al giorno d'acqua potabile, fresca e leggiera. Tutti questi serbatoi d'acqua non hanno iscrizione, ne' vi e' tradizione dell'epoca della loro costruzione; ma le pietre vive, quasi interamente rose nei punti in cui le donne intromettevano le braccia per attinger l'acqua, indicano di esser state costruite in epoche remote. Soltanto si sa che il decimo fu scavato nel 1794. Luigi Alberto Trotta postato da: Anchise1 alle ore 12:49 | link | commenti categorie: lavare i panni al fiume PARTE DELLA MIA RACCOLTA ETNOGRAFICA 1 2 3 4 5 | next 5 >> AL FIUME A LAVARE I PANNI ERA UNO DEI LUOGHI D’INCONTRO E DI LAVORO PIU’ FREQUENTATI. LONTANO O VICINO CHE FOSSE VENIVA RAGGIUNTO DALLE DONNE DI BUON MATTINO. IN QUELL’ACQUA FREDDA E PULITA SI PORTAVANO A LAVARE TUTTI I PANNI ACCUMULATI, A VOLTE , PER MESI. SISTEMAVANO IL LAVATOIO CON PIETRE SU CUI INGINOCCHIARSI AD UNA RUVIDA, MA NON TROPPO, SU CUI PASSARE I PANNI, BISOGNAVA PREPARARE LA “LISCIVA” (UNA SOLUZIONE ACQUOSA RICAVATA DAI COMPONENTI SOLUBILI DELLA CENERE) CON LA QUALE QUESTI ULTIMI VENIVANO TRATTATI. IL SAPONE, QUELLO FATTO IN CASA CON IL GRASSO DEL MAIALE, SOFFICE ED ABBONDANTE, ERA PRONTO PER ESSERE INTERAMENTE UTILIZZATO. INFINE, DISTESO IL BUCATO SULLE TANTE PIANTE DI SALICE CHE SI TROVAVANO NEI DINTORNI PER ESSERE ASCIUGATO DAL SOLE, ARRIVAVA IL MOMENTO DEL BAGNO. TIMIDE E CIRCOSPETTE, CON ADDOSSO UNA VESTE O UNA SOTTANA CHE ARRIVAVA FIN SOTTO LE GINOCCHIA, LE DONNE ENTRAVANO LENTAMENTE NELL’ACQUA E DOPO AVER INSAPONATO, CON LO STESSO SAPONE DEI PANNI, CAPELLI, COLLO, FACCIA, E BRACCIA SI IMMERGEVANO, RABBRIVIDENDO, NEL FREDDO DEL FIUME. LA PIU’ ANZIANA RESTABA FUORI A VIGILARE AFFINCHE’ IL RITO DEL BAGNO AVVENISSE LONTANO DA INDISCRETI OCCHI MASCHILI. NASCOSTO TRA I SALICI POTEVA ESSERCI SEMPRE QUALCHE GIOVANE PASTORE CHE, LASCIATE LE PECORE INCUSTODITE, AGGIUNGESSE ALLA SUA FANTASIA LA CONCRETA CONOSCENZA DI FORME FEMMINILI, PARTICOLARMENTE RISALTATE DALLE VESTI BAGNATE. A SERA LE DONNE, CON I PANNI PIEGATI, ASCIUGATI E POSTI IN CESTI PORTATI SULLE TESTA, INEBRIATE DAL PROFUMO PROFONDO DI ACQUA E SAPONE DA ESSI EMANATO, PRENDEVANO LA STRADA DEL RITORNO STANCHE MA FELICI. postato da: Anchise1 alle ore 12:30 | link | commenti categorie: L'Emigrazione L' EMIGRAZIONE Partii per l' America. Eravamo tanti figli e poco era la terra da poter coltivare. L'annata andò male e così una sera mio padre mi consigliò di fare ciò che facevano ormai quasi tutti i giovani del paese: emigrare. Attesi l' atto di richiamo di mio fratello e dopo aver venduto il grano, racimolai i soldi per recarmi dal sovragente per ordinargli il bilglietto per Cleveland. L' addio ai vecchi fu straziante ma ancor più duro era vivere quotidianamente nella miseria. Arrivai dopo un lungo e sofferto viaggio sul piroscafo a New York , dove fummo visitati e mandati in un grosso locale per la quarantena. Quando giunsi a Cleveland, mio fratello mi portò nel suo cantiere di lavoro dove fui assunto. Facevo il manovale per pochi dollari al giorno, la sera mi sentivo svenire dalla fatica. Economizzavo anche sul vitto, pur di mandare tanti dollari in Italia. Mi sentivo triste e come un pesce fuor d'acqua. Soprattutto la domenica mi prendeva la nostalgia per la mia terra e per i miei cari, negli altri giorni si lavorava troppo per poter pensare a queste cose. Partii per la Germania Partii dal mio paese il ventinove di giugno, giorno di S. Pietro e Paolo, salutai tutti i miei parenti, gli amici, la mia vecchia madre, mia moglie e i miei tre figlioletti, poi mi allontanai su di una macchina bianca di vecchio stampo.Dopo aver fumato molte sigarette e pianto nascostamente sulla littorina, arrivai alla stazione di Termoli, scesi dalla littorina e mi recai in sala d’attesa, e in quelle due ore di attesa del treno Lecce-Milano, realizzai che ero rimasto solo con una valigia ed una giacca a quadri, che mi accompagnò sino all'ultimo viaggio.Partivo per la Germania in cerca di un lavoro che non avevo.In paese si lavorava con una certa costanza durante la mietitura o per la raccolta delle olive, e il guadagno era poco, anzi quasi niente. Ecco perché partivo . Lasciavo tutti i miei familiari a casa, per mesi non li avrei visti o sentiti. Tale prospettiva mi angosciava perché non ero abituato a stare lontano dai miei. Finchè si è ancora nella propria nazione, non si avverte la lacerazione forte che poi concretamente avviene, dopo aver passato i controlli della dogana, alla frontiera. La lingua straniera, volti di gente con connotati diversi da quelli abitualmente visti, montagne, terreni e colture diverse, case e palazzi costruiti diversamente e soprattutto la prospettiva di un incerto futuro, sicuramente fatto di grossi sacrifici in una Nazione dove si è malvisti perchè gastarbeiter - lavoratore straniero: tutte queste sensazioni portano ad una tristezza e malinconia grande, grandissima. . emigranti meridionali sul piroscafo IL CINEMA IN PIAZZA “ E’ arrivata la macchina del cinema, è arrivata!” gridavamo noi ragazzi, euforici, alla fine degli anni cinquanta, nell’osservare quel grosso furgone grigio sul quale v’era la scritta blu “Presidenza del Consiglio” a caratteri cubitali, che ogni cinque anni, puntualmente, arrivava nel nostro paese. I due operatori provvedevano a far girare il banditore per il paese per richiamare la popolazione in piazza, onde assistere al cinema. Intanto i due operatori con camicie bianco, issavano un enorme telo bianco alla ringhiera del balcone del Professor Laurelli, collocavano il loro mezzo al centro della piazza, ne facevano fuoriuscire l’enorme proiettore e davano inizio alla proiezione. In effetti, si trattava di propaganda governativa, e l’ansia di poter assistere a quel cinema diminuiva inesorabilmente dopo pochi minuti. Stanchi contadini con le pezze ai pantaloni, bambini malvestiti e qualche casalinga analfabeta, osservavano annoiati i grandi progressi della nazione che riguardavano, purtroppo, altre aree del Paese. Filmati di grandi autostrade, fumanti ciminiere industriali, aereoporti ed avveniristici laboratori, con un commento solenne e retorico, accompagnavano quei filmati. Una voce metallica, con enfasi, recitava: ” Il grande progresso della Nazione è ammirato in tutto il mondo e l’Italia si avvia a divenire una grande potenza industriale ed economica, che potrà competere con le altre potenze industriali di livello mondiale…” I nostri contadini si sentivano beffati ad osservare quelle grandi opere realizzate altrove, mentre loro non godevano neanche delle cose più essenziali. Continuavano ad arare con il solito aratro trainato dai muli, attingevano ancora l’acqua dai pozzi, le donne si portavano al fiume per lavare i panni. Per redimersi da una vita di stenti, per qualcuno di miseria, avevano solo la possibilità di emigrare, portandosi lontano dalla loro terra, dai loro affetti e dai loro ricordi. Quelle grandi industrie, quelle moderne autostrade, le avrebbero conosciute in seguito nelle lontane terre americane o australiane. Quindi, stanchi e contrariati da quel filmato, uno ad uno , gli spettatori abbandonavano la piazza. Non si giungeva neanche a metà proiezione, misurabile dalla grande “pizza” che conteneva la pellicola, che continuava a girare lenta ma invano. Nella piazza ormai deserta, rimanevano solo gli operatori che, annoiati da quel filmato che visionavano ogni sera e del quale forse ne erano pure nauseati, erano tenuti ad attendere pazientemente che la pellicola terminasse , per portare a termine quel loro compito affidato dall’Ufficio Propaganda della Presidenza del Consiglio. postato da: Anchise1 alle ore 12:25 | link | commenti categorie: lunedì, aprile 26, 2004I BRIGANTI A TORO . L’INTERROGATORIO AI BRIGANTI Nelle tre avventure testimoniate a Domenico Trotta , Supplente Regio, può vedersi una prova dell’aspetto di puro malandrinaggio che quasi sempre segnò il fenomeno del brigantaggio nel territorio molisano, e il modo degli agguati, per oggetti rubati, il vestiario degli assalitori, parlano da soli con le parole della verità, rustiche e approssimative, aggiustate dal Supplente o dal Cancelliere, a seconda della levatura del denunziante, che spesso non sa leggere né scrivere. “L’anno 1826, il giorno 4 agosto, alle ore quattordici, in Toro, innanzi a Noi Domenico Trotta Supplente al regio Giudice, residente in questo Comune, assistito dal Cancelliere, è comparso Antonio Cutrone del fu Vincenzo e Costanza di Cicco, contadino di anni 24 nativo e domiciliato in questo Comune. Noi, dopo averlo esortato a dire tutta la verità e null’altro che la verità, ed a parlare senza timore, gli abbiamo fatto le seguenti interrogazioni. D. Pechè vi siete presentato a Noi ? R. Per narrarvi che nella scorsa notte, mentre io custodiva, l’aia di Pasquale Di Girolamo, sita nella vigna Cardillo, ho inteso le voci di Luigi Farinacci, che era nell’aia vicina, il quale gridava ai ladri, ai ladri. A queste grida, essendomi alzato, ho veduto un individuo armato di schioppo, padrona e baionetta, il quale nell’atto che si accostava a me, mi ha tirato un colpo, colla punta dello schioppo, senza che avesse potuto ferirmi, per avercelo io afferrato. Mentre eravamo in questa posizione, è sopraggiunto un altro armato, il quale colla bocca dello schioppo mi ha dato un colpo alla parte destra delle coste. Nel momento istesso, sono venuti intorno a me altri individui armati in simile modo, uno dei quali mi ha dato un altro colpo sulla spalla sinistra. Vedendomi in questo stato, mi son messo a fuggire per un terreno di Saverio Laurelli, seminato in granone, contiguo all’aia. Uno dei cinque, mi ha inseguito, mi ha dato vari colpi colla punta dello schioppo sui reni. Essendo stato raggiunto, il medesimo mi ha di nuovo condotto all’aia. Quivi, uno che non conosco, voleva scannarmi, ma altri glie lo hanno impedito. Mi hanno domandato dove fosse il bosco di San Bartolomeo e, quale era la strada che conduceva a Riccia, io ho risposto di non saperne. In fine mi hanno preso nell’aia tre sacchi e quattro lenzuoli. - Come erano vestiti ? - R. Avevano tutti calzoni lunghi di panno nero. Non ho distinto le giacche e i cappelli. Tutti avevano molte fila di bottoni in petto, ma non so se attaccati alle giacche o alle camiciuole. Non so indicare il loro linguaggio, perché era finto. Tre di essi erano di alta statura; due altri di giusta. Non ho veduto i loro volti, attesa l’oscurità della notte. - D. conoscete voi tutti questi ladri ? - R. No, Signore. - D. Quale statura essi avevano, quale colore, come vestivano, quale era il loro linguaggio, le armi, e, vedendoli, vi fidereste di riconoscerli? - R. – I primi due individui che ci hanno aggredito sulla strada pubblica, erano bendati, cioè uno con un fazzoletto bianchiccio, usato, che gli copriva le guance, e porzione degli occhi, all’infuori del naso. Avevano calzoni lunghi rigati con delle lacerazioni, attraverso delle quali si vedevano al di sotto calzoni di panno turchino, di velluto verde. Tre o quattro di essi avevano la cartucciera ed una era armata di baionetta alla pagana con fodero guarnito di ottone. I primi due che ci hanno sorpresi in strada, avevano solo i schioppi, uno alla militare, l’altro alla pagana . la brigantessa Maddalena De lellis Da “Cara Italia, il tuo Molise” di N. Pietravalle Società Editrice Napoleta postato da: Anchise1 alle ore 10:54 | link | commenti (1) categorie: venerdì, aprile 23, 2004IL CARDINALE ORSINI A TORO FINO A POCO TEMPO FA , ERA POSSIBILE VEDERE LO STEMMA DELL'ORDINE DEI DOMENICANI, CUI APPARTENEVA IL CARDINALE UNITO A QUELLO FRANCESCANO. IL 14 AGOSTO DEL 1701 IL CARDINALE ORSINI CONSACRAVA LA CHIESA , FISSAVA LA FESTA DELLA CONSACRAZIONE DA CELEBRARSI IL 13 AGOSTO DI OGNI ANNO E CONCEDEVA CENTO GIUORNI D'INDULGENZA AI FEDELI CHE SI FOSSERO RECATI, IN DETTO GIORNO, A PREGARE. IL PRIMNO LUGLIO DEL 1709 CONSCRAVA I QUATTRO ALTARI LATERALI . ANCHE DA PAPA COL NOME DI BENEDETTO XIII, L'EX CARDINALE SI RICORDO' DEL CONVENTO, INVIANDO IN DONO UNA GRANDE TELA , POSTA ALLA SOMMITA' DELLA VOLTA DELLA CHIESA, RAFFIGURANTE LA TRASLAZIONE DELLA SANTA CASA DI LORETO, CON TANTO DI STEMMA PAPALE E DEDICA " EX AMORE BEDECTI XIII" PONTEF. MAX.AN. MDDDXXVII. (IL MONTE FRUMENTARIO DI PAPA ORSINI) SU INTERESSE DI PAPA ORSINI NELL'ANNO 1725 , VIENE ISTITUITO A TORO IL MONTE FRUMENTARIO, BENEDETTO XIII, GIA' ARCIVESCOVO DI BENEVENTO, INVIERA' A TORO PER LA STIPULA DELL'ATTO NOTARILE , IL VISITATORE , MONSIGNOR LIONARDO PIZZELLA, PRESENTE DON CARLO DE MARTINIS, ECONOMO DELLA QUARTA ARCIPRETALE DELLA TERRA DI TORO. SONO PRESENTI PURE I SINDACI : GIOVANNI LAURELLO; PIETRO FERRAZZANO E NICOLO' CAPALOZZA. TRA L'ALTRO NELL'ALLEGATO DOCUMENTO E' RIPORTATO QUANTO SEGUE: " BENEDETTO XIII, COME AVENDO FATTO MOLTA RIFLESSIONE, PER PROVVEDERE AI POVERI BISOGNOSI, ESSENDO L'ELEMOSINA, MONETA GRATISSIMA ALL'OCCHIO D'IDDIO, ET ACCIO' IL MODO DI BENEFICIARE A' MENDICI SIA EFFICACISSIMO, HA STABILITO STIMARE , ERIGGERE, E FONDARE UN MONTE FRUMENTARIO A BENEFICIO DEI POVERI IN PERPETUM ET …" NEL 1908 IL MONTE FRUMENTARIO DIVERRA' CASSA DI PRESTANZA AGRARIA INFATTI , NEL 1908, IN UN RAPPORTO DEL SINDACO PRO TEMPORE AL PREFETTO DI CAMPOBASSO, CIRCA LA TRASFORMAZIONE IN CASSA DI PRESTANZA AGRARIA DEL MONTE FRUMENTARIO DI TORO, E' SCRITTO: " IN RIGUARDO ALLA TRASFORMAZIONE DEL MONTE FRUMENTARIO IN CASSA DI PRESTANZA AGRARIA POSSO DIRLE CHE FINO AD UNA DECINA DI ANNI FA, IL MONTE FRUMENTARIO ERA ISTITUZIONE PIU' CHE UTILE, NECESSARIA PER IL PAESE. LA PROPRIETA' RURALE ERA IN MANO, SI PUO' DIRE, DI POCHI, E I CONTADINI NON AVENDO DANARO DISPONIBILE, AL TEMPO DELLA SEMINA RICORREVANO AL MONTE FRUMENTARIO PER AVERE LA SEMENZA , CHE POI RESTITUIVANO AL TEMPO DELLA RACCOLTA, QUANDO PAGAVANO ANCHE I FITTI AI PROPRIETARI DELLE TERRE. VENUTA L'EMIGRAZIONE SI SONO CAMBIATE LE CONDIZIONI ECONOMICHE DEI CONTADINI; ESSE SONO PROSPERATE A TAL PUNTO CHE HANNO RESO INUTILE E NON PIU' RISPONDENTTE ALLO SCOPO L'ISTITUZIONE DEL MONTE FRUMENTARIO. RIMASTO IL GRANO INACCREDENZATO, PER NON PERDERLO SI E' DOVUTO VENDERE. ….." Santini e quadri votivi dei santuari frequentati nei Dagli scritti di L. Alberto Trotta: La cacciata dei monaci e dei frati nel 1866. Abitavano il loro convento dal 1592. Senza essere stinchi di santi, erano voluti bene dal popolo più che il clero secolare. Vivevano di elemosina e ne facevano; chiamati, accorrevano a prestare l’opera loro spirituale; mantenevano la devozione con belle funzioni; ai forestieri che picchiavano alla loro porta, erano larghi di ospitalità. Nei loro corridoi si poteva passeggiare, quando era freddo e gelo, al loro focolare scaldarsi; era un ritrovo, come in casa propria, permesso e desiderato . La soppressione del 1809 li risparmiò. Il convento aveva ospitato personaggi di fama, in specie prelati. Qualche frate aveva coltivato le lettere, diffuso libri ignorati e patriottici. In Toro mancato questo figlio , mancò una compagnia, un decoro, un nome di fama. Il giorno che il convento fu chiuso, fu un giorno di afflizione e mai non si credeva che, proclamata la libertà ufficiale,si dovesse negare ufficialmente a chi ne aveva fatto conto di essa e dargli un grande castigo. Presto si decimò anche il clero, rimanendone superstiti pochi. Ma non tardò, non a rifiorire si a moltiplicarsi, con ordinazioni affrettate, con le quali vennero su preti senza vocazione e di origine volgare, che profanarono il sacerdozio per vita non esemplare, e per cultura neppure comune. LA FESTA Religiosa soltanto, per la musica, il fuoco d’artifizio, la nettezza delle vie e delle case e la fitta e larga processione, cangiavano l’aria del paese e anche l’aspetto, così per solito invariato nella sudiceria, nel languore, nella mestizia. E l’allegria e il tripudio, i contadini rimpulizziti, animavano il vario e vivo spettacolo al quale accorrevano molti forestieri dei comuni vicini ed erano accolti con benevola ospitalità. CARNEVALE Non così il carnevale. Annoiava il baccano, come la baraonda dell’ultimo giorno. Non mascherate, né musica, si urli, scene grossolane e il monotono suono del tamburello e il ballo strepitoso. Uno a cavallo, con in mano la falce fienaia , dalla lunga asta, volteggiava sopra il capo, in alto, errante su e giù, entra non invitato, nella case e stacca dalle travi del soffitto della cucina rocchi di salsiccia; se può. Monelli con il campano delle bestie forma scampanate assordanti. E se, mentre durano questi saturnali, vi è un matrimonio, due, con maschera in viso, stanno all’aspetto innanzi alla porta della chiesa, colà, uscita la coppia, afferrano la sposa che, sorpresa, non fa schermo, la cacciano sotto le loro braccia e non la rendono allo sposo, lasciato in asso, se non hanno i doni che possono avere. Colera nel 1854 il colera, da Napoli, si diffuse per questi posti, e d’un tratto, nell’estate, invase Toro, ch’ ebbe in due mesi, una sessantina di vittime. L’igiene scrupolosa fu provvida alla mia famiglia. Pellegrinaggio si radunano in molti per il pellegrinaggio, è compagnia eterogenea d’interessi: persone pie, altre mezze pie, mezzo mondane e una terza specie che va uccellando a scampagnate, a viaggetti di svago: del bere, del largo bere, e del mangiare di buon appetito ad eccitarlo con il moto e l’allegria, mai sono stufi. Affrontano disagi e malattie e del risolversi di starsene a casa a pregare nelle chiese non vi pensano, si indurano negli strapazzi, tra caldo, la polvere, la poca e cattiva acqua , si rifocillano e continuano. Ne la festa si limita ai pellegrini. Le loro famiglie, quelle del vicinato,buona parte del paese vi partecipa. Si va incontro un giorno prima di quello del ritorno ai pellegrini con una soma di cibi succulenti e molto più di vino, e il giorno del ritorno si fanno parecchie fermate, in stagioni stabilite per uso. Si stende la tovaglia sull’erba, allora fresca, senza badare che in quel posto vi sia acqua. C’è bella provvista del miglior vino e parecchie pietanze.La fatica, il sudore, la buona compagnia fanno vuotare fino al fondo tutto c’è da mescere, tutto il commestibile da consumare, che sarebbe bastato in casa più di una settimana. Poi, nuovo sudore, canti più forti e la turba dei ragazzi che precede, circonda e segue la processione, ne annunzia l’arrivo e fa da scalpore assordante. IL VINO DEL CONVENTO Si dice maliziosamente, in quel di Toro, che abbiano procurato più danni i monaci all’antico convento, che i vari terremoti succedutosi nel corso degli anni, a partire dal 1592, anno di fondazione dell’edificio sacro. Ogni qualvolta arrivava un nuovo Padre Guardiano, nuovi lavori di ristrutturazione. Essendo lavori anche onerosi, le modeste entrate non bastavano a pareggiare i conti. Fu tale motivo ad indurre i monaci, agli inizi degli anni sessanta, a mettere a disposizione, mediante congruo contributo, lo spazioso salone per i pranzi nuziali dei toresi. Non preparavano il lauto pranzo i monaci, ma il valente cuoco Zio Gennaro Evangelista, che, davanti al suo spezzatino in brodo, o alle sue gustose braciole, non resisteva nessuno. Il pranzo lo si preparava fin dalla vigilia delle nozze, si utilizzavano gli utensili del cuoco che venivano sparpagliati per stanze e corridoi e finanche lungo il chiostro. Era consuetudine di coadiuvare il cuoco gli stessi parenti degli sposi o semplici invitati. E molti quel giorno si trasformavano in cuochi o semplici camerieri. Era un viavai continuo e frenetico e molto allegro. Spesso, grida e imprecazioni, se non rumori indicibili, arrivavano fino in chiesa, durante le celebrazioni. Durante il pranzo nuziale il servizio era fin troppo diligente e veloce che non si aspettava che finisse la bottiglia di vino che veniva rimpiazzata da un’altra piena. In modo analogo, per le gustose pietanze. Il chiostro accoglieva tutti gli avanzi e molte bottiglie semivuote di ottimo vino. Era tentazione irresistibile per noi ragazzi, portarci in convento per “raccogliere gli avanzi”. Ma una volta, nel 1962, mio fratello Franco, a soli otto anni, esagerò. Più per sfidare i compagni che per sete, scolò diverse bottiglie di vino: bianco, rosso e rosato, fino a che qualcuno lo ritrovò riverso dietro una colonna del chiostro che dormiva russando fortemente. Si era ubriacato. Appresa la notizia , la zia andò a prelevarlo in convento e lo riportò a casa in braccio. Lungo la discesa del convento ebbe a vomitare più volte , sbiancando in volto. La zia, molto apprensiva, si allarmò. Qualcuno le consigliò di far prendere al ragazzo molta aria ed essa eseguì letteralmente il consiglio. Prese il letto di una piazza, lo collocò davanti casa, in Viale San Francesco, e vi depositò mio fratello che sembrava più un cadavere che un dormiente. A fine pranzo nuziale, era consuetudine passeggiare da parte dei sazi invitati lungo il viale, anche per poter digerire quel gran peso in pancia e passando, presso il letto del ragazzo, tranquillamente dormiente, molti non riuscivano a trattenersi dal ridere. Mia zia, impassibile a chi le chiedeva perché il ragazzo dormisse in strada, rispondeva senza scomporsi: “non sta bene, deve prendere molta aria”. I BREVI RELIGIOSI I brevi erano sacchetti di forma rettangolare, fatti di stoffa e contenenti oggetti di religione o di potere antistregonesco.Generalmente erano destinati ai bambini, sui cui vestiti bisognava attaccarli fin dalla nascita.Non mancavano brevi confezionati per chi andava in guerra o partiva per viaggi lontani. Essi proteggevano dalle forze del male, dalle streghe, dall’invidia e si accompagnavano alla buona sorte. CONTENUTO DI UN “BREVE RELIGIOSO”: · alcuni pezzi di ombelico caduto; · un’immagine di santo a cui si è particolarmente devoti; · un pezzetto di stola benedetta; · una pagina di breviario CONTENUTO DI UN “BREVE PROFANO” · tre chicci di grano; · tre acini di sale · pelo di tasso polvere raccolta il Venerdì Santo davanti al Sepolcro di Cristo. IL LUTTO LA MORTE ERA ACCETTATA SE AVVENIVA IN TARDA ETA E QUALE NATURALE FINE DEL CICLO DI VITA, DIVENTAVA TRAGEDIA SE COLPIVA IL CAPOFAMIGLIA O UN GIOVANE. INIZIAVA CON IL DECESSO ANNUNZIATO DAL SUONO DELLE CAMPANE ”A MORTO”. ’ERA SUBITO LA VISITA AI FAMILIARI AI QUALI, PER CONFORTO, OGNUNO RICORDAVA UN MOMENTO ESEMPLARE DELLA VITA DEL DEFUNTO. LA VEGLIA NOTTURNA VENIVA FATTA DA PERSONE LEGATE ALLA FAMIGLIA. ERA FREQUENTE IL CASO IN CUI IL FAMILIARE DI UN PRECEDENTE DEFUNTO, DOPO IL RACCONTO DI UN SOGNO FATTO OVE IL CARO ESTINTO AVEVA LAMENTATO LA MANCANZA DEL CAPPELLO O DEL BASTONE, CHIEDEVA IL PERMESSO DI METTERE L’OGGETTO RICHIESTO NELLA BARA AFFINCHE’ FOSSE PORTATO AL RICHIEDENTE. TALE CORTESIA NON VENIVA MAI NEGATA. IL “CONSUOLO” ERA IL PRANZO QUOTIDIANO SOMMINISTRATO ALLE PERSONE IN LUTTOI. L’USO VOLEVA CHE INIZIASSERO I PARENTI PIU’ STRETTI. IL LUTTO ,RAPPRESENTATO DAL COLORE NERO, LO SI MANIFESTAVA IN TUTTI I MODI POSSIBILI: DAVANTI ALLA CASA, NEI VESTITI DELLE DONNE, NEI FIOCCHI AI CAPELLI DELLE BIMBE, CON FASCE AL BRACCIO O BOTTONI AL PETTO DEGLI UOMINI. LA MORTE Con l'agonia, quello spazio di tensione tra la vita e la morte, iniziava il viaggio definitivo verso la morte.L'agonia prolungata rappresentava nella nostra credenza popola­re una lunga pena; cioè si pensava che il morente durante la vita avesse fatto qualcosa di grave, perciò i parenti del morente usavano, per fare una buona agonia, accendere nella stanza del morto candele di cera benedette nella festa della candelora o in altre solennità. In qualche paese invece si usava posare sul letto del moribondo delle palme benedette; 1 ' agonia era annunciata con trentatrè "tocchi" di campana, per mettere al corrente la comunità che un'anima stava per passare a miglior vita. L'agonia, per il suo carattere intermedio, poneva il moribondo nella situazione i vivo-morto.Gli ultimi sussulti di vita venivano interpretati come volontà del moribondo di accomiatarsi dalla casa; ed era questo il momento in cui si credeva che gli antenati si presentassero a lui. Avvenuto il decesso, si aveva cura di chiudere gli occhi del cadavere. La casa subiva una profonda trasformazione, cioè si aveva una so­spensione dell'organizzazione domestica. I mobili venivano spostati, le finestre e la porta venivano socchiu­se, il fuoco veniva spento e non si provvedeva assolutamente alla cottura dei cibi. Tutta la casa insomma veniva attrezzata in funzione del morto.Il cibo veniva portato da fuori e consumato alla presenza rassicu­rante dei parenti e degli amici. Il morto veniva vestito ed adagiato sul letto con i piedi rivolti verso la porta, nella stessa camera dove era avvenuto il decesso o in un'altra stanza più grande. Le campane non potevano annunciare la morte prima che si fosse completata la vestizione, perché, secondo una credenza, il morto si presenterebbe nudo a Dio. Dopo la vestizione l'annuncio della morte veniva dato attraverso "il suono delle campane a morto". Il rintocco delle campane ubbidiva ad una dettagliata regola, ad un codice molto preciso. rintocco delle campane aveva una funzione sociale evidente; non solo annunciava alla comunità la morte di uno dei suoi membri, ma forniva dei particolari sul defunto o sulle tappe del processo che andava dall'agonia alla sepoltura. In una parola il mortorio era un linguaggio. Dal suono delle campane si apprendeva se il morto era maschio o femmina, prete, bambino, agiato o povero. Infatti le famiglie agiate facevano suona­re il mortorio con tre campane, le meno agiate con due, le povere con una. Per i bambini si faceva uno scampanellio lento, per gli uomini si faceva precedere il mortorio da tre rintocchi, per le donne da due, per i preti da dodici, ed infine, quando si aveva la notizia della morte del Pontefice o del Re, il mortorio era preceduto da cento rintocchi. Il popolo aveva le sue credenze superstiziose alla varia maniera con cui si manifestavano i rintocchi funebri delle campane. Per esempio, se il rintocco era ben distinto e senza tintinnio, andava tutto •bene; il morto era morto, veramente, e si contentava di andar via da solo; se invece vi era un po' di eco i fedeli si rattristavano, pensando che il morto avrebbe chiamato a sé qualche altro della comunità. Si credeva pure che il suono della campana allontanasse i geni malefici. I parenti, gli amici e in genere i compaesani andavano a visitare il morto e la famiglia colpita dalla morte. Il rapporto visitatori-morto veniva, di solito mediato dai familiari; in particolare nel lamento funebre era ricorrente la presentazione, da parte delle donne del visitatore al morto e il richiamo a qualche episodio significativo della vita in comune. Anzi, spesso, la visita era l'occasione per una ripresa del lamento. Gli uomini, dopo la visita al morto, si riunivano di solito in un'altra stanza, mentre le donne generalmente stavano accanto al morto in un rapporto scandito dal lamento, dal silenzio o dalla preghiera. Durante la notte invece la veglia veniva fatta dagli uomini nella stessa stanza dove era il cadavere o in un'altra. Questa veglia era effettuata da parenti ed amici in numero variabile, in base alla stima di cui godeva il defunto. L'uscita della salma dalla casa costituiva un momento di partico­lare lacerazione e tensione emotiva, si rinnovavano il pianto e i lamenti dei familiari. Il momento dell'uscita della salma scandiva il passaggio dalla dimensione privata del lutto a quella pubblica, cioè il cadavere perdeva lo status di "morto privato" e assumeva quello di "morto pubblico". Nel percorso casa-chiesa il cadavere, diveniva gradualmente morto-pubblico, man mano che si intensificava la partecipazione collettiva. Al passaggio del corteo funebre si chiudevano le porte, le finestre delle case e dei negozi. Si potrebbe dire che il paese cessava momentaneamente di vivere. Il funerale con la partecipazione quasi totale del paese iniziava in chiesa, il prete benediva il feretro e poi cominciava il rito funebre. Eseguito il rito ci si avviava al cimitero. In prossimità delle ultime case del paese, al calvario o al cimitero il corteo si scioglieva e il morto ritornava morto-familiare. Il rituale del seppellimento dunque era presieduto solo dalla famiglia; di solito era effettuato il giorno dopo. Oltre che nella cassa da morto, gli oggetti venivano deposti anche presso o dentro le tombe configurando la sepoltura come "nuova casa del defunto". Una dimora dove non mancavano le cose più svariate. Gli oggetti che venivano deposti nella bara o nella tomba (cibo, monete, indumenti, arnesi di lavoro, ecc.) completavano ulterior­mente la personalità del morto.Il cimitero era il luogo di residenza dei morti, separato dall'am­biente dei viventi. Era come una città speciale, l'ambito sacrale era separato dall'esterno da quello profano, per mezzo di mura, siepi e recinti. Molto importante una volta era l'acquisto del terreno per la sepoltura e di questa scelta si occupavano i figli secondo i suggeri­menti dei genitori. Marito e moglie acquistavano di solito, la tomba in comune, possibilmente vicino alla sepoltura dei figli, parenti o amici. C'era anche una stratificazione socio-economica delle tombe. Le cappelle appartenevano a famiglie gentilizie o a congreghe religiose, i poveri venivano sepolti nella fossa distinta solo da una croce.Le esequie venivano fatte più o meno una settimana dopo. In questa occasione si rinnovavano le condoglianze con una stretta di mano ai parenti del defunto, questo anche per eliminare il malaugurio. Gli spiriti di coloro che morivano per morte violenta o che avevano commesso colpe ritenute non perdonabili rimanevano nello spazio terreno, ed apparivano ai vivi, così racconta la cultura popolare, nelle case disabitate e diroccate, nei crocicchi, nei boschi, nei luoghi ombrosi, per lo più in luoghi dove era avvenuta una "mala morte". RELIGIOSITA’ E SUPERSTIZIONE Tra le regole interpretative dei sogni una è precisamente quella del capovolgimento del significato dei colori degli oggetti sognati. In genere il presagio fausto o infausto dei sogni sta tutto nel colore degli oggetti sognati, e i colori sono il nero e il bianco. II nero, che nelle credenze e negli usi comuni significa lutto, errore, disgrazia, morte, applicato ai sogni è considerato colore di lietissimo augurio. Il bianco che per noi è luce, allegrezza, onestà, santità e via dicendo, diviene sventura, povertà, morte nella visione dei sogni. la gallina bianca, è malattia. a neve, desolazione. La pecora bianca o la lana bianca, povertà. Le pere bianche, bastonate. L'uva bianca, lacrime. L'acqua dei fiumi o la pioggia, lacrime. Al contrario Il carbone, buona salute. Il corvo, buona notizia. La pecora nera, ricchezza. L'uva nera, allegrezza, buon augurio. II pesce è provvidenza. Il frumento, dolore. I pidocchi in testa, danaro. La carne da macello, morte imminente. I fichi secchi, prigione. L'acqua torbida, questioni. I dolci, amarezze. La morte di una persona cara, prolungamento della vita di essa. Un morto che ti chiede da bere, disgrazia futura. Arrivano le truppe americane-canadesi-polacche... è la liberazione! si riparano i guasti delle bombe Sogno e superstizione - Nella cultura popolare il sogno appare soprattutto come manife­stazione dell'invisibile (di Dio, del destino, della fortuna): il sogno si costituisce come luogo simbolico in cui appaiono i morti e i santi per avvertire, orientare, consolare i viventi. Il sogno ha nella cultura contadina un potere informativo, in qualche modo profetico, ed è per questo che l'interpretazione dei sogni ha una lunga storia. "Il Signore da l'autorizzazione ai santi e ai morti di andare nel sonno alla gente, per dargli consigli e avvertimenti, i sogni perciò appaiono come i messaggeri del Signore". "I morti ci vedono" dice un uomo di 74 anni" e quando vogliono dirci qualcosa ci vengono nel sogno, non è che noi sognamo, ma sono i morti che ci parlano e ci fanno vedere le cose che poi ci succedono, dunque sono essi che ci parlano e ci dicono quello che succede di bene e di male. I sogni non dipendono da noi, altrimenti faremmo sempre sogni buoni. "I sogni sono veri" racconta Rosina, contadina, analfabeta di 74 anni. "Mio figlio è morto giovinetto ed io prima che mi succedesse questa disgrazia ho avuto un segnale. Ho sognato per cinque o sei volte di seguito che andavo a prendere la legna e dopo che l'avevo legata e l'avevo caricata sul capo mi si slegava e mi cadeva per terra, e dovevo raccoglierla un'altra volta e tornavo punto e da capo, una continuazione: io la legavo ed essa si scioglieva. Cioè se i morti fanno festa non è bene, o se si sogna gente vestita da sposa, o salsiccia e salame è un male. Sognare invece di essere in lutto vuoi dire che verranno feste familiari. Quando i morti sono dispiaciuti vuoi dire che sono contenti i vivi. "Quando doveva nascere mia figlia" racconta una signora "mi sentivo male, molto male e abbiamo chiamato un medico. Questi mi disse - sapete, signora, vi raccomando riposo perché avere avuto un colpo d'aria - e avevo gli occhi chiusi. A me non andava di alzarmi dal letto e stavo nel letto e volevo stare sempre al buio. La notte sognai che ero in una casa mai vista e c'era la mamma della cognata mia e la zia ch'era morta giovanissi­ma, e mi volevano tanto bene. Mi dissero: "Ti senti male?" "Sto morendo non so che debbo fare". "Sai stiamo attraversando fiumi ed acque per te". "E perché per me? Io non vi faccio niente". "Tu non hai niente, ma devi sapere, guardami"! Si scoprirono e parevano avere una veste lunga e quella giovane aveva tutte le gambe scorticate. "Lo vedi come siamo combinate per te che hai due figli"? "Io vi ringrazio, vi ringrazio, ma che debbo fare"? "Senti, per il bene che ti vogliamo mangia, mangia, noi ti diciamo di mangiare e ti raccomandiamo di mangiare più che puoi". "Io non ho fame e voi dite di mangiare"? "Mangia, mangia più che puoi". Quando se ne andarono avevo la luce accesa, ma, alla loro partenza, mi hanno spento la luce e mi hanno detto: "Tienila sempre accesa". a mattina appresso mi svegliai e raccontai tutto a mia cognata. Dopo pochi giorni venne la levatrice e mi disse: "Dobbiamo partire, perché debbo toglierti l'albumina". Ti sei salvata solo perché non hai mangiato, perché hai 1 ' albumina e la nefrite. Se tu avessi mangiato e se fossi rimasta con la luce accesa o con le persiane aperte, saresti morta". Ringraziando Dio ebbi una femminuccia. I morti mi vennero in sogno e siccome parlano alla rovescia mi raccomandavano di non mangiare e di stare con la luce spenta. La regola dell ' inversione, del capovolgimento concorre ad orien-tare l'interpretazione popolare dei sogni che possono definirsi "simbolici", in cui, cioè, non vi è un'apparizione diretta che consente messaggi espliciti, ma messaggi da decodificare; cioè nel sogno ci sono dei significati latenti che bisogna interpretare, come una sorta di indovinello. DEVOZIONI POPOLARI - Particolare devozione serbava il nostro popolo anche per la Madonna di Pompei e della Madonna di Monte Vergine . La Madonna veniva implorata soprattutto dalle donne nei momenti più difficili: durante il parto o in caso di malattia. Ogni sera nel mese di maggio ci si recava in chiesa a recitare il rosario, o a porgere un fiore alla Vergine. "In questa valle di lacrime, avvocata nostra, non abbandonarci ma sii vicino alle nostre sofferenze, fa che il nostro cammino sia protetto da ogni male". A particolare devozione non mancava il pellegrinaggio al suo santuario nel mese di ottobre, e la sua immagine nelle case devote. - Il sette agosto Pietracatella era meta di un altro pellegrinaggio per la festività di S. Donato. A piedi, lungo l’erta dalla Taverna fino al colle vi giungevano, e ancora oggi qualcuno vi giunge, per devozione. Ci si rivolgeva al Santo per ringraziarlo del raccolto del grano, o ci si appellava a lui per una intercessione per i mali di testa o ai debiti che si avevano. Il sedici dicembre, con eccezioni molto diverse dalle attuali celebrazioni, il popolo, tutto il popolo, non mancava alla novena di Natale. Alle cinque del mattino la campana chiamava i fedeli ed essi accorrevano con la devozione di sempre. - Anche la settimana Santa era particolarmente sentita, e tutti praticavano scrupolosamente il digiuno quaresimale. La Pasqua della resurrezione era una festività davvero emblematica per la nostra gente che non aveva altro che una speranza di resurrezione dopo l'ineffabile tormento terreno. - S. Giuseppe padre putativo di Gesù è venerato ancora oggi in molti paesi molisani, ma solo in pochi paesi è rimasta una particolare devozione. Alcune famiglie, il diciannove marzo, onorano il Santo con questa particolare usanza: il convito per i poveri Il pranzo è composto da tredici portate e prima di assaggiarle si prega ringraziando il Santo. - Altra devozione è quella di S. Antonio da Padova che cade il tredici di giugno. Egli è il Santo dei miracoli, il Santo che viene implorato soprat­tutto nelle disgrazie e nei momenti più difficili della vita. Il nostro popolo si potrebbe dire si alimentava più che di pane, di preghiera. Una speranza celeste aiutava la gente a sopportare le mille disavventure terrene, le difficili tappe di un pesante cammino. Schiacciati e oppressi da una gravosa condizione economica e sociale, la nostra gente trovava respiro nella fede. Nel Signore si riponevano la speranza di pace, il desiderio di amore, che a volte lasciava amareggiati, la salvaguardia della propria dignità che spesso si perdeva. Il conforto ai tanti mali era dato da un segno di croce ed uno sguardo verso il ciclo. La mano degli umili tendeva sempre a Dio, quasi per rivendicare una antica promessa. La devozione e i pellegrinaggi erano il segno tangibile di una speranza ed una fede di resurrezione. - "Ogni anno vi torno a devozione di una croce, vi torno a baciare quell' acqua che serbo nel cuore, vi torno per sollevare il mio capo, vi torno perché Qualcuno mi ama e a Lui la mia devozione sempre mi guida". – Il pellegrinaggio I pellegrini molisani partivano all'alba, un segno di croce e una preghiera, avviavano i carri ad un lungo cammino. Il primo maggio si avviavano i devoti di S. Michele Arcangelo, il Santo implorato dai più bisognosi. Detta solennità cadeva l'otto maggio e da ogni paese molisano partivano carovane di devoti. Otto giorni per arrivare e otto giorni per tornare; questa era la durata del viaggio che i fedeli affrontavano per onorare il Santo. - "S. Michele è l'angelo che peserà la nostra anima; Lui presie­derà al giudizio universale, al giudizio che ci attende dopo l'ultimo giorno terreno". La preghiera che non cessava mai durante il pellegrinaggio, andava a suffragio dei tanti peccati che ognuno pensava di avere. A volte si praticava anche il digiuno per lacerare ancor di più il corpo e l'anima già tanto provati. Durante il percorso non mancava il canto, anzi esso fungeva da preghiera popolare, una preghiera dove meglio erano espressi gli elogi al Santo, dove meglio si sollecitava una grazia o un improvviso miracolo. II giorno prima di arrivare alla grotta dove è sito il Santo, ognuno accendeva una candela, e poi, accampati si dice "sotto tredici stelle", si vegliava quasi a purificarsi prima di baciare il Santo. I pellegrini molisani che si univano ad altri pellegrini rendevano la gocciolante grotta molto suggestiva; la devozione non tratteneva né le lacrime, né l'esplosione dei terribili affanni passati. Le ginocchia si piegavano sotto la spada del Santo e le mani a lui tese imploravano una grazia, una particolare attenzione, una bene­dizione. La preghiera diventava sempre più implorante, anzi non trovava requie fino a che non succedesse qualcosa, fino a che qualcuno non gridasse al miracolo. La grotta si riempiva di mille preghiere; ogni gruppo aveva una particolare tonalità ed un particolare accento, le mille candele accese e una speranza la rendevano luminosa, luminosissima come la fede che li aveva guidati. Dopo aver baciato mille volte il Santo, si risaliva dalla grotta cantando. "Oh S. Michele, grazie della tua benedizione, essa ci proteggerà dal maligno che ci insidia, grazie della tua benevolenza, gloria a te Arcangelo Michele". I pellegrini usciti dalla grotta riprendevano i carri avviati nuovamente da un segno di croce ed una preghiera. A chi poteva appellarsi il nostro popolo se non ai Santi? A chi poteva rivolgersi se non al Santo protettore? Nessuno udiva le grida della nostra gente, nessuno vi apportava soccorso se non quella fede viva per tutti i Santi del Paradiso. - Non c'è niente da fare, la legna secca è mortalità. Era la disgrazia che doveva patire mio figlio: è rimasto sotto una trave che stavamo caricando sopra un camion, una trave grande che due persone non potevano abbracciare". II sogno dunque è nella cultura contadina un presagio, uno strumento di visualizzazione e di conoscenza dell'ignoto (del futuro e dell'aldilà). Il "sogno dei morti" come luogo di apparizione dei morti può essere sollecitato con preghiere ed invocazioni. Alcune testimonianze dicono che l'apparizione avviene subito dopo l'avvenuta morte è segno che il morto è in paradiso. Di solito il morto apparirà da dietro, cioè nella posizione di chi sta camminan­do nella direzione opposta a quella dello sguardo del sognatore". "I sogni non si raccontano perché sembra che quando li hai raccontati quello che c'è di buono non si avvera più. E' come un incantesimo". E ancora: "Si dice che quando sogni cose buone non bisogna raccontarle alla gente, fino a quando il sogno non si è avverato". Il segreto è condizione della realizzabilità del sogno; esso dunque soggiace alla regola culturale del silenzio. Il clero a Toro e stato scritto che nel corso del 1700, a Toro, vi erano tanti preti e monaci e che la ” vita morale era dissoluta”. * ( più di 30 ) Potrebbe sembrare un paradosso, ma in effetti non lo è, poiché tutto è riconducibile a quella miseria comune che portava, a volte, agli eccessi anche gli stessi chierici. In epoca posteriore, precisamente a fine ottocento, vi era a Toro l’Arciprete Valerio Carlone, che in data 13 settembre 1891 scriveva all’Arcivescovo di Benevento, la seguente lettera: Eccellenza Ill.ma e Rev. ma,La festa di S .Michele Arcangelo, come al solito, è stata solennizzata, con tutta pompa, con processione, musica, spari ecc., Pare che il diritto di cantar messa e di fare tutte le funzioni fosse stato del Parroco, tanto più che io avevo fatto la novena ed i primi vesperi. Ebbene il Partecipante Laurelli, avvertito da me per sostituirmi per la messa mattutina del giorno della festa, mi fece un viso brusco e disprezzante, ammonendomi in pari tempo di guardarmi in avvenire.i fare altrettanto, perché egli non patisce che altri gli ricordi il proprio dovere. Conchiuse che la festa di S. Michele non trovandosi nell’elenco dei giorni in cui l’Arciprete è tenuto a cantare la messa solenne, cosiddetta della messa prima rimane al parroco. Eccellenza Vostra, è vero che la festa di San Michele Arcangelo non si trova segnata nella tabella, ma se questa fosse stata formata dal Cardinale Orsini nelle presenti circostanze di tempo e di luogo vi avrebbe fatto entrare le feste popolari che si solennizzano con pompa straordinaria più di Pasqua e di Natale, e la solennità istessa ed il concorso dei forestieri reclamano che in tali feste la prima dignità del clero debba funzionare. A quanto ho detto è normale la pratica negli altri paesi, e non è discorde la voce sacrosanta del Diritto? Funzionando dunque l’Arciprete in queste feste ed in tutte le altre di prima classe, pare che egli sia legittimamente impedito, e perciò pare pure che nei Partecipanti debba corrispondere il dovere di sostituirlo nella messa mattutina. ho riferito questo fatto, affinché V.Ecc.za vi metta riparo. Quanto è stato doloroso per me in tale solennità andare alla messa prima, e poi vedere un partecipante che non è altro che un economo del Parroco, aversi l’onore della messa solenne.Nella festività di San Mercurio, solennità come quella di San Michele, per una circostanza particolare io dissi la messa mattutina ed il Laurelli cantò la messa solenne. Dunque io sempre la messa prima e costui sempre alla solenne ! Chi sia Don Nicola Laurelli V. Ecc.za lo sa, se costui ha avuto l’ardire di ricorrere più volte contro gli ordini della Curia, immagini Ella come debba rispettare, ubbidire un arciprete. Prego V.Ecc.za dare disposizioni su tali fatti, come pure domando che mi si notifichino gli obblighi imposti al Laurelli sotto pena di sospensione, quali ordini e forse tanti altri, non mi sono stati notificati da chiunchesia. (sic) Ecc.za , pel bene che nutre alla mia famiglia, per la pietà che ha verso i suoi defunti, guardi con occhio di compassione la mia posizione e che giustizia ponga riparo a questi disturbi. La ossequio rispettosamente , e baciandoLE il sacro anello, domando la pastorale Benedizione, mi professo per la vita Di V.sta Ecc.za Reverendissima Umil.mo e Ubb.mo Servitore Valerio Arcipr. Carlone TORO il dì 1° ottobre 1891 Il 13 ottobre l’Arcivescovo di Benevento risponderà alla missiva all’Arciprete con le seguenti concise parole: “ E’ mai possibile che un arciprete debba scrivere tanta carta per una simile quisquilia? Siamo più seri e ci troveremo meglio” Benevento, 13 Ottobre 1891. In altra circostanza, 1° agosto 1899, lo stesso Arciprete, invierà altra lettera all’ Arcivescovo per chiedere se al Partecipante Laurelli, rifiutandosi la sua presenza ai funerali da parte dei parenti del defunto, “… a causa di partiti e anche di odio tra le famiglie a Toro, si minaccia alcuno, e da altri si è giunti alla via di fatto, di escludere dal funerale dei parenti qualche sacerdote, anche Partecipante…” , gli si debba dare “la sua porzione” . nella lettera è scritto pure: “Bisogna aggiungere che i Preti, nel caso che fossero esclusi, vogliono a qualunque costo la loro porzione, perché in chiesa saranno presenti al funerale, anche contro la volontà dei parenti del morto, non potendo esserne cacciati da nessuno, e che al contrario la famiglia del defunto non pagherà l’intero assegno del funerale, perché il tale sacerdote sarebbe stato escluso. al pascolo , a piedi nudi postato da: Anchise1 alle ore 21:20 | link | commenti (4) categorie: IL FORMAGGIO GUASTO Mia zia ha avuto sempre stretti rapporti con i riccesi trapiantati nelle campagne toresi. Credo che il rapporto era generato da una sorta di mutuo soccorso. La zia concedeva prestiti in denaro, che puntualmente non le veniva restituito. I debitori però, forse per ammansirla, le concedevano doni in natura. Fu così che nel 1965, un riccese abitante presso il ponte di Toro, ( Zio Giovanni Del Zingaro) donò alla zia alcune pezze di formaggio fresco, appena cagliato. Io e il vecchio nonno, dopo aver assaggiato quel formaggio, ce la cavammo con copiosa diarrea, mentre la zia e i miei due fratelli furono costretti al ricovero presso l’ospedale. Era successo che il vecchio “debitore”, vedovo e solo, non riuscendo, forse, a pulire bene i paioli di rame utilizzati per la cagliata del formaggio, non avendo rimosso del verderame presente alla base del recipiente, tale inconveniente aveva generato una alterazione chimica durante la bollitura, contaminando il formaggio preparato in quel paiolo. Ne seguì naturale inchiesta giudiziare per i succitati fatti che furono divulgati anche dalla stampa. Il vecchio fu costretto a versare una pesante multa e al rimborso delle spese ospedaliere ai malcapitati. Dopo la dimissione dall’ospedale, la zia, arrabbiata e risentita per l’accaduto, ebbe a richiedergli i soldi dati in prestito al contadino, costui ebbe seccamente a replicarle: “ ma come, dopo che mi hai costretto a versare i soldi della multa e quelli per l’ospedale, pretendi ancora altri soldi? La zia da quella risposta capì che ancora una volta, quei finti amici, l’avevano beffata. LA “VRODA” CALDA , ovvero, lo scattone non si usava a Toro Una ragazza torese, della famiglia d’Amico, era fidanzata con un bel ragazzo, suo coetaneo, ma costui non tornò mai più dalla guerra e la ragazza, disperata, pensava di rimanere eterna zitella. Gli anni avanzavano e per l’infelice ragazza non c’era speranza che potesse trovare un nuovo fidanzato. Fu soccorsa dalla fortuna, allorquando, suo padre, falegname, aveva invitato, durante la fiera in paese, un venditore di scale e botti di Casalciprano, affinchè acquistasse delle assi di legno residue, buone solo per il mestiere dell’ospite e idonee per i suoi manufatti. L’affare fu fatto e il falegname volle offrire all’ospite anche il pranzo. La ragazza fu molto gentile con l’ospite. Colpito dalla gentilezza della ragazza, il venditore di botti, che nonostante l’avanzata età, era ancora scapolo, in seguito, tornato in paese, chiese la mano della ragazza, e lieto fu il falegname di accordargliela. Ora, in quel primo pranzo a Toro, l’ospite fu trattato con tutti i riguardi ed ebbe a pranzare maccheroni e carne. Quando la fidanzata, in seguito, ebbe a fare l’entrata ufficiale dai futuri suoceri a Casalciprano, i vecchi furono molto accoglienti ma le prepararono solo del semplice scattone, pane raffermo imbevuto con vino caldo, insomma una sorta di zuppa, che a Toro non si usava. Estremamente delusa la ragazza ebbe a dire, con certa enfasi allo sposo: “ ma come, io a Toro ti ho accolto a casa mia con carne e maccheroni e tu mi hai fatto trovare, come una scrofa, la “vroda” calda ! L’ARTISTA “FIACCA” IN PIAZZA Erano tutti stanchi la sera, dopo i faticosi lavori nei campi per potersi portare nella piazza e vedere lo spettacolo di Fiacca. Fiacca si esibiva in vari esercizi molto spettacolari. La prima sera fece il suo spettacolo per pochi spettatori, quasi tutti ragazzi, ma nelle sere seguenti, il pubblico aumentò. Nella terza serata la piazza era gremita, insufficiente per contenere il gran pubblico, accorso ad applaudire l’artista di strada, che addirittura dai balconi gli lanciavano i fiori, osannandolo. Per i suoi spettacoli aveva bisogno di continui travestimenti e di utilizzare strani arnesi; per tale scopo fu sfrattato il barbiere e messo a disposizione il suo salone. Si esibiva insieme ai componenti della sua famiglia che lo coadiuvavano nelle sue imprese. Era impressionante vederlo rompere un boccione di vetro con un martello, sminuzzare il vetro e adagiarlo per terra affinchè vi si potesse posare sopra e dopo l’esercizio mostrare le ferite e il sangue che gli ricopriva tutta la schiena. Poi prendeva due grossi cavi elettrici e faceva accendere delle lampade sulle sue braccia. Faceva difficili esercizi di saltimbanco e di equilibrista. Non meno sorprendente il numero che lo vedeva legato da grossa catena dalla quale , grazie alla sua possente muscolatura, riusciva a divincolarsi. Per i numeri comici si serviva del suo fido cagnolino che, ben ammaestrato, riusciva a far ridere a crepapelle gli spettatori. Era utilizzato proprio il suo cagnolino a raccogliere tra la gente, con un piccolo canestro tra i denti, le numerose offerte, mentre dai balconi lanciavano altre monete, divertendosi a colpire il cane. Ma gli uomini, impazienti, attendevano l’esibizione della sua avvenente figliola, seminuda, che con delle movenze dolci e conturbanti, riusciva ad eccitare gli uomini e a far ingelosire le donne. Con i suoi balletti, al suono della fisarmonica del padre, Fiacca, si avvicinava a qualche uomo fingendolo di baciare. Con la danza finale, lenta, al suono di un mesto violino, la vedeva slacciarsi la residua sottoveste e velocemente riguadagnava il salone ulteriormente svestita. Fu a causa di questo numero un po’ ardito per quel 1958, che qualcuno additò e indicò quello spettacolo volgare, e che soprattutto, violava la quiete pubblica e il comune senso del pudore. Purtroppo, le malelingue, asserirono, che quegli indecorosi spettacoli erano controllati anche dal parroco, che dal torrione del campanile, controllava da vicino la vita morale dei propri fedeli. Fiacca andò via dal paese nel generale rimpianto, tranquillinzandone però uno: il parroco. DOPO I PORCI. Quell’anno, forse perché aveva nevicato tanto, forse perché era stato sparso tanto di quel letame, forse perché era stata effettuata l’anno prima una buona potatura, insomma, quelle piante di mele limoncelle si mostravano finalmente rigogliose, tanto che Zio Natangelo osservava con orgoglio quei frutti e, quasi rapito, ne contemplava la lucente bellezza. Decise di coglierle di mancanza, a fine settembre: si sarebbero conservate per tutto il lungo inverno. Col suo fedele asinello, munito di bigonce, si recò per ben tre giorni consecutivi nella Valle delle Canne, per andare a cogliere quei bei frutti . Fece più volte la spola tra la campagna e il paese con le bigonce zeppe di mele, che spesso facevano inciampare il povero asino sovraccarico nelle fratte . Lungo il viottolo ne dispensava parecchie a chi gli augurava, quasi con invidia “Sante Martine” e lui, felice di rispondere “Bonminute, favorite, pigliatevene quante ne volete, riemepitevi pure la bisaccia”. Nel fondaco le adagiò con cautela sul pavimento di cotto, sotto il cascione, nel soffitto, sulla ” pirtiere”, sull’impalcato, e tante anche sotto il sottoscala. Non sapeva proprio dove metterle più, tante le aveva riposte anche sotto i letti e nella base della credenza. Ma erano veramente tante! Allora Zio Natangelo, con finto altruismo, ne dispensò a tutti vicini, non abituati a ricevere doni da quell’ uomo da tutti ritenuto piuttosto avaro. Si rese conto che non poteva lasciare altre mele residue nelle bigonce, si sarebbero infradiciate. Allora, visto che doveva recarsi all’Ufficio postale per riscuotere la pensione, vi andò carico di due grossi canestri pieni di mele. Durante la fila ne dispensò parecchie e giunto presso lo sportello, disse alle impiegate: “signorine, le volete queste mie mele? Purtroppo, quest’anno ne ho avuto tante: non so proprio dove metterle, ho riempito tutti gli angoli di casa, la soffitta è sovraccarica ed ho paura che crolli, i vicini sono sazi e i porci non vi dico…”. Allora, una delle due signorine allo sportello, mentre ritirava il suo canestro, ebbe a replicargli umilmente: "Beh , visto che ne avete raccolto proprio tante e i vostri porci non ne vogliono proprio più , datele pure a noi ! Era la prima volta in paese, che quelle temute impiegate che dispensavano tanti soldi ai pensionati, avevano l’umiltà di porsi gerarchicamente financo dietro i porci. POZZI E FONTANE A TORO "L'agro del Comune di Toro e' attraversato dal fiume Tappino , bordeggiato da altro fiume, detto Fiumarello di S.Giovanni. Il secondo immette nel primo, e questo si scarica nel Fortore. Il primo, cioe' il Tappino da' moto a due molini. Non fanno pantani nocivi avendo entrambi libero corso. Quante fontane pubbliche sono, dentro l'abitato ? Quanta acqua possono dare in un determinato tempo, misurandola con la caraffa napolitana di trentatre' once e mezza ? Niuna fontana pubblica si trova dentro l'abitato. Quante fontane pubbliche si trovano per le campagne? Per le campagne in siti piu o meno prossimi all'abitato, trovansi dieci fontane, e si chiamano: Pozzo a Monte, Fontana al Monte, Pozzo di Lucia, Fontana Viola, Fontana Peluso, Fontana a Basso, Fontana Nuova, Pozzo della Canala, Pozzo Santa Maria, Pozzo Nnuovo. Il primo da trecento tini di caraffe quindici l'uno, al giorno; ma nei mesi di luglio, agosto, settembre, o delle volte anche in ottobre, non da' piu' di 24 tini al giorno. L'acqua e' fresca , leggiera, ed ha tutte le buone qualita' di acqua potabile. la stessa quantita' da' la seconda fontana; ma l'acqua e' pesante. Il pozzo da cento tini al giorno, ma nei mesi estivi dissecca quasi totalmente. L'acqua e' pesante. La quarta da' duecento tini al giorno d'acqua pesante. La quinta da trecento tini al giorno d'acqua salsa. La sesta da trecento tini al giorno d'acqua salsa. La settima da duecento tini al giorno d'acqua pesante. L'ottava da cento tini al giorno d'acqua potabile. Il nono da duecento tini al giorno di acqua potabile, ma nei mesi estivi ne da trenta. Il decimo , il piu' lontano dell'abitato, da perennemente trecento tini al giorno d'acqua potabile, fresca e leggiera. Tutti questi serbatoi d'acqua non hanno iscrizione, ne' vi e' tradizione dell'epoca della loro costruzione; ma le pietre vive, quasi interamente rose nei punti in cui le donne intromettevano le braccia per attingere l'acqua, indicano di esser state costruite in epoche remote. soltanto si sa che il decimo fu scavato nel 1794." Luigi Alberto Trotta L’ albero della cuccagna in piazza in piazza. Durante la festa di S.Antonio, nel primo pomeriggio, prima che scendesse la banda a rallegrare il paese con le marcette, al centro della piazza del paese fu issato l’enorme palo della cuccagna, alla cui sommità fu posto il cerchio con i soliti doni prelibati. Dagli altarini votivi fu prelevato qualche raro prosciutto, salami, formaggi, che poi vennero posti a circolo nel cerchio dell’albero della cuccagna. Gli altri doni: agnelli, pasta, uova, vino e olio furono poi venduti all’asta, sulla cassa armonica, in piazza, per contribuire alle spese dei festeggiamenti. Martinangelo, come al solito, fu addetto ad ungere e ad ingrassare il palo, e man mano che scendeva i gradini della scala, i numerosi spettatori assiepati a circolo, non capirono se quell’esagerato luccichio sulla sua fronte era dovuto all’unto o al sudore, alcuni scommisero che si trattava di semplice emozione nell'intento di compiere quel rito che ormai sapeva di liturgico, per la estrema serietà con la quale Martingelo lo assolveva ogni volta. Uno stuolo di baldi giovani, mossi più dall’esibire la loro forza muscolare che mirare alle leccornie in alto sul palo, avanzarono a turno e salirono solo di qualche metro lungo il palo, ma il grasso li faceva scivolare inesorabilmente a terra. Il pubblico si divertì a dismisura ad osservare quei giovani sporchi e unti che caddero miseramente a terra, dopo alcuni ardui e vani tentativi . Giovanni Iacobacci quell'anno era disoccupato, mosso più dal bisogno di conquistare quel prelibato trofeo, anzichè quello di esibire la sua pur possente forza, fu l’unico tra i concorrenti che riuscì nell’ impresa di portarsi a casa tutto quel ben di dio. Oltre alle sue forti braccia con le quali agganciò il palo, le sue abili gambe si attorcigliarono lungo l’asse come una serpe, ed avanzò in alto senza cedere e mai indietreggiare. Giovanni, quell’anno, per quell’impresa si servì di una valida complice: la moglie. Costei aveva dotato il marito di una speciale tuta, fatta di sacchi di iuta, sulla quale aveva cucito almeno una decina di grosse tasche. Giovanni riempì tutte quelle tasche di cenere che cosparse, con rapide bracciate, man mano che avanzò in alto, sulla viscida superficie del palo.La fatica e la calura estiva resero quell’uomo irriconoscibile, a causa del sudore e del grasso, che si appiccicarono come pece su quella tuta di iuta, trasformandolo in un caronte che fece enorme paura ai bambini presenti numerosi allo spettacolo. Molti si congratularono col vincitore, senza peraltro potergli stringere la mano, annerita dal grasso. Di nuovo, anche questa volta entrò in gioco l’aiuto insostituibile della moglie, che riuscì a liberarlo da quelle incrostazioni di unto e grasso, lavandolo per ore in una tinozza piena d’acqua calda, con rena e sapone, come era solita fare quando ripuliva i cocci di rame.La gioia di Giovanni fu grande, non tanto perché vincitore nel divertente gioco, ma perché quella fu occasione propizia, unica, di procacciarsi un prosciutto, salami e formaggi che sfamarono la sua numerosa famiglia per mesi. IL PORCELLINO DI S. ANTONIO QUASI IN TUTTI I PAESI, DA PARTE DI QUALCHE CONTADINO CHE HA AVUTO UNA PROSPERA NIDIATA DI PORCELLINI DA PARTE DELLA PROPRIA SCROFA, USA DONARNE UNO IN ONORE AL SANTO PROTETTORE DEGLI ANIMALI, SANT ’ ANTONIO ABATE, LA CUI FESTA RICADE A META’ GENNAIO. IL PORCELLINO DAPPRIMA VIENE FATTO GIRARE PER TUTTO IL PAESE DA PARTE DEI RAGAZZINI CHE LO CONDUCONO LEGATO DI CASA IN CASA, IN CERCA DI QUALCHE ALIMENTO, E POI, MAN MANO VIENE LASCIATO LIBERO DI SCODINZOLARE SOLO PER TUTTO L’ABITATO.TUTTI LO ACCOGLIEVANO VOLENTIERI E SALUTANDOLO CON “ VAI IN PACE, ANTONIO” GLI DAVANO DA MANGIARE. NESSUNO OSA MALTRATTARLO PERCHE’ SI TEME L’ EVENTUALE VENDETTA DI SANT ’ ANTONIO. IL PORCELLINO, UNA VOLTA INGRASSATO, VIENE VENDUTO UN PO’ A TUTTI AFFINCHE’ SI CONTRIBUISCA CON IL DENARO ALLE SPESE PER LA FESTA DI A. ANTONIO. TUTTI ACQUISTANO UN PO’ DELLA SUA CARNE PER DEVOZIONE DEL SANTO ROTTURA DELLA PIGNATTA Nel corso delle feste si issavano con una corda a tre metri da terra delle pignatte legate ad una corda ben tesa. All’interno delle pignatte vengono inserite dei premi per chi riesce, bendato, a romperle con una mazza lunga, qualche volta i premi consistono in acqua, cenere o carbone qualche altra volta in piccole somme di denaro. Tutti si divertono in piazza al divertente spettacolo molto seguito dagli astanti. La cuccagna In cima ad un palo, alto otto o nove metri, cosparso di olio di lino e sapone, viene posto un premio: una pezza di formaggio, un prosciutto, un gallo o altro. Chi riesce a raggiungere la sommità del palo e acciuffare i premi ne diviene padrone. Essendo il palo sdrucciolevole, i contendenti si muniscono di cenere o crusca per attecchire la presa. Tutti ridono per le ardue arrampicate. La visita di leva Partimmo in quattro dal paese, eravamo tutti della stessa classe, chiamati ad assolvere alla visita di leva. Col treno raggiungemmo Foggia. L’avviso che avevamo avuto ci invitava a raggiungere il locale Distretto Militare, dove trovammo altri giovani in attesa di sottoporsi a quella visita. I locali della caserma, fatiscenti, sporchi e scuri, incutevano certo disagio e la prospettiva di dover consumare lì il pranzo, nella mensa militare, fu scartata subito, ancor di più fu scartata l’ipotesi di poter rimanere a dormire in quegli squallidi cameroni militari. Preferimmo andare in una modesta pensione. Ci presentammo di buon mattino al Distretto Militare. Fummo invitati a spogliarci e ufficiali medici alquanto annoiati, svogliatamente eseguivano le solite monotone operazioni quotidiane. Fummo pesati, misurati, auscultati, tastati, ecc. Ma tutti attendevamo con preoccupante ansia la visita al basso ventre. Un ufficiale medico, omone grosso e grasso, con presa sicura e senza minimamente scomporsi, acchiappava violentemente lo scroto e con movimenti svelti e decisi cercava di indovinare forma e consistenza degli attributi in esso contenuti. Eravamo tutti nudi, quando imprevedibilmente, ci ritrovavammo a dover competere in una gara di virilità, perché uno scostumato di Riccia, in attesa della visita, indicava a dito, con gran scherno, coloro che la natura aveva meno dotato. Uno del nostro gruppo, che aveva preso alloggiio con noi alla stessa pensione,vistosi additato, per non soggiacere all'ignobile affronto, ricorreva a strane manovre, pur di non subire pubblico ludibrio. Ma il riccese, accortosi del facile espediente del nostro amico, oltre allo scherno, lo derise con sarcasmo. Insomma, il nostro compagno di pensione ne uscì avvilito, umiliato, da quella caserma, perché il poveretto, ci diceva, rimasto orfano, aveva trascorso gran parte della fanciullezza in collegio ed era anche un po’ inibito. Tornati, insieme a lui, nella pensione, in serata ci fu proposto se gradivamo la compagnia di una donnetta. Sarà stato per l’affronto subito in mattinata da quel cafone, sarà stato per smentire nei fatti la sua discussa virilità, senza scomporsi minimamente, il nostro amico si avviò dietro la donnetta, che in una stanza della stessa pensione esercitava quell'antico mestiere. Eravamo in trepidante ansia di sapere dall’amico come fosse andata e lui, euforico, quasi tramortito, forse perchè alla sua prima esperienza, in romanesco, avendo conservato quella parlata del collegio di Roma, dove aveva studiato, ci fa: - “ che bello, era er paradiso, me sembrava Eva tutta nuda, me tirava come er mulinello, m’ero scordato pure de pagarla … che bello, che bello…che bello! Il suo entusiasmo e le sue parole ci avevano fatto ridere e dimenticare del vile affronto subito in caserma, evidentemente non occorrono grandi cannoni per abbattere la “Bastiglia”, basta anche un cannoncino, purchè miri bene e centri l’obiettivo. postato da: Anchise1 alle ore 13:48 | link | commenti categorie: IL PELLEGRINAGGIO... IL PELLEGRINAGGIO I fedeli si riunivano sotto la guida di un capo, detto 'u prjiore, si mettevano 'n goppe 'i spalle 'a v'sazze (sulle spalle la bisaccia) piena di provviste e partivano verso i santuari. Le mete erano soprattutto in puglia: a s. Michele Arcangelo sul Gargano, s.Nicola a Bari e all' Incoronata di Foggia. Oppure in Campania: al santuario della Madonna di Montevergine e a quello della Madonna di Pompei . I piu' poveri, i piu' devoti e i piu' resistenti andavano a piedi; i proprietari di animali cavalcavano le loro bestie da soma; gli altri andavano a pagamento sul carro. Il carro ( 'u traine ) trasportava fino a 40 persone su 'i tav'lune ( grosse assi di legno): I piu' giovani si sedevano dietro con le gambe ciondoloni. In tempi piu' recenti sono stati utilizzati prima gli autocarri, poi le autocorriere. Durante i pernottamenti i pellegrini dormivano quasi tutti nelle case private, sopra i sacchi di paglia. Il viaggio dei pellegrini che si recavano al santuario di s. Michele Arcangelo durava una settimana. Si partiva la mattina presto, dopo aver assistito alla s.messa e aver ricevuto la benedizione. i pellegrini si mettevano in processione e cantavano le litanie, poi, all'uscita del paese, nei pressi della masseria "Beniamino", avveniva lo scambio dei saluti tra chi partiva e chi restava. La prima fermata era presso la taverna di Pietracatella: i pellegrini mangiavano, mentre gli animali riposavano. Sulle salite ripide di motta Montecorvino, dopo la sosta al santuario di Volturara, 'i traine potevano trasportare solo le persone anziane o piu' deboli. Giunti al santuario, sempre col canto delle litanie, facevano tre giri intorno alla chiesa e dopo aver comprato le candele da donare al santuario, in ginocchio entravano devotamente. Al ritorno dai santuari, i fedeli formavano una processione, le donne avanti, gli uomini dietro. Si andava uno per fila e ognuno portava una candela, molte volte dipinta di fiori. Iniziava il corteo una persona che portava lo stendardo con cui dal paese si era venuti incontro ai pellegrini, seguiva quindi il crocifisso della comitiva. Si cantavano le litanie, uno cantava da solista, tutti gli altri fedeli rispondevano in coro "ora pro nobis". Le persone che andavano ai santuari erano spinte dalle motivazioni piu' diverse. Prima di tutti vi erano le giovani coppie di sposi, che andavano ad invocare una buona figliolanza, e i fedeli che avevano un voto da sciogliere. Altri pellegrini si dirigevano ai santuari per motivi piu' profani. Dopo aver semintao il granoturco, in attesa della raccolta del grano,si concedevano una "pausa di piacere". Nonostante le severe condanne delle persone piu' devote, per la maggior parte il viaggio costituiva un'occasione di divertimento, anche se sotto agiva la spinta di una fede piu' o meno rudimentale. * Al trainere (guidatore del carro) il vino veniva offerto dai pellegrini. si racconta che una volta, la compagnia di Montagano era trasportata da 'nu trainere di nome Michele. I suoi compaesani cantavano "Michele ! vive sant' Michele !", e lui intanto beveva…bevendo e bevendo si ubriaco' e incomincio' ad andare fuori strada. " e mo' che fai" ?, gli chiesero spaventati i pellegrini. " e vvu' avete ditte: vive Michele ! e i' v'veve.." rispose allegramente u' trainere. Tema della testimonianza di questa settimana è il malocchio, ovvero diagnosi e cura di una malattia frequentissima un tempo e oggi certamente non scomparsa, ma ha cambiato pelle: parliamo della superstizione. Da piccolo abitavo vicino alla casa di Zia Maria. Perennemente vestita di nero, scheletrica e alta, mi incuteva soggezione e paura. Nelle lunghe sere d’inverno mi raccontava favole e filastrocche. Storie di briganti, di fate, di orchi, di streghe, di lupi mannari, di “mazzamarille”, venivano narrate da lei a tutti i bambini del vicinato, forse con intenti pedagogici, per farci stare buoni perchè finiva sempre col minacciare “ altrimenti la strega prenderà anche a voi”. Ad una curiosa concezione magico-superstiziosa si collegava tutto quel mondo di favole e di leggende di zia Maria, ma rari erano anche quei nonni e genitori che non usavano tali forme di suggestione . Quando ci ammalavamo come primo rimedio i genitori ci mandavano da zia Maria. Allora le malattie nei bambini erano abbastanza numerose e frequenti, ed anche la più lieve indisposizione faceva stare in ansia l'intera famiglia. Tutte le malattie erano imputate al "malocchio" e in funzione di questa diagnosi curate da zia Maria. Ci si poteva ammalare ed eventualmente morire di "malocchio" diceva lei. Per combattere il "malocchio" bisognava "incantarlo" , diceva . Prendeva un piatto contenente dell’acqua, faceva la croce recitando, ogni volta che si toccava la parte superiore del piatto, la formula di rito. Dette le parole, lasciava cadere tre gocce d'olio nell'acqua del piatto; se quest'olio si scioglieva, Zia Maria era certa che si trattava di "invidia", altrimenti no. Allora si metteva a recitare salmi strani con toni minacciosi. Se il "malocchio" non scompariva neanche con questo "contramalocchio" Zia Maria diceva che doveva trattarsi di un "malocchio ferrato" ossia "malocchio" fatto fa una persona che aveva con sé un oggetto di ferro. Seguivano altri riti ancora più tenebrosi. Io, durante quei riti magici, avevo paura, perché si nominavano insieme santi e streghe. Soprattutto ero convinto che la vera strega era lei: Zia Maria. LA PAURA In una notte primaverile, dagli occupanti della vecchia casa di Rua della Scimmia, si udirono grida isteriche che svegliarono i vicini. Era Zio Vicienzo che, impaurito, gridava - “la paura, la paura, aiuto, aiuto.. la paura” mentre la moglie , ancor più spaventata, nella precipitosa fuga dal vicolo, si scontrò con Zio Nicolangelo che le chiese cosa diavolo le fosse capitato, e Zia Ninella, tutta esagitata, a gridare : ” ho paura della paura, ho paura della paura” . I vicini avevano avvisato quella coppia di anziani di non comprare quella casaccia , certo, si era venduta per molto poco, ma solo perché nessuno la voleva. Il motivo era semplice, perché quella casa era abitata dalla “paura”, ma i due vecchi non vollero dare ascolto ai vicini. In paese si raccontava che in passato fosse stata abitata da una sposa infelice, e per tale motivo morta avvelenata. Ora, di tanto in tanto, il suo spirito inquieto, vagava sotto forma spettrale per casa di Zio Vicienzo, con rumori strani. Insomma, i vicini non ne potevano più di quegli spaventi notturni e allora Zio Nicolangelo, omone grosso e coraggioso, mossosi a compassione dei vicini, pieno di coraggio, entrò in quella casa spiritata e si mise a recitare al alta voce la formula magica imparata dal magaro -” Tre parti di Dio e una di Maria, dimmi chi sei ? “ E mentre avanzava per sfidare e allontanare la “paura” notò sopra il portabarili di Zio Vicienzo una grossa caldaia, dalla quale fuoriuscivano grosse lumache, messe lì a spurgare da Zio Vicienzo, che volendo uscire da quel recipiente, risalendo fino all’orlo, poi, rumorosamente ricadevano in pentola, facendo tutto quel rumoraccio che aveva fatto gridare, in piena notte, Zio Vicienzo e Zia Ninella ,contro la temuta paura. Visita episcopale 1846 "Nel 1846 venne l'Arcivescovo di Benevento, il cardinale Domenico Carafa di Traetto. il prelato viaggiava a cavallo, perche' ancora non era costruita la strada carreggiabile da Campobasso a Toro, accompagnato da quattro canonici, due camerieri e dal suo vicario, monsignor pasquale balsamo, barese. il paese era festante; si trattava delle cresima; e un viavai di compari, comari e figliocci, nastrai, cerajoli, orefici, cursori di curia, animava le vie e le piazze con parecchi capannelli insoliti e le campane suonavano a distesa. Il prelato fu nostro ospite per una settimana." DELLA VITA E DELLE OPERE DI DOMENICO TROTTA E DE' SUOI TEMPI NELLA PROVINCIA DI MOLISE"- TORO 1879 postato da: Anchise1 alle ore 13:27 | link | commenti categorie: CULTI DI S. ANTONIO... Le pagnottelle di s. Antonio - il culto di donare pagnottelle di pane nel giorno di s. Antonio e' legato ad uno dei miracoli del santo: guari' un bambino e invito' i genitori a donare ai poveri tanto grano quanto era il peso del bimbo. La tradizione del pane e' arrivata dal Veneto in tempi non antichissimi, e si e' svolta sempre allo stesso modo, anche oggi che i poveri non ci sono piu'. Le pagnottelle , preparate per l'occasione, si collocano in un ampio cesto e si fanno benedire , di solito alla prima messa del convento dei frati, e vengono poi distribuite . Per devozione, prima di mangiarle, si baciano, segnandosi col segno di croce e recitando una preghiera. IL MONACELLO altro culto devozionale per il santo dei miracoli, e' quello del "monacello" il bimbo che colpito da qualche male, viene rivestito dell'abitino marrone col cordoncino, per impetrare la grazia della guarigione o per grazia ricevuta. A volte lo si faceva indossare per mesi interi, per pura scaramanzia. IL FUOCO DI S. ANTONIO Anche questa usanza tradizionale collegata a riti antichi, di purificazione e di propiziazione, viene ripetuta durante la tredicina dedicata al santo, sicche', ogni sera in ogni via o rione viene acceso un falo' di canne e frasche. La sera del 13 , l'ultima, viene issato sul falo' un fantoccio a forma di bambola che viene bruciato appena le fiamme del falo' lo lambiscono. seguono poi tavolate , intorno al fuoco, con gnocchi e salsiccia. postato da: Anchise1 alle ore 13:15 | link | commenti categorie: GASTRONOMIA TORESE PIETANZE CONTADINE A FARINE DE RENDIN'JE' I contadini poveri avevano come base della loro alimentazione la farina di ganturco. Con essa alcuni facevano i "fraschetille " una specie di polenta piu' grossolana e piu' liquida. Dopo aver stacciata la farina, la si raduna nel mezzo del tavoliere, e dopo averci fatto un piccolo fossetto nel mezzo, vi si versa dell'acqua tiepida e si da' ad impastare. Di tutto l'impasto ne forma una grossa palla che lentamente e con cura schiaccia, in modo da ridurla in forma di un grosso e pesante disco giallo oro e vi imprime nel mezzo con la mano dritta il segno di croce. dopo prepara il luogo di cottura della pizza, cioe', spazza il centro del focolare ben bene e poi ve la depone sotto la coppa, ricoprendo quest'ultima della brace e cenere del fococlare. Sistematio tutto, la pizza, bella e cotta, si leva dal fuoco, si spezza e si mescola o coi legumi o con la minestra verde. Durante la giornata viene mangiata con peperoni o pomodoro sotto aceto, o semplicemente unta con olio soffritto con aglio. Il segno della croce impresso nel bel disco giallo fa si che la pizza possa facilmente dividersi in quattro parti. FRASCATILLE: si fa soffriggere cipolla e pomodoro, si aggiunge circa 700 gr. di farina con acqua l’acqua si fa scendere piano piano sulla farina fino a formare delle piccole palline che un po’ alla volta vengono cotte con l’impasto. quindi si fa cucinare per 5 minuti. PANUNTE : pizza a mallevita con baccala’ o pomodoro o salsiccia, cicolilli o peperoni. CIPOLLATA : con abbondante cipolla, che si soffrigge nell’olio di oliva , si aggiungono pezzi di baccala’ che si cucinano per 5 minuti, si aggiunge quindi pizza di granone e si mescola facendo cuocere ancora per circa 5 o 10 minuti. SCIALBETTA : mosto cotto con aggiunta di neve fresca. SANGUE DI PORCO : un litro di sangue con due litri di mostocotto, con aggiunta di mandorle e bucce di arancia. si fa bollire per tre o quattro ore a bagnomaria finche’ si solidifica un po’. i bambini lo spalmavano su fette di pane e ne erano ghiottissimi. MACCARUNE CA' MULLICHE: si prendono i maccheroni cosidetti “ perciati” che si cuociono al dente, quindi si aggiunge mollica, precedentenmente triturata sulla tavola da bucato, che viene intrisa con olio , aglio e prezzemolo e con l’aggiunta di un pezzo di cannella . A' SCANNATURE : si versa del sangue fresco di animale appena squartato, in recipiente smaltato basso e largo che dondolonadolo ne permetta il caglio con spessore di qualche centimetro. si fa bollire l’acqua con sale e si tuffa il sangue solidificato tagliato a listelli di 4 / 5 centimetri. dopo 10 miniti di bollitura, quindi scolare . si taglia dopo la bollitura. si fa soffriggere la cipolla con olio d’oliva e un po’ di pomodoro e si fa rosolare, mescolare e farlo insaporire il tutto per 10 minuti. si accompagna con pizzamallevita. PIZZA MALLEVITA : 1 kg. di farina, ½ bicchire olio di oliva, 1 cucchiaino bicarbonato e acqua tiepida e sale. si mescola affinche’ l’impasto sia morbido e liscio e si cuoce sottocoppa per ¾ d’ora su liscia ben fatta e preparata *** ** liscia ben preparata: per sapere se la liscia e’ pronta, si pulisce con scoparello e buttando un po’ di farina di granone, questo deve poter bruciare. postato da: Anchise1 alle ore 13:02 | link | commenti (1) categorie: per acqua con la tina ANDARE PER ACQUA CON LA “TINA ” Munite di "spara e tina” andavano le donne ad attingere l’acqua dai vari pozzi del paese : pozzo a monte, fontana a valle , neviera. Se la ritualistica degli sguardi d’amore nelle giornate di festa avveniva davanti alla chiesa, sfacciatamente, per tutto l’anno si rinnovava sulla strada che portava al pozzo. Questo era il quotidiano impegno delle ragazze che andavano a prendere l’acqua. “Alzati presto e non farti precedere dalle altre” dicevano le mamme alle figlie, specialmente nei mesi estivi, quando la siccita’ impoveriva i pozzi e non si riusciva ad attingere acqua pulita. Acqua melmosa veniva fuori da quelle poveri sorgenti, ma nessuno la voleva; toccava a chi attingeva per ultimo. allora liti furibonde si accendevano ai bordi delle fonti ove ognuna affermava i suoi diritti di precedenza. “Andare per acqua” era, pero’, anche momento di gioia. Il pozzo si trovava lontano, ma la distanza non spaventava quelle giovani fanciulle: una volta, due volte, tre volte travasavano l’acqua della tina al recipiente piu’ grande e via di nuovo ad attingere. Il pozzo era il punto di incontro con le amiche, ma non solo con loro. Lui era li’ , all’angolo della strada. La ragazza sentiva lo sguardo su di se’ ma passava diritto, con indifferenza, senza voltarsi; scambiarsi un saluto o poche parole nemmeno a pensarci. Quel giovanotto, probabilmente, non era l’uomo dei suoi sogni e, sicuramente, non sarebbe divenuto l’uomo della sua vita, ma la presenza riempiva di felicita’ il cuore della ragazza. Allora quando il contenitore o i barili dell’acqua tenuti in casa stavano per essere riempiti e la festa mattutina dell’amore volgeva alla fine, la ragazza tendeva ad allungare il tempo e il rituale: a meta’ strada, quando nessuno la vedeva, riversava per terra il contenuto della tina e via di nuovo ad attingere nuova acqua e nuovi sguardi d’amore per cui sognare e non inaridire. POZZI E FONTANE A TORO rapporto sullo "stato delle acque" di Luigi Alberto Trotta al Peside della Provincia L'agro del comune di Toro e' attraversato dal fiume Tappino , bordeggiato da altro fiume, detto Fiumarello di S.Giovanni. Il secondo immette nel primo, e questo si scarica nel Fortore. Il primo, cioe' il Tappino da' moto a due molini. Non fanno pantani nocivi avendo entrambi libero corso. Quante fontane pubbliche sono, dentro l'abitato ? Quanta acqua possono dare in un determinato tempo, misurandola con la caraffa napoletana di tretatre' once e mezza ? Niuna fontana pubblica si trova dentro l'abitato. Quante fontane pubbliche si trovano per le campagne? Per le campagne in siti piu o meno prossimi all'abitato, trovansi dieci fontane, e si chiamano: pozzo a Monte, fontana al Monte, pozzo di Lucia, fontana Viola, fontana Peluso, fontana a Basso, fontana Nuova, pozzo della Canala, pozzo Santa Maria, pozzo Nuovo. Il primo da trecento tini di caraffe, quindici l'uno al giorno; ma nei mesi di luglio, agosto, settembre, o delle volte anche in ottobre, non da' piu' di 24 tini al giorno. L'acqua e' fresca , leggiera, ed ha tutte le buone qualità di acqua potabile. La stessa quantità da' la seconda fontana; ma l'acqua e' pesante. Il pozzo da cento tini al giorno, ma nei mesi estivi dissecca quasi totalmente; l'acqua e' pesante. La quarta da' duecento tini al giorno d'acqua pesante. La quinta da trecento tini al giorno d'acqua salsa. La sesta da trecento tini al giorno d'acqua salsa. La settima da duecento tini al giorno d'acqua pesante. L'ottava da cento tini al giorno d'acqua potabile. Il nono da duecento tini al giorno di acqua potabile, ma nei mesi estivi ne da trenta. Il decimo , il più lontano dell'abitato, da perennemente trecento tini al giorno d'acqua potabile, fresca e leggiera. Tutti questi serbatoi d'acqua non hanno iscrizione, ne' vi e' tradizione dell'epoca della loro costruzione; ma le pietre vive, quasi interamente rose nei punti in cui le donne intromettevano le braccia per attinger l'acqua, indicano di esser state costruite in epoche remote. Soltanto si sa che il decimo fu scavato nel 1794. Luigi Alberto Trotta postato da: Anchise1 alle ore 12:49 | link | commenti categorie: lavare i panni al fiume PARTE DELLA MIA RACCOLTA ETNOGRAFICA 1 2 3 4 5 | next 5 >> AL FIUME A LAVARE I PANNI ERA UNO DEI LUOGHI D’INCONTRO E DI LAVORO PIU’ FREQUENTATI. LONTANO O VICINO CHE FOSSE VENIVA RAGGIUNTO DALLE DONNE DI BUON MATTINO. IN QUELL’ACQUA FREDDA E PULITA SI PORTAVANO A LAVARE TUTTI I PANNI ACCUMULATI, A VOLTE , PER MESI. SISTEMAVANO IL LAVATOIO CON PIETRE SU CUI INGINOCCHIARSI AD UNA RUVIDA, MA NON TROPPO, SU CUI PASSARE I PANNI, BISOGNAVA PREPARARE LA “LISCIVA” (UNA SOLUZIONE ACQUOSA RICAVATA DAI COMPONENTI SOLUBILI DELLA CENERE) CON LA QUALE QUESTI ULTIMI VENIVANO TRATTATI. IL SAPONE, QUELLO FATTO IN CASA CON IL GRASSO DEL MAIALE, SOFFICE ED ABBONDANTE, ERA PRONTO PER ESSERE INTERAMENTE UTILIZZATO. INFINE, DISTESO IL BUCATO SULLE TANTE PIANTE DI SALICE CHE SI TROVAVANO NEI DINTORNI PER ESSERE ASCIUGATO DAL SOLE, ARRIVAVA IL MOMENTO DEL BAGNO. TIMIDE E CIRCOSPETTE, CON ADDOSSO UNA VESTE O UNA SOTTANA CHE ARRIVAVA FIN SOTTO LE GINOCCHIA, LE DONNE ENTRAVANO LENTAMENTE NELL’ACQUA E DOPO AVER INSAPONATO, CON LO STESSO SAPONE DEI PANNI, CAPELLI, COLLO, FACCIA, E BRACCIA SI IMMERGEVANO, RABBRIVIDENDO, NEL FREDDO DEL FIUME. LA PIU’ ANZIANA RESTABA FUORI A VIGILARE AFFINCHE’ IL RITO DEL BAGNO AVVENISSE LONTANO DA INDISCRETI OCCHI MASCHILI. NASCOSTO TRA I SALICI POTEVA ESSERCI SEMPRE QUALCHE GIOVANE PASTORE CHE, LASCIATE LE PECORE INCUSTODITE, AGGIUNGESSE ALLA SUA FANTASIA LA CONCRETA CONOSCENZA DI FORME FEMMINILI, PARTICOLARMENTE RISALTATE DALLE VESTI BAGNATE. A SERA LE DONNE, CON I PANNI PIEGATI, ASCIUGATI E POSTI IN CESTI PORTATI SULLE TESTA, INEBRIATE DAL PROFUMO PROFONDO DI ACQUA E SAPONE DA ESSI EMANATO, PRENDEVANO LA STRADA DEL RITORNO STANCHE MA FELICI. postato da: Anchise1 alle ore 12:30 | link | commenti categorie: L'Emigrazione L' EMIGRAZIONE Partii per l' America. Eravamo tanti figli e poco era la terra da poter coltivare. L'annata andò male e così una sera mio padre mi consigliò di fare ciò che facevano ormai quasi tutti i giovani del paese: emigrare. Attesi l' atto di richiamo di mio fratello e dopo aver venduto il grano, racimolai i soldi per recarmi dal sovragente per ordinargli il bilglietto per Cleveland. L' addio ai vecchi fu straziante ma ancor più duro era vivere quotidianamente nella miseria. Arrivai dopo un lungo e sofferto viaggio sul piroscafo a New York , dove fummo visitati e mandati in un grosso locale per la quarantena. Quando giunsi a Cleveland, mio fratello mi portò nel suo cantiere di lavoro dove fui assunto. Facevo il manovale per pochi dollari al giorno, la sera mi sentivo svenire dalla fatica. Economizzavo anche sul vitto, pur di mandare tanti dollari in Italia. Mi sentivo triste e come un pesce fuor d'acqua. Soprattutto la domenica mi prendeva la nostalgia per la mia terra e per i miei cari, negli altri giorni si lavorava troppo per poter pensare a queste cose. Partii per la Germania Partii dal mio paese il ventinove di giugno, giorno di S. Pietro e Paolo, salutai tutti i miei parenti, gli amici, la mia vecchia madre, mia moglie e i miei tre figlioletti, poi mi allontanai su di una macchina bianca di vecchio stampo.Dopo aver fumato molte sigarette e pianto nascostamente sulla littorina, arrivai alla stazione di Termoli, scesi dalla littorina e mi recai in sala d’attesa, e in quelle due ore di attesa del treno Lecce-Milano, realizzai che ero rimasto solo con una valigia ed una giacca a quadri, che mi accompagnò sino all'ultimo viaggio.Partivo per la Germania in cerca di un lavoro che non avevo.In paese si lavorava con una certa costanza durante la mietitura o per la raccolta delle olive, e il guadagno era poco, anzi quasi niente. Ecco perché partivo . Lasciavo tutti i miei familiari a casa, per mesi non li avrei visti o sentiti. Tale prospettiva mi angosciava perché non ero abituato a stare lontano dai miei. Finchè si è ancora nella propria nazione, non si avverte la lacerazione forte che poi concretamente avviene, dopo aver passato i controlli della dogana, alla frontiera. La lingua straniera, volti di gente con connotati diversi da quelli abitualmente visti, montagne, terreni e colture diverse, case e palazzi costruiti diversamente e soprattutto la prospettiva di un incerto futuro, sicuramente fatto di grossi sacrifici in una Nazione dove si è malvisti perchè gastarbeiter - lavoratore straniero: tutte queste sensazioni portano ad una tristezza e malinconia grande, grandissima. . emigranti meridionali sul piroscafo IL CINEMA IN PIAZZA “ E’ arrivata la macchina del cinema, è arrivata!” gridavamo noi ragazzi, euforici, alla fine degli anni cinquanta, nell’osservare quel grosso furgone grigio sul quale v’era la scritta blu “Presidenza del Consiglio” a caratteri cubitali, che ogni cinque anni, puntualmente, arrivava nel nostro paese. I due operatori provvedevano a far girare il banditore per il paese per richiamare la popolazione in piazza, onde assistere al cinema. Intanto i due operatori con camicie bianco, issavano un enorme telo bianco alla ringhiera del balcone del Professor Laurelli, collocavano il loro mezzo al centro della piazza, ne facevano fuoriuscire l’enorme proiettore e davano inizio alla proiezione. In effetti, si trattava di propaganda governativa, e l’ansia di poter assistere a quel cinema diminuiva inesorabilmente dopo pochi minuti. Stanchi contadini con le pezze ai pantaloni, bambini malvestiti e qualche casalinga analfabeta, osservavano annoiati i grandi progressi della nazione che riguardavano, purtroppo, altre aree del Paese. Filmati di grandi autostrade, fumanti ciminiere industriali, aereoporti ed avveniristici laboratori, con un commento solenne e retorico, accompagnavano quei filmati. Una voce metallica, con enfasi, recitava: ” Il grande progresso della Nazione è ammirato in tutto il mondo e l’Italia si avvia a divenire una grande potenza industriale ed economica, che potrà competere con le altre potenze industriali di livello mondiale…” I nostri contadini si sentivano beffati ad osservare quelle grandi opere realizzate altrove, mentre loro non godevano neanche delle cose più essenziali. Continuavano ad arare con il solito aratro trainato dai muli, attingevano ancora l’acqua dai pozzi, le donne si portavano al fiume per lavare i panni. Per redimersi da una vita di stenti, per qualcuno di miseria, avevano solo la possibilità di emigrare, portandosi lontano dalla loro terra, dai loro affetti e dai loro ricordi. Quelle grandi industrie, quelle moderne autostrade, le avrebbero conosciute in seguito nelle lontane terre americane o australiane. Quindi, stanchi e contrariati da quel filmato, uno ad uno , gli spettatori abbandonavano la piazza. Non si giungeva neanche a metà proiezione, misurabile dalla grande “pizza” che conteneva la pellicola, che continuava a girare lenta ma invano. Nella piazza ormai deserta, rimanevano solo gli operatori che, annoiati da quel filmato che visionavano ogni sera e del quale forse ne erano pure nauseati, erano tenuti ad attendere pazientemente che la pellicola terminasse , per portare a termine quel loro compito affidato dall’Ufficio Propaganda della Presidenza del Consiglio. postato da: Anchise1 alle ore 12:25 | link | commenti categorie: lunedì, aprile 26, 2004I BRIGANTI A TORO . L’INTERROGATORIO AI BRIGANTI Nelle tre avventure testimoniate a Domenico Trotta , Supplente Regio, può vedersi una prova dell’aspetto di puro malandrinaggio che quasi sempre segnò il fenomeno del brigantaggio nel territorio molisano, e il modo degli agguati, per oggetti rubati, il vestiario degli assalitori, parlano da soli con le parole della verità, rustiche e approssimative, aggiustate dal Supplente o dal Cancelliere, a seconda della levatura del denunziante, che spesso non sa leggere né scrivere. “L’anno 1826, il giorno 4 agosto, alle ore quattordici, in Toro, innanzi a Noi Domenico Trotta Supplente al regio Giudice, residente in questo Comune, assistito dal Cancelliere, è comparso Antonio Cutrone del fu Vincenzo e Costanza di Cicco, contadino di anni 24 nativo e domiciliato in questo Comune. Noi, dopo averlo esortato a dire tutta la verità e null’altro che la verità, ed a parlare senza timore, gli abbiamo fatto le seguenti interrogazioni. D. Pechè vi siete presentato a Noi ? R. Per narrarvi che nella scorsa notte, mentre io custodiva, l’aia di Pasquale Di Girolamo, sita nella vigna Cardillo, ho inteso le voci di Luigi Farinacci, che era nell’aia vicina, il quale gridava ai ladri, ai ladri. A queste grida, essendomi alzato, ho veduto un individuo armato di schioppo, padrona e baionetta, il quale nell’atto che si accostava a me, mi ha tirato un colpo, colla punta dello schioppo, senza che avesse potuto ferirmi, per avercelo io afferrato. Mentre eravamo in questa posizione, è sopraggiunto un altro armato, il quale colla bocca dello schioppo mi ha dato un colpo alla parte destra delle coste. Nel momento istesso, sono venuti intorno a me altri individui armati in simile modo, uno dei quali mi ha dato un altro colpo sulla spalla sinistra. Vedendomi in questo stato, mi son messo a fuggire per un terreno di Saverio Laurelli, seminato in granone, contiguo all’aia. Uno dei cinque, mi ha inseguito, mi ha dato vari colpi colla punta dello schioppo sui reni. Essendo stato raggiunto, il medesimo mi ha di nuovo condotto all’aia. Quivi, uno che non conosco, voleva scannarmi, ma altri glie lo hanno impedito. Mi hanno domandato dove fosse il bosco di San Bartolomeo e, quale era la strada che conduceva a Riccia, io ho risposto di non saperne. In fine mi hanno preso nell’aia tre sacchi e quattro lenzuoli. - Come erano vestiti ? - R. Avevano tutti calzoni lunghi di panno nero. Non ho distinto le giacche e i cappelli. Tutti avevano molte fila di bottoni in petto, ma non so se attaccati alle giacche o alle camiciuole. Non so indicare il loro linguaggio, perché era finto. Tre di essi erano di alta statura; due altri di giusta. Non ho veduto i loro volti, attesa l’oscurità della notte. - D. conoscete voi tutti questi ladri ? - R. No, Signore. - D. Quale statura essi avevano, quale colore, come vestivano, quale era il loro linguaggio, le armi, e, vedendoli, vi fidereste di riconoscerli? - R. – I primi due individui che ci hanno aggredito sulla strada pubblica, erano bendati, cioè uno con un fazzoletto bianchiccio, usato, che gli copriva le guance, e porzione degli occhi, all’infuori del naso. Avevano calzoni lunghi rigati con delle lacerazioni, attraverso delle quali si vedevano al di sotto calzoni di panno turchino, di velluto verde. Tre o quattro di essi avevano la cartucciera ed una era armata di baionetta alla pagana con fodero guarnito di ottone. I primi due che ci hanno sorpresi in strada, avevano solo i schioppi, uno alla militare, l’altro alla pagana . la brigantessa Maddalena De lellis Da “Cara Italia, il tuo Molise” di N. Pietravalle Società Editrice Napoleta postato da: Anchise1 alle ore 10:54 | link | commenti (1) categorie: venerdì, aprile 23, 2004IL CARDINALE ORSINI A TORO FINO A POCO TEMPO FA , ERA POSSIBILE VEDERE LO STEMMA DELL'ORDINE DEI DOMENICANI, CUI APPARTENEVA IL CARDINALE UNITO A QUELLO FRANCESCANO. IL 14 AGOSTO DEL 1701 IL CARDINALE ORSINI CONSACRAVA LA CHIESA , FISSAVA LA FESTA DELLA CONSACRAZIONE DA CELEBRARSI IL 13 AGOSTO DI OGNI ANNO E CONCEDEVA CENTO GIUORNI D'INDULGENZA AI FEDELI CHE SI FOSSERO RECATI, IN DETTO GIORNO, A PREGARE. IL PRIMNO LUGLIO DEL 1709 CONSCRAVA I QUATTRO ALTARI LATERALI . ANCHE DA PAPA COL NOME DI BENEDETTO XIII, L'EX CARDINALE SI RICORDO' DEL CONVENTO, INVIANDO IN DONO UNA GRANDE TELA , POSTA ALLA SOMMITA' DELLA VOLTA DELLA CHIESA, RAFFIGURANTE LA TRASLAZIONE DELLA SANTA CASA DI LORETO, CON TANTO DI STEMMA PAPALE E DEDICA " EX AMORE BEDECTI XIII" PONTEF. MAX.AN. MDDDXXVII. (IL MONTE FRUMENTARIO DI PAPA ORSINI) SU INTERESSE DI PAPA ORSINI NELL'ANNO 1725 , VIENE ISTITUITO A TORO IL MONTE FRUMENTARIO, BENEDETTO XIII, GIA' ARCIVESCOVO DI BENEVENTO, INVIERA' A TORO PER LA STIPULA DELL'ATTO NOTARILE , IL VISITATORE , MONSIGNOR LIONARDO PIZZELLA, PRESENTE DON CARLO DE MARTINIS, ECONOMO DELLA QUARTA ARCIPRETALE DELLA TERRA DI TORO. SONO PRESENTI PURE I SINDACI : GIOVANNI LAURELLO; PIETRO FERRAZZANO E NICOLO' CAPALOZZA. TRA L'ALTRO NELL'ALLEGATO DOCUMENTO E' RIPORTATO QUANTO SEGUE: " BENEDETTO XIII, COME AVENDO FATTO MOLTA RIFLESSIONE, PER PROVVEDERE AI POVERI BISOGNOSI, ESSENDO L'ELEMOSINA, MONETA GRATISSIMA ALL'OCCHIO D'IDDIO, ET ACCIO' IL MODO DI BENEFICIARE A' MENDICI SIA EFFICACISSIMO, HA STABILITO STIMARE , ERIGGERE, E FONDARE UN MONTE FRUMENTARIO A BENEFICIO DEI POVERI IN PERPETUM ET …" NEL 1908 IL MONTE FRUMENTARIO DIVERRA' CASSA DI PRESTANZA AGRARIA INFATTI , NEL 1908, IN UN RAPPORTO DEL SINDACO PRO TEMPORE AL PREFETTO DI CAMPOBASSO, CIRCA LA TRASFORMAZIONE IN CASSA DI PRESTANZA AGRARIA DEL MONTE FRUMENTARIO DI TORO, E' SCRITTO: " IN RIGUARDO ALLA TRASFORMAZIONE DEL MONTE FRUMENTARIO IN CASSA DI PRESTANZA AGRARIA POSSO DIRLE CHE FINO AD UNA DECINA DI ANNI FA, IL MONTE FRUMENTARIO ERA ISTITUZIONE PIU' CHE UTILE, NECESSARIA PER IL PAESE. LA PROPRIETA' RURALE ERA IN MANO, SI PUO' DIRE, DI POCHI, E I CONTADINI NON AVENDO DANARO DISPONIBILE, AL TEMPO DELLA SEMINA RICORREVANO AL MONTE FRUMENTARIO PER AVERE LA SEMENZA , CHE POI RESTITUIVANO AL TEMPO DELLA RACCOLTA, QUANDO PAGAVANO ANCHE I FITTI AI PROPRIETARI DELLE TERRE. VENUTA L'EMIGRAZIONE SI SONO CAMBIATE LE CONDIZIONI ECONOMICHE DEI CONTADINI; ESSE SONO PROSPERATE A TAL PUNTO CHE HANNO RESO INUTILE E NON PIU' RISPONDENTTE ALLO SCOPO L'ISTITUZIONE DEL MONTE FRUMENTARIO. RIMASTO IL GRANO INACCREDENZATO, PER NON PERDERLO SI E' DOVUTO VENDERE. ….." Santini e quadri votivi dei santuari frequentati nei Dagli scritti di L. Alberto Trotta: La cacciata dei monaci e dei frati nel 1866. Abitavano il loro convento dal 1592. Senza essere stinchi di santi, erano voluti bene dal popolo più che il clero secolare. Vivevano di elemosina e ne facevano; chiamati, accorrevano a prestare l’opera loro spirituale; mantenevano la devozione con belle funzioni; ai forestieri che picchiavano alla loro porta, erano larghi di ospitalità. Nei loro corridoi si poteva passeggiare, quando era freddo e gelo, al loro focolare scaldarsi; era un ritrovo, come in casa propria, permesso e desiderato . La soppressione del 1809 li risparmiò. Il convento aveva ospitato personaggi di fama, in specie prelati. Qualche frate aveva coltivato le lettere, diffuso libri ignorati e patriottici. In Toro mancato questo figlio , mancò una compagnia, un decoro, un nome di fama. Il giorno che il convento fu chiuso, fu un giorno di afflizione e mai non si credeva che, proclamata la libertà ufficiale,si dovesse negare ufficialmente a chi ne aveva fatto conto di essa e dargli un grande castigo. Presto si decimò anche il clero, rimanendone superstiti pochi. Ma non tardò, non a rifiorire si a moltiplicarsi, con ordinazioni affrettate, con le quali vennero su preti senza vocazione e di origine volgare, che profanarono il sacerdozio per vita non esemplare, e per cultura neppure comune. LA FESTA Religiosa soltanto, per la musica, il fuoco d’artifizio, la nettezza delle vie e delle case e la fitta e larga processione, cangiavano l’aria del paese e anche l’aspetto, così per solito invariato nella sudiceria, nel languore, nella mestizia. E l’allegria e il tripudio, i contadini rimpulizziti, animavano il vario e vivo spettacolo al quale accorrevano molti forestieri dei comuni vicini ed erano accolti con benevola ospitalità. CARNEVALE Non così il carnevale. Annoiava il baccano, come la baraonda dell’ultimo giorno. Non mascherate, né musica, si urli, scene grossolane e il monotono suono del tamburello e il ballo strepitoso. Uno a cavallo, con in mano la falce fienaia , dalla lunga asta, volteggiava sopra il capo, in alto, errante su e giù, entra non invitato, nella case e stacca dalle travi del soffitto della cucina rocchi di salsiccia; se può. Monelli con il campano delle bestie forma scampanate assordanti. E se, mentre durano questi saturnali, vi è un matrimonio, due, con maschera in viso, stanno all’aspetto innanzi alla porta della chiesa, colà, uscita la coppia, afferrano la sposa che, sorpresa, non fa schermo, la cacciano sotto le loro braccia e non la rendono allo sposo, lasciato in asso, se non hanno i doni che possono avere. Colera nel 1854 il colera, da Napoli, si diffuse per questi posti, e d’un tratto, nell’estate, invase Toro, ch’ ebbe in due mesi, una sessantina di vittime. L’igiene scrupolosa fu provvida alla mia famiglia. Pellegrinaggio si radunano in molti per il pellegrinaggio, è compagnia eterogenea d’interessi: persone pie, altre mezze pie, mezzo mondane e una terza specie che va uccellando a scampagnate, a viaggetti di svago: del bere, del largo bere, e del mangiare di buon appetito ad eccitarlo con il moto e l’allegria, mai sono stufi. Affrontano disagi e malattie e del risolversi di starsene a casa a pregare nelle chiese non vi pensano, si indurano negli strapazzi, tra caldo, la polvere, la poca e cattiva acqua , si rifocillano e continuano. Ne la festa si limita ai pellegrini. Le loro famiglie, quelle del vicinato,buona parte del paese vi partecipa. Si va incontro un giorno prima di quello del ritorno ai pellegrini con una soma di cibi succulenti e molto più di vino, e il giorno del ritorno si fanno parecchie fermate, in stagioni stabilite per uso. Si stende la tovaglia sull’erba, allora fresca, senza badare che in quel posto vi sia acqua. C’è bella provvista del miglior vino e parecchie pietanze.La fatica, il sudore, la buona compagnia fanno vuotare fino al fondo tutto c’è da mescere, tutto il commestibile da consumare, che sarebbe bastato in casa più di una settimana. Poi, nuovo sudore, canti più forti e la turba dei ragazzi che precede, circonda e segue la processione, ne annunzia l’arrivo e fa da scalpore assordante. IL VINO DEL CONVENTO Si dice maliziosamente, in quel di Toro, che abbiano procurato più danni i monaci all’antico convento, che i vari terremoti succedutosi nel corso degli anni, a partire dal 1592, anno di fondazione dell’edificio sacro. Ogni qualvolta arrivava un nuovo Padre Guardiano, nuovi lavori di ristrutturazione. Essendo lavori anche onerosi, le modeste entrate non bastavano a pareggiare i conti. Fu tale motivo ad indurre i monaci, agli inizi degli anni sessanta, a mettere a disposizione, mediante congruo contributo, lo spazioso salone per i pranzi nuziali dei toresi. Non preparavano il lauto pranzo i monaci, ma il valente cuoco Zio Gennaro Evangelista, che, davanti al suo spezzatino in brodo, o alle sue gustose braciole, non resisteva nessuno. Il pranzo lo si preparava fin dalla vigilia delle nozze, si utilizzavano gli utensili del cuoco che venivano sparpagliati per stanze e corridoi e finanche lungo il chiostro. Era consuetudine di coadiuvare il cuoco gli stessi parenti degli sposi o semplici invitati. E molti quel giorno si trasformavano in cuochi o semplici camerieri. Era un viavai continuo e frenetico e molto allegro. Spesso, grida e imprecazioni, se non rumori indicibili, arrivavano fino in chiesa, durante le celebrazioni. Durante il pranzo nuziale il servizio era fin troppo diligente e veloce che non si aspettava che finisse la bottiglia di vino che veniva rimpiazzata da un’altra piena. In modo analogo, per le gustose pietanze. Il chiostro accoglieva tutti gli avanzi e molte bottiglie semivuote di ottimo vino. Era tentazione irresistibile per noi ragazzi, portarci in convento per “raccogliere gli avanzi”. Ma una volta, nel 1962, mio fratello Franco, a soli otto anni, esagerò. Più per sfidare i compagni che per sete, scolò diverse bottiglie di vino: bianco, rosso e rosato, fino a che qualcuno lo ritrovò riverso dietro una colonna del chiostro che dormiva russando fortemente. Si era ubriacato. Appresa la notizia , la zia andò a prelevarlo in convento e lo riportò a casa in braccio. Lungo la discesa del convento ebbe a vomitare più volte , sbiancando in volto. La zia, molto apprensiva, si allarmò. Qualcuno le consigliò di far prendere al ragazzo molta aria ed essa eseguì letteralmente il consiglio. Prese il letto di una piazza, lo collocò davanti casa, in Viale San Francesco, e vi depositò mio fratello che sembrava più un cadavere che un dormiente. A fine pranzo nuziale, era consuetudine passeggiare da parte dei sazi invitati lungo il viale, anche per poter digerire quel gran peso in pancia e passando, presso il letto del ragazzo, tranquillamente dormiente, molti non riuscivano a trattenersi dal ridere. Mia zia, impassibile a chi le chiedeva perché il ragazzo dormisse in strada, rispondeva senza scomporsi: “non sta bene, deve prendere molta aria”. I BREVI RELIGIOSI I brevi erano sacchetti di forma rettangolare, fatti di stoffa e contenenti oggetti di religione o di potere antistregonesco.Generalmente erano destinati ai bambini, sui cui vestiti bisognava attaccarli fin dalla nascita.Non mancavano brevi confezionati per chi andava in guerra o partiva per viaggi lontani. Essi proteggevano dalle forze del male, dalle streghe, dall’invidia e si accompagnavano alla buona sorte. CONTENUTO DI UN “BREVE RELIGIOSO”: · alcuni pezzi di ombelico caduto; · un’immagine di santo a cui si è particolarmente devoti; · un pezzetto di stola benedetta; · una pagina di breviario CONTENUTO DI UN “BREVE PROFANO” · tre chicci di grano; · tre acini di sale · pelo di tasso polvere raccolta il Venerdì Santo davanti al Sepolcro di Cristo. IL LUTTO LA MORTE ERA ACCETTATA SE AVVENIVA IN TARDA ETA E QUALE NATURALE FINE DEL CICLO DI VITA, DIVENTAVA TRAGEDIA SE COLPIVA IL CAPOFAMIGLIA O UN GIOVANE. INIZIAVA CON IL DECESSO ANNUNZIATO DAL SUONO DELLE CAMPANE ”A MORTO”. ’ERA SUBITO LA VISITA AI FAMILIARI AI QUALI, PER CONFORTO, OGNUNO RICORDAVA UN MOMENTO ESEMPLARE DELLA VITA DEL DEFUNTO. LA VEGLIA NOTTURNA VENIVA FATTA DA PERSONE LEGATE ALLA FAMIGLIA. ERA FREQUENTE IL CASO IN CUI IL FAMILIARE DI UN PRECEDENTE DEFUNTO, DOPO IL RACCONTO DI UN SOGNO FATTO OVE IL CARO ESTINTO AVEVA LAMENTATO LA MANCANZA DEL CAPPELLO O DEL BASTONE, CHIEDEVA IL PERMESSO DI METTERE L’OGGETTO RICHIESTO NELLA BARA AFFINCHE’ FOSSE PORTATO AL RICHIEDENTE. TALE CORTESIA NON VENIVA MAI NEGATA. IL “CONSUOLO” ERA IL PRANZO QUOTIDIANO SOMMINISTRATO ALLE PERSONE IN LUTTOI. L’USO VOLEVA CHE INIZIASSERO I PARENTI PIU’ STRETTI. IL LUTTO ,RAPPRESENTATO DAL COLORE NERO, LO SI MANIFESTAVA IN TUTTI I MODI POSSIBILI: DAVANTI ALLA CASA, NEI VESTITI DELLE DONNE, NEI FIOCCHI AI CAPELLI DELLE BIMBE, CON FASCE AL BRACCIO O BOTTONI AL PETTO DEGLI UOMINI. LA MORTE Con l'agonia, quello spazio di tensione tra la vita e la morte, iniziava il viaggio definitivo verso la morte.L'agonia prolungata rappresentava nella nostra credenza popola­re una lunga pena; cioè si pensava che il morente durante la vita avesse fatto qualcosa di grave, perciò i parenti del morente usavano, per fare una buona agonia, accendere nella stanza del morto candele di cera benedette nella festa della candelora o in altre solennità. In qualche paese invece si usava posare sul letto del moribondo delle palme benedette; 1 ' agonia era annunciata con trentatrè "tocchi" di campana, per mettere al corrente la comunità che un'anima stava per passare a miglior vita. L'agonia, per il suo carattere intermedio, poneva il moribondo nella situazione i vivo-morto.Gli ultimi sussulti di vita venivano interpretati come volontà del moribondo di accomiatarsi dalla casa; ed era questo il momento in cui si credeva che gli antenati si presentassero a lui. Avvenuto il decesso, si aveva cura di chiudere gli occhi del cadavere. La casa subiva una profonda trasformazione, cioè si aveva una so­spensione dell'organizzazione domestica. I mobili venivano spostati, le finestre e la porta venivano socchiu­se, il fuoco veniva spento e non si provvedeva assolutamente alla cottura dei cibi. Tutta la casa insomma veniva attrezzata in funzione del morto.Il cibo veniva portato da fuori e consumato alla presenza rassicu­rante dei parenti e degli amici. Il morto veniva vestito ed adagiato sul letto con i piedi rivolti verso la porta, nella stessa camera dove era avvenuto il decesso o in un'altra stanza più grande. Le campane non potevano annunciare la morte prima che si fosse completata la vestizione, perché, secondo una credenza, il morto si presenterebbe nudo a Dio. Dopo la vestizione l'annuncio della morte veniva dato attraverso "il suono delle campane a morto". Il rintocco delle campane ubbidiva ad una dettagliata regola, ad un codice molto preciso. rintocco delle campane aveva una funzione sociale evidente; non solo annunciava alla comunità la morte di uno dei suoi membri, ma forniva dei particolari sul defunto o sulle tappe del processo che andava dall'agonia alla sepoltura. In una parola il mortorio era un linguaggio. Dal suono delle campane si apprendeva se il morto era maschio o femmina, prete, bambino, agiato o povero. Infatti le famiglie agiate facevano suona­re il mortorio con tre campane, le meno agiate con due, le povere con una. Per i bambini si faceva uno scampanellio lento, per gli uomini si faceva precedere il mortorio da tre rintocchi, per le donne da due, per i preti da dodici, ed infine, quando si aveva la notizia della morte del Pontefice o del Re, il mortorio era preceduto da cento rintocchi. Il popolo aveva le sue credenze superstiziose alla varia maniera con cui si manifestavano i rintocchi funebri delle campane. Per esempio, se il rintocco era ben distinto e senza tintinnio, andava tutto •bene; il morto era morto, veramente, e si contentava di andar via da solo; se invece vi era un po' di eco i fedeli si rattristavano, pensando che il morto avrebbe chiamato a sé qualche altro della comunità. Si credeva pure che il suono della campana allontanasse i geni malefici. I parenti, gli amici e in genere i compaesani andavano a visitare il morto e la famiglia colpita dalla morte. Il rapporto visitatori-morto veniva, di solito mediato dai familiari; in particolare nel lamento funebre era ricorrente la presentazione, da parte delle donne del visitatore al morto e il richiamo a qualche episodio significativo della vita in comune. Anzi, spesso, la visita era l'occasione per una ripresa del lamento. Gli uomini, dopo la visita al morto, si riunivano di solito in un'altra stanza, mentre le donne generalmente stavano accanto al morto in un rapporto scandito dal lamento, dal silenzio o dalla preghiera. Durante la notte invece la veglia veniva fatta dagli uomini nella stessa stanza dove era il cadavere o in un'altra. Questa veglia era effettuata da parenti ed amici in numero variabile, in base alla stima di cui godeva il defunto. L'uscita della salma dalla casa costituiva un momento di partico­lare lacerazione e tensione emotiva, si rinnovavano il pianto e i lamenti dei familiari. Il momento dell'uscita della salma scandiva il passaggio dalla dimensione privata del lutto a quella pubblica, cioè il cadavere perdeva lo status di "morto privato" e assumeva quello di "morto pubblico". Nel percorso casa-chiesa il cadavere, diveniva gradualmente morto-pubblico, man mano che si intensificava la partecipazione collettiva. Al passaggio del corteo funebre si chiudevano le porte, le finestre delle case e dei negozi. Si potrebbe dire che il paese cessava momentaneamente di vivere. Il funerale con la partecipazione quasi totale del paese iniziava in chiesa, il prete benediva il feretro e poi cominciava il rito funebre. Eseguito il rito ci si avviava al cimitero. In prossimità delle ultime case del paese, al calvario o al cimitero il corteo si scioglieva e il morto ritornava morto-familiare. Il rituale del seppellimento dunque era presieduto solo dalla famiglia; di solito era effettuato il giorno dopo. Oltre che nella cassa da morto, gli oggetti venivano deposti anche presso o dentro le tombe configurando la sepoltura come "nuova casa del defunto". Una dimora dove non mancavano le cose più svariate. Gli oggetti che venivano deposti nella bara o nella tomba (cibo, monete, indumenti, arnesi di lavoro, ecc.) completavano ulterior­mente la personalità del morto.Il cimitero era il luogo di residenza dei morti, separato dall'am­biente dei viventi. Era come una città speciale, l'ambito sacrale era separato dall'esterno da quello profano, per mezzo di mura, siepi e recinti. Molto importante una volta era l'acquisto del terreno per la sepoltura e di questa scelta si occupavano i figli secondo i suggeri­menti dei genitori. Marito e moglie acquistavano di solito, la tomba in comune, possibilmente vicino alla sepoltura dei figli, parenti o amici. C'era anche una stratificazione socio-economica delle tombe. Le cappelle appartenevano a famiglie gentilizie o a congreghe religiose, i poveri venivano sepolti nella fossa distinta solo da una croce.Le esequie venivano fatte più o meno una settimana dopo. In questa occasione si rinnovavano le condoglianze con una stretta di mano ai parenti del defunto, questo anche per eliminare il malaugurio. Gli spiriti di coloro che morivano per morte violenta o che avevano commesso colpe ritenute non perdonabili rimanevano nello spazio terreno, ed apparivano ai vivi, così racconta la cultura popolare, nelle case disabitate e diroccate, nei crocicchi, nei boschi, nei luoghi ombrosi, per lo più in luoghi dove era avvenuta una "mala morte". RELIGIOSITA’ E SUPERSTIZIONE Tra le regole interpretative dei sogni una è precisamente quella del capovolgimento del significato dei colori degli oggetti sognati. In genere il presagio fausto o infausto dei sogni sta tutto nel colore degli oggetti sognati, e i colori sono il nero e il bianco. II nero, che nelle credenze e negli usi comuni significa lutto, errore, disgrazia, morte, applicato ai sogni è considerato colore di lietissimo augurio. Il bianco che per noi è luce, allegrezza, onestà, santità e via dicendo, diviene sventura, povertà, morte nella visione dei sogni. la gallina bianca, è malattia. a neve, desolazione. La pecora bianca o la lana bianca, povertà. Le pere bianche, bastonate. L'uva bianca, lacrime. L'acqua dei fiumi o la pioggia, lacrime. Al contrario Il carbone, buona salute. Il corvo, buona notizia. La pecora nera, ricchezza. L'uva nera, allegrezza, buon augurio. II pesce è provvidenza. Il frumento, dolore. I pidocchi in testa, danaro. La carne da macello, morte imminente. I fichi secchi, prigione. L'acqua torbida, questioni. I dolci, amarezze. La morte di una persona cara, prolungamento della vita di essa. Un morto che ti chiede da bere, disgrazia futura. Arrivano le truppe americane-canadesi-polacche... è la liberazione! si riparano i guasti delle bombe Sogno e superstizione - Nella cultura popolare il sogno appare soprattutto come manife­stazione dell'invisibile (di Dio, del destino, della fortuna): il sogno si costituisce come luogo simbolico in cui appaiono i morti e i santi per avvertire, orientare, consolare i viventi. Il sogno ha nella cultura contadina un potere informativo, in qualche modo profetico, ed è per questo che l'interpretazione dei sogni ha una lunga storia. "Il Signore da l'autorizzazione ai santi e ai morti di andare nel sonno alla gente, per dargli consigli e avvertimenti, i sogni perciò appaiono come i messaggeri del Signore". "I morti ci vedono" dice un uomo di 74 anni" e quando vogliono dirci qualcosa ci vengono nel sogno, non è che noi sognamo, ma sono i morti che ci parlano e ci fanno vedere le cose che poi ci succedono, dunque sono essi che ci parlano e ci dicono quello che succede di bene e di male. I sogni non dipendono da noi, altrimenti faremmo sempre sogni buoni. "I sogni sono veri" racconta Rosina, contadina, analfabeta di 74 anni. "Mio figlio è morto giovinetto ed io prima che mi succedesse questa disgrazia ho avuto un segnale. Ho sognato per cinque o sei volte di seguito che andavo a prendere la legna e dopo che l'avevo legata e l'avevo caricata sul capo mi si slegava e mi cadeva per terra, e dovevo raccoglierla un'altra volta e tornavo punto e da capo, una continuazione: io la legavo ed essa si scioglieva. Cioè se i morti fanno festa non è bene, o se si sogna gente vestita da sposa, o salsiccia e salame è un male. Sognare invece di essere in lutto vuoi dire che verranno feste familiari. Quando i morti sono dispiaciuti vuoi dire che sono contenti i vivi. "Quando doveva nascere mia figlia" racconta una signora "mi sentivo male, molto male e abbiamo chiamato un medico. Questi mi disse - sapete, signora, vi raccomando riposo perché avere avuto un colpo d'aria - e avevo gli occhi chiusi. A me non andava di alzarmi dal letto e stavo nel letto e volevo stare sempre al buio. La notte sognai che ero in una casa mai vista e c'era la mamma della cognata mia e la zia ch'era morta giovanissi­ma, e mi volevano tanto bene. Mi dissero: "Ti senti male?" "Sto morendo non so che debbo fare". "Sai stiamo attraversando fiumi ed acque per te". "E perché per me? Io non vi faccio niente". "Tu non hai niente, ma devi sapere, guardami"! Si scoprirono e parevano avere una veste lunga e quella giovane aveva tutte le gambe scorticate. "Lo vedi come siamo combinate per te che hai due figli"? "Io vi ringrazio, vi ringrazio, ma che debbo fare"? "Senti, per il bene che ti vogliamo mangia, mangia, noi ti diciamo di mangiare e ti raccomandiamo di mangiare più che puoi". "Io non ho fame e voi dite di mangiare"? "Mangia, mangia più che puoi". Quando se ne andarono avevo la luce accesa, ma, alla loro partenza, mi hanno spento la luce e mi hanno detto: "Tienila sempre accesa". a mattina appresso mi svegliai e raccontai tutto a mia cognata. Dopo pochi giorni venne la levatrice e mi disse: "Dobbiamo partire, perché debbo toglierti l'albumina". Ti sei salvata solo perché non hai mangiato, perché hai 1 ' albumina e la nefrite. Se tu avessi mangiato e se fossi rimasta con la luce accesa o con le persiane aperte, saresti morta". Ringraziando Dio ebbi una femminuccia. I morti mi vennero in sogno e siccome parlano alla rovescia mi raccomandavano di non mangiare e di stare con la luce spenta. La regola dell ' inversione, del capovolgimento concorre ad orien-tare l'interpretazione popolare dei sogni che possono definirsi "simbolici", in cui, cioè, non vi è un'apparizione diretta che consente messaggi espliciti, ma messaggi da decodificare; cioè nel sogno ci sono dei significati latenti che bisogna interpretare, come una sorta di indovinello. DEVOZIONI POPOLARI - Particolare devozione serbava il nostro popolo anche per la Madonna di Pompei e della Madonna di Monte Vergine . La Madonna veniva implorata soprattutto dalle donne nei momenti più difficili: durante il parto o in caso di malattia. Ogni sera nel mese di maggio ci si recava in chiesa a recitare il rosario, o a porgere un fiore alla Vergine. "In questa valle di lacrime, avvocata nostra, non abbandonarci ma sii vicino alle nostre sofferenze, fa che il nostro cammino sia protetto da ogni male". A particolare devozione non mancava il pellegrinaggio al suo santuario nel mese di ottobre, e la sua immagine nelle case devote. - Il sette agosto Pietracatella era meta di un altro pellegrinaggio per la festività di S. Donato. A piedi, lungo l’erta dalla Taverna fino al colle vi giungevano, e ancora oggi qualcuno vi giunge, per devozione. Ci si rivolgeva al Santo per ringraziarlo del raccolto del grano, o ci si appellava a lui per una intercessione per i mali di testa o ai debiti che si avevano. Il sedici dicembre, con eccezioni molto diverse dalle attuali celebrazioni, il popolo, tutto il popolo, non mancava alla novena di Natale. Alle cinque del mattino la campana chiamava i fedeli ed essi accorrevano con la devozione di sempre. - Anche la settimana Santa era particolarmente sentita, e tutti praticavano scrupolosamente il digiuno quaresimale. La Pasqua della resurrezione era una festività davvero emblematica per la nostra gente che non aveva altro che una speranza di resurrezione dopo l'ineffabile tormento terreno. - S. Giuseppe padre putativo di Gesù è venerato ancora oggi in molti paesi molisani, ma solo in pochi paesi è rimasta una particolare devozione. Alcune famiglie, il diciannove marzo, onorano il Santo con questa particolare usanza: il convito per i poveri Il pranzo è composto da tredici portate e prima di assaggiarle si prega ringraziando il Santo. - Altra devozione è quella di S. Antonio da Padova che cade il tredici di giugno. Egli è il Santo dei miracoli, il Santo che viene implorato soprat­tutto nelle disgrazie e nei momenti più difficili della vita. Il nostro popolo si potrebbe dire si alimentava più che di pane, di preghiera. Una speranza celeste aiutava la gente a sopportare le mille disavventure terrene, le difficili tappe di un pesante cammino. Schiacciati e oppressi da una gravosa condizione economica e sociale, la nostra gente trovava respiro nella fede. Nel Signore si riponevano la speranza di pace, il desiderio di amore, che a volte lasciava amareggiati, la salvaguardia della propria dignità che spesso si perdeva. Il conforto ai tanti mali era dato da un segno di croce ed uno sguardo verso il ciclo. La mano degli umili tendeva sempre a Dio, quasi per rivendicare una antica promessa. La devozione e i pellegrinaggi erano il segno tangibile di una speranza ed una fede di resurrezione. - "Ogni anno vi torno a devozione di una croce, vi torno a baciare quell' acqua che serbo nel cuore, vi torno per sollevare il mio capo, vi torno perché Qualcuno mi ama e a Lui la mia devozione sempre mi guida". – Il pellegrinaggio I pellegrini molisani partivano all'alba, un segno di croce e una preghiera, avviavano i carri ad un lungo cammino. Il primo maggio si avviavano i devoti di S. Michele Arcangelo, il Santo implorato dai più bisognosi. Detta solennità cadeva l'otto maggio e da ogni paese molisano partivano carovane di devoti. Otto giorni per arrivare e otto giorni per tornare; questa era la durata del viaggio che i fedeli affrontavano per onorare il Santo. - "S. Michele è l'angelo che peserà la nostra anima; Lui presie­derà al giudizio universale, al giudizio che ci attende dopo l'ultimo giorno terreno". La preghiera che non cessava mai durante il pellegrinaggio, andava a suffragio dei tanti peccati che ognuno pensava di avere. A volte si praticava anche il digiuno per lacerare ancor di più il corpo e l'anima già tanto provati. Durante il percorso non mancava il canto, anzi esso fungeva da preghiera popolare, una preghiera dove meglio erano espressi gli elogi al Santo, dove meglio si sollecitava una grazia o un improvviso miracolo. II giorno prima di arrivare alla grotta dove è sito il Santo, ognuno accendeva una candela, e poi, accampati si dice "sotto tredici stelle", si vegliava quasi a purificarsi prima di baciare il Santo. I pellegrini molisani che si univano ad altri pellegrini rendevano la gocciolante grotta molto suggestiva; la devozione non tratteneva né le lacrime, né l'esplosione dei terribili affanni passati. Le ginocchia si piegavano sotto la spada del Santo e le mani a lui tese imploravano una grazia, una particolare attenzione, una bene­dizione. La preghiera diventava sempre più implorante, anzi non trovava requie fino a che non succedesse qualcosa, fino a che qualcuno non gridasse al miracolo. La grotta si riempiva di mille preghiere; ogni gruppo aveva una particolare tonalità ed un particolare accento, le mille candele accese e una speranza la rendevano luminosa, luminosissima come la fede che li aveva guidati. Dopo aver baciato mille volte il Santo, si risaliva dalla grotta cantando. "Oh S. Michele, grazie della tua benedizione, essa ci proteggerà dal maligno che ci insidia, grazie della tua benevolenza, gloria a te Arcangelo Michele". I pellegrini usciti dalla grotta riprendevano i carri avviati nuovamente da un segno di croce ed una preghiera. A chi poteva appellarsi il nostro popolo se non ai Santi? A chi poteva rivolgersi se non al Santo protettore? Nessuno udiva le grida della nostra gente, nessuno vi apportava soccorso se non quella fede viva per tutti i Santi del Paradiso. - Non c'è niente da fare, la legna secca è mortalità. Era la disgrazia che doveva patire mio figlio: è rimasto sotto una trave che stavamo caricando sopra un camion, una trave grande che due persone non potevano abbracciare". II sogno dunque è nella cultura contadina un presagio, uno strumento di visualizzazione e di conoscenza dell'ignoto (del futuro e dell'aldilà). Il "sogno dei morti" come luogo di apparizione dei morti può essere sollecitato con preghiere ed invocazioni. Alcune testimonianze dicono che l'apparizione avviene subito dopo l'avvenuta morte è segno che il morto è in paradiso. Di solito il morto apparirà da dietro, cioè nella posizione di chi sta camminan­do nella direzione opposta a quella dello sguardo del sognatore". "I sogni non si raccontano perché sembra che quando li hai raccontati quello che c'è di buono non si avvera più. E' come un incantesimo". E ancora: "Si dice che quando sogni cose buone non bisogna raccontarle alla gente, fino a quando il sogno non si è avverato". Il segreto è condizione della realizzabilità del sogno; esso dunque soggiace alla regola culturale del silenzio. Il clero a Toro e stato scritto che nel corso del 1700, a Toro, vi erano tanti preti e monaci e che la ” vita morale era dissoluta”. * ( più di 30 ) Potrebbe sembrare un paradosso, ma in effetti non lo è, poiché tutto è riconducibile a quella miseria comune che portava, a volte, agli eccessi anche gli stessi chierici. In epoca posteriore, precisamente a fine ottocento, vi era a Toro l’Arciprete Valerio Carlone, che in data 13 settembre 1891 scriveva all’Arcivescovo di Benevento, la seguente lettera: Eccellenza Ill.ma e Rev. ma,La festa di S .Michele Arcangelo, come al solito, è stata solennizzata, con tutta pompa, con processione, musica, spari ecc., Pare che il diritto di cantar messa e di fare tutte le funzioni fosse stato del Parroco, tanto più che io avevo fatto la novena ed i primi vesperi. Ebbene il Partecipante Laurelli, avvertito da me per sostituirmi per la messa mattutina del giorno della festa, mi fece un viso brusco e disprezzante, ammonendomi in pari tempo di guardarmi in avvenire.i fare altrettanto, perché egli non patisce che altri gli ricordi il proprio dovere. Conchiuse che la festa di S. Michele non trovandosi nell’elenco dei giorni in cui l’Arciprete è tenuto a cantare la messa solenne, cosiddetta della messa prima rimane al parroco. Eccellenza Vostra, è vero che la festa di San Michele Arcangelo non si trova segnata nella tabella, ma se questa fosse stata formata dal Cardinale Orsini nelle presenti circostanze di tempo e di luogo vi avrebbe fatto entrare le feste popolari che si solennizzano con pompa straordinaria più di Pasqua e di Natale, e la solennità istessa ed il concorso dei forestieri reclamano che in tali feste la prima dignità del clero debba funzionare. A quanto ho detto è normale la pratica negli altri paesi, e non è discorde la voce sacrosanta del Diritto? Funzionando dunque l’Arciprete in queste feste ed in tutte le altre di prima classe, pare che egli sia legittimamente impedito, e perciò pare pure che nei Partecipanti debba corrispondere il dovere di sostituirlo nella messa mattutina. ho riferito questo fatto, affinché V.Ecc.za vi metta riparo. Quanto è stato doloroso per me in tale solennità andare alla messa prima, e poi vedere un partecipante che non è altro che un economo del Parroco, aversi l’onore della messa solenne.Nella festività di San Mercurio, solennità come quella di San Michele, per una circostanza particolare io dissi la messa mattutina ed il Laurelli cantò la messa solenne. Dunque io sempre la messa prima e costui sempre alla solenne ! Chi sia Don Nicola Laurelli V. Ecc.za lo sa, se costui ha avuto l’ardire di ricorrere più volte contro gli ordini della Curia, immagini Ella come debba rispettare, ubbidire un arciprete. Prego V.Ecc.za dare disposizioni su tali fatti, come pure domando che mi si notifichino gli obblighi imposti al Laurelli sotto pena di sospensione, quali ordini e forse tanti altri, non mi sono stati notificati da chiunchesia. (sic) Ecc.za , pel bene che nutre alla mia famiglia, per la pietà che ha verso i suoi defunti, guardi con occhio di compassione la mia posizione e che giustizia ponga riparo a questi disturbi. La ossequio rispettosamente , e baciandoLE il sacro anello, domando la pastorale Benedizione, mi professo per la vita Di V.sta Ecc.za Reverendissima Umil.mo e Ubb.mo Servitore Valerio Arcipr. Carlone TORO il dì 1° ottobre 1891 Il 13 ottobre l’Arcivescovo di Benevento risponderà alla missiva all’Arciprete con le seguenti concise parole: “ E’ mai possibile che un arciprete debba scrivere tanta carta per una simile quisquilia? Siamo più seri e ci troveremo meglio” Benevento, 13 Ottobre 1891. In altra circostanza, 1° agosto 1899, lo stesso Arciprete, invierà altra lettera all’ Arcivescovo per chiedere se al Partecipante Laurelli, rifiutandosi la sua presenza ai funerali da parte dei parenti del defunto, “… a causa di partiti e anche di odio tra le famiglie a Toro, si minaccia alcuno, e da altri si è giunti alla via di fatto, di escludere dal funerale dei parenti qualche sacerdote, anche Partecipante…” , gli si debba dare “la sua porzione” . nella lettera è scritto pure: “Bisogna aggiungere che i Preti, nel caso che fossero esclusi, vogliono a qualunque costo la loro porzione, perché in chiesa saranno presenti al funerale, anche contro la volontà dei parenti del morto, non potendo esserne cacciati da nessuno, e che al contrario la famiglia del defunto non pagherà l’intero assegno del funerale, perché il tale sacerdote sarebbe stato escluso. al pascolo , a piedi nudi postato da: Anchise1 alle ore 21:20 | link | commenti (4) categorie: