Quel tempo immobile che ha spezzato il nostro tran-tran

Wu Ming, "la Repubblica", 2 giugno 2012


Da quando è iniziato il terremoto in Emilia, i giornali e siti di informazione (soprattutto quelli locali) pubblicano foto di orologi. Le torri degli orologi di Finale Emilia, San Felice sul Panaro e Ferrara; l’orologio della chiesa di Sant’Agostino, quello della chiesa di San Rocco a Cento… Quadranti danneggiati, spaccati, scomparsi. Qualcuno è rimasto intatto ma fermo, a segnare l’ora della scossa che lo ha bloccato. Chi come me vive a Bologna non può non pensare all’orologio della stazione, fisso sulle 10:25 dalla strage del 2 Agosto.
Perché un orologio fermo diventa notizia? Perché ne guardiamo la foto? Forse perché in essa cogliamo qualcosa, un lampo di verità su noi stessi.
L’Evento che lacera la quotidianità si esprime per metafore. Come gli insorti della Comune di Parigi secondo Walter Benjamin, il terremoto ha «sparato sugli orologi». Non solo: ha causato il tracollo della rete telefonica mobile. Quale messaggio dovremmo cogliere?
Se chiedi a un bambino di disegnare una casa, disegnerà quasi sempre una villetta monofamiliare, anche se vive in un trilocale al decimo piano o in un brefotrofio. In modo analogo, il terremoto ha colpito gli orologi di torri e campanili, benché da tempo non siano più quelli a scandire la nostra giornata. L’odierna forma-orologio è onnipresente, incorporata in ogni nostro dispositivo: computer, tablet, telefonino, furbofono, cruscotto di auto «intelligente»… Oggi, almeno in Occidente, sappiamo tutti e sempre che ora è. Non era mai accaduto che la maggioranza dei membri di una società si percepisse e rappresentasse in ogni momento dentro un tempo scandito e strutturato. Franco “Bifo” Berardi dice che il telefonino è una catena di montaggio mobile, dalla quale non puoi staccarti. Al tempo stesso, sei cronometrista della tua prestazione.
E’ forte la tentazione di maledire il sisma, descriverlo come «demone», «mostro», entità ostile. «Siamo in guerra con la terra», ha gridato a tutta pagina un quotidiano emiliano, ma non è la terra il nemico. E’ forse colpa della terra se viviamo, costruiamo, abitiamo, lavoriamo, obbediamo in un certo modo? A uccidere non è il sisma, ma la realtà su cui il sisma getta luce. A uccidere è l’illusione che si possa tornare subito al tran tran di prima, ai ritmi forsennati di prima. La spinta a ripristinare la «normalità» (la parola più ripetuta nelle interviste) è costata altre vite: le aziende non hanno atteso le verifiche e gli operai sono tornati a lavorare in capannoni a rischio, con le conseguenze che sappiamo. Dunque, l’unica «normalità» già ripristinata è quella dei morti sul lavoro per mancanza di sicurezza, delle famiglie devastate, dei figli rimasti orfani perché la macchina non poteva fermarsi.
Spesso, nelle città, i movimenti sociali rivendicano «spazi», ma avere spazi non cambia nulla se non si contestano i tempi. Ti riappropri degli spazi quando i tempi saltano e riprendi fiato, grazie allo zoccolo scagliato negli ingranaggi. E’ tragico che a gettare lo zoccolo sia stato un terremoto, ma la tragedia non deve ottenebrarci, renderci ciechi di fronte agli esempi.
Un amico mi racconta che, dopo l’ordinanza di chiusura delle scuole, i parchi del suo paese si sono riempiti di bande di bambini che giocano ad libitum. Non accadeva da anni, nemmeno nei giorni festivi. Oggi i bambini – anche in provincia – vivono «imbozzolati» in tempi infernali, con giornate piene di scadenze e impegni incastrati meticolosamente: scuola, piscina, lezione di questo e quello, catechismo… I pochi, interstiziali momenti di far-niente li passano davanti a uno schermo. L’Evento ha interrotto la sequela e fatto riscoprire uno spazio, lo spazio dei giochi per eccellenza.
In diversi stati, gli edifici delle università sono aperti anche di notte, a disposizione degli studenti. In Italia no, ma ci ha pensato l’Evento. La facoltà di Architettura di Ferrara è rimasta aperta di notte, per accogliere chi preferiva dormire fuori casa. Fino a trent’anni fa, quell’edificio di via della Ghiara ospitava un manicomio, grande macchina disciplinare, luogo di costrizione fisica e totale eterodirezione dei tempi.
Mentre scrivo, nelle province emiliane colpite dal sisma (Modena, Ferrara e Bologna) le scuole sono ancora chiuse e c’è chi propone di dichiarare terminato l’anno scolastico. Le scosse potrebbero susseguirsi per mesi, si capisce che la vita sarà diversa. Molti operai si rifiutano di rientrare nei capannoni. «La vita vale più dell’economia», ha dichiarato un dirigente della FIOM. E’ la frase più eretica che oggi si possa dire, ma la routine già incalza e preme, e presto tornerà a imporsi.
Il tran tran è astuto: si ammanta di straordinario, si traveste da finta discontinuità. Si pensi al «minuto di silenzio»: rituale rapido e innocuo, conferma che l’ordine regna e può permettersi di sprecare un minuto… al termine del quale approfitterà del momento, pigiando sull’acceleratore di strozzanti controriforme e imponendo la sua shock economy.
E’ vero, vogliamo «ripartire» (il verbo più usato nelle interviste). Tuttavia, sarà il caso di cambiare meta e percorso, saltando giù da questo treno iperveloce. Chiediamoci: questa velocità dove ci porta? «Lavorare con lentezza, chi è veloce si fa male», cantava Enzo Del Re. Chiediamoci, soprattutto: questa velocità a chi conviene? «Un ladro più veloce ruba meglio, e un fesso più veloce non diventa meno fesso», diceva Amadeo Bordiga.
Il tran tran si riaffermerà. Intanto, approfittiamo dell’Evento per respirare, pensare, prepararci a lottare.