Il maggiordomo Pansa “ammesso” alla corte del padrone. Il romanzo Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa, ovvero un servizio politicamente funzionale alla volgarità revisionista che redime il fascismo
 
di Luigi Pestalozza, "L'Ernesto", novembre-dicembre 2003


E' importante – la forma è una scelta che ha il suo effetto, mi attengo a essa –, che ne Il sangue dei vinti di Gianpaolo Pansa non ci siano documenti. Solo memorie attraverso terzi, cifre come al tempo dell’“Uomo Qualunque”, quando Guglielmo Giannini parlò di 300 mila fascisti uccisi dai partigiani. Per poi però, in punto di morte, confessare di esserseli inventati. Mentre comunque Pansa non avrà nemmeno bisogno di confessare in extremis, perché subito all’inizio del libro escogita un esordio da romanzo con la bella Livia, di cui prima di tutto apprezza le appetitose gambe, assunta a conduttrice del racconto. Che dunque con lei romanzescamente prosegue per 381 pagine, così da farla diventare, di quello che in quelle pagine viene narrato, la principale responsabile.
Appunto Livia è fin dall’inizio simbolicamente inventata, viene da dire, a recitare fra l’altro subito la morale della favola di Pansa, se precipitosamente Livia precisa che negli anni di Salò, in Italia, c’è stata “guerra civile”: che è una formula della manipolazione storica per mettere fascisti repubblichini e partigiani alla pari, ugualmente portatori di legittime ancorché contrapposte idee, infine per dire che ciascuno aveva dietro di sè una legittimante parte reale de popolo italiano. Falso ma significativo in testa a un libro su partigiani e fascisti. Per cui del resto, sempre come morale anticipata della favola, e sempre in apertura del libro, c’è la rappresentazione del 25 aprile non come giorno della liberazione ma come “alba coperta di sangue”, se “il primo risultato dopo la sconfitta del fascismo è stato di riempire di cadaveri migliaia di fosse, di tombe senza segno, di cimiteri occultati”.
Livia insomma – mentre Pansa continua presumibilmente ad ammirarle le gambe – è chiara, così continuando per episodi ed episodi, compreso quello, esemplare di come il suo racconto vada, degli attori Osvaldo Valente e Luisa Ferida, che (a Milano) “sulla base di accuse mai provate (...) vennero accoppati all’alba del 30 aprile, in via Poliziano”. Quei due di quella “Villa Triste”, naturalmente solo per Livia – che continua a scrivere fino a pagina 381 in veste di Pansa – essa per prima mai provata, inesistente. Come chi ha fatto – come chi scrive – la Resistenza a Milano, sa bene. Anche tramite i compagni e le compagne che la Ferida e il Valente hanno a “Villa Triste” conosciuti, anzi, sperimentati. Ma in realtà, secondo liviana realtà romanzesca, “mai provati”. Fantasticati. Ma, dopotutto, anche Berlusconi giura in televisione, di fronte al popolo, che in Italia l’85% dei giornali è contro di lui e il suo governo. Appunto, mai provato.
Salvo che non è questo a importare. Dopotutto Livia detta a Pansa il suo ultimo romanzo; essendo però il romanzo, non di rado, la forma letteraria organizzata secondo preordinati gusti e bisogni consumistici, per cui c’è stato il romanzo d’appendice, c’è oggi “Harmony”, c’è il romanzo degli orrori che compiace un gusto diffuso dell’orrore a patto però che l’orrore resti romanzesco. Anche così, peraltro, potendo nel caso assolvere a un servizio politico, politicamente qualificato, per cui l’orrore romanzato serve a chi romanza e a chi tale servizio politicamente serve. Ed è “La memoria dei vinti”. Appunto la sua, scelta, forma.
Ritorniamo all’importante, al perché è importante come è fatto, con Livia romanzante al centro, Il sangue dei vinti. Perché concorre, per come è fatto, a definire l’autore. Trattandosi infatti di un libro/racconto realfantastico, in quanto ipotizza una realtà possibile ma narrata per memorie affidate a Livia, riguarda dunque direttamente il suo retrostante e però effettivo autore, il suo fare qui e ora un tale libro. Dove qui e ora vuole dire come oggi – secondo regime neoliberista in devastante versione berlusconiana – si fa comunicazione, libri compresi, ovvero la si fa secondo il regime per il quale è neoliberisticamente essenziale esibire la storia finita: per quanto riguarda quella nazionale, quella dell’antifascismo, della sua idea, dei suoi attori. Ovvero spazzare via per prima la Resistenza, 1’identità ideale e umana dei partigiani, e attribuire quindi un volto umano ai fascisti e al fascismo di Salò, così dunque ristabilendo la continuità antidemocratica della storia italiana, da quella sabauda e liberal-borghese compreso il fascismo da essa germinato, fino a quella del postfascismo non più di rottura e rifondazione democratica del processo storico nazionale. Ma appunto non più tale perché principalmente segnata dal massacro partigiano dei fascisti, utile dunque – a prescindere dalla sua documentazione – per marginalizzare l’antifascismo democratico borghese e soprattutto quello di classe, antagonista; cioè ogni forma storica e presente di opposizione/alternativa allo stato attuale – come da noi neoliberisticamente configurato – delle cose.
Salvo che allora siamo davvero all’autore de Il sangue dei vinti, al suo pensare e fare un tale libro nella situazione di regime che pensa e determina come pro domo propria debbano essere fatti i libri, la comunicazione in generale.
Appunto fino a Pansa; tanto più significativamente titolare, attraverso Livia, de Il sangue dei vinti. Non necessariamente scritto, non lo crediamo davvero – è del resto la forma ad andare in altra direzione – per danaro. Proprio in termini di regime, di questo regime, troppo banale. Se infatti il regime, da noi in forma berlusconiana estrema, è quello del neofeudalesimo neoliberista, capitalisticamente finanziario, borghesemente regredito a prima del 1789 francese rivoluzionario, anzi a prima dell’illuminismo; per cui nel mondo l’idea e la prassi di società e di stato anche liberalborghesi sono finite, negate, annientate dalla pratica e dalla teoria della fine della storia o della sua regressione nelle forme attuali del dominio a prima del secolo dei Lumi.
Per dire, insomma, come da noi, all’estremo di volgarità e degrado culturale organizzati, riemergono dall’età feudale, ancorché già nell’Ottocenteo della Restaurazione borghesemente conservatrice, certe figure. Come quella del maggiordomo; che nella casa del padrone o signore borghesemente neuofeudale, ovvero nella società a suo uso e immagine, è figura distinta dalla servitù addetta ai servizi quali la cucina, il guardaroba, le pulizie. No, il maggiordomo, che non era affatto oggetto di corruzione, un corrotto; che semplicemente, semmai, riceveva un soldo più alto di quello riconosciuto all’altro personale. Era altra cosa: perché per come sapeva servire secondo i gusti e i bisogni particolari del signore/padrone – tanto da prevederli e perciò essergli a fianco nella più riservata vita quotidiana – era prima di tutto un “ammesso”. Ammesso a quella vita padronale/signorile, ammesso alla cerchia del signore/padrone; con in più, rilevante per noi o per il libro pansa-liviano in questione, 1’indifferenza sulla bontà o meno, verità o meno, delle cose maggiordonamente fatte: se proprio l’ammissione alla cerchia padronale /signorile, con tutto quello di privilegio che ne conseguiva, obbligava a questa indifferenza: per cui ad esempio se il maggiordomo doveva scrivere, posto che fosse alfabetizzato, un biglietto per il suo padrone, lo scriveva come serviva a questi, al signore, senza porsi domande sulla credibilità o meno dello scritto. Ma appunto il maggiordomo, che non evoca la categoria della corruzione, è in questi termini – e non è poco – un “ammesso”: insomma Pansa e la sua Livia con le sue straordinarie gambe subito fatte notare, per dirci subito il ruolo del libro, del suo romanzare, di chi lo scrive, della forma scelta per esso, con riguardo al regime la cui comunicazione televisiva è miratamene popolata da mane a sera da gambe femminili, liviane, “ben tornite” come Pansa le descrive, con le quali dunque, per come immediatamente c’è l’interrelazione, ben significativamente apre il libro Il sangue dei vinti; che dunque proprio così si fa immediatamente ammettere all’alto girone del padronato di oggi, al suo modo di volere e fare la storia nazionale, in modo per cui non importa nemmeno, non deve importare (anzi), che ci siano state – come, perché, quante – esecuzioni improprie di fascisti. Ossia disinteresse sempre organico alla forma romanzesca prescelta, per la storia fatta da storici responsabili, cioè vera – come del resto c’è già stata –, se il problema di “violenze ed uccisioni” improprie – come si legge nel comunicato della Presidenza Nazionale dell’ANPI proprio sul libro di Gianpaolo Pansa – è esistito: ma appunto già trattato da storici responsabili che hanno individuato, messo in luce, delimitato il vero.
Non riguarda dunque il mestiere di maggiordomo, ovvero il libro formalmente voluto e fatto secondo questo mestiere, per cui – precisazione dovuta – gli stessi barlumi di riferimento documentario sono immediatamente romanzati, consegnati al racconto di Livia, autore de Il sangue dei vinti, al suo ibrido fantasticare quanto mai funzionale all’immissione e realfantasticante nella cerchia del Santo Gral, del signore, del padrone.
Per cui la realtà romanzesca dei partigiani soltanto criminali, stragisti, nella “guerra civile” per cui i fascisti sono legittimati a farla, sono anzi le vittime: ma quindi dentro una storia nazionale che attraverso la violenza atroce, mortale, da loro subita per mano partigiana, ritrova in loro la sua identità: in Mussolini stesso sempre da Livia sotteso, fino all’ulteriore racconto – esemplare anch’esso, di Livia ovvero Pansa ovvero Livia – di Starace fucilato per il gusto di farlo, o fino a quello di Bombacci e Pavolini fucilati a Dongo limpidi e palesemente incolpevoli, scritti da Livia in quanto Pansa e viceversa in modo da destare rispetto per la loro dignità, e dunque sdegno, puntualmente, per i partigiani. Ovvero oblio per tutto di fascisti, di fascismo. Ma Berlusconi non ha ostentatamente evitato di celebrare il 25 aprile, la Resistenza?