Boom negli Usa, trionfo dell’economia di carta

di Giorgio Paolucci, "Prometeo", N. 18, dicembre 1999



Otto anni di crescita interrotta del Pnl, un tasso di inflazione saldamente sotto il due per cento e un tasso di disoccupazione fra i
più bassi del mondo (4,5 per cento) hanno fatto degli Usa il nuovo mistero dell’economia politica. Non c’è rivista specializzata
che non ne parli e la stampa quotidiana ha assunto ormai la ricetta americana come la panacea di tutti i mali. Che si tratti del mal
di pancia dei poppanti, dell’emicrania dell’impiegato di banca o del rincaro del prezzo della benzina, la ricetta è sempre quella:
l’America! Solo che anche in America gli economisti non riescono a mettersi d’accordo sulle ragioni di questo exploit. I
sacerdoti del monetarismo sostengono che il merito sta tutto nella rigorosa politica di bilancio perseguita dal governo combinata
con la flessibilità del mercato del lavoro. Secondo altri, invece, il segreto della crescita starebbe nell’aumento della produttività
conseguente alla rivoluzione tecnologica basata sull’introduzione della microelettronica nei processi produttivi e, più
precisamente, nel forte impegno del Governo federale, del Dipartimento della Difesa, di quello dell’Energia e della Nasa che
coprono il 95% della spesa dedicata alla ricerca relativa allo sviluppo delle nuove tecnologie. Contrariamente a quanto
sostenuto dai monetaristi, dunque, il segreto del miracolo sarebbe da ricercarsi proprio nell’intervento dello stato nell’economia
orientato però non al sostegno diretto della domanda come nello schema keynesiano, ma quello dello sviluppo tecnologico.

Per questa ragione essi parlano apertamente di "Nuova teoria dello sviluppo"1. In questo caso,

contrariamente allo schema keynesiano, la crescita della domanda sarebbe il prodotto della crescita della produttività e non del
finanziamento in deficit della spesa pubblica. E per questa ragione sarebbe immune dal virus dell’inflazione e si configurerebbe
come un fatto strutturale e permanente dell’economia capitalistica moderna.

I keynesiani più convinti sostengono invece che sotto il sole non ci sarebbe niente di nuovo e il boom sarebbe il frutto della
crescita della domanda conseguente alla politica creditizia fortemente espansiva perseguita dalla Federal Reserve a partire dalla
seconda metà degli anni ’90, che avrebbe favorito il rilancio degli investimenti e la diffusione delle nuove tecnologie. In ultima
istanza, comunque, anche per gli economisti d’oltreoceano, tutto va a gonfie vele e la stessa ininterrotta crescita di Wall Street
più che di una grande bolla speculativa (come teme che sia, per esempio, lo stesso Greenspan e molti altri economisti) sarebbe
solo il logico riflesso di imprese in buona salute che fanno profitti solo grazie alla loro maggiore competitività e alla superiorità
dei loro sistemi produttivi; il riflesso cioè del positivo andamento della cosiddetta economia reale. Ma è tutto oro quel che luce?
 

L’altra faccia della medaglia

Intanto, si impone una prima precisazione: i dati statistici che misurano l’andamento delle variabili macroeconomiche negli Stati
Uniti sono calcolati con metodologie diverse da quelle in uso sia in Italia sia nel resto dell’Europa. Recentemente, lo stesso
presidente del Consiglio D’Alema, rivendicando al governo di centrosinistra la creazione di 600 mila posti di lavoro, a chi gli ha
fatto osservare che in realtà si tratta di posti di lavoro fittizi perché ottenuti ripartendo - grazie alle agevolazioni concesse agli
imprenditori che hanno fatto ricorso alle varie forme di lavoro flessibile - la stessa quantità di lavoro su un numero maggiore di
lavoratori, ha obbiettato: "...Vorrei chiedere ai liberisti nostrani perché se lo adotta l’America, il lavoro flessibile è la forza del
miracolo yankee, che altrimenti avrebbe la disoccupazione di Reggio Calabria. Se lo adotta l’Italia il lavoro flessibile è solo
precariato."2

E ha ragione: il lavoro flessibile è precariato sia in Italia, sia negli Usa!

La discordanza metodologica è tale, dunque, da poter far apparire una realtà in cui è la disoccupazione a farla da padrona
come una di piena occupazione. D’altra parte, pur volendo tralasciare le differenze metodologiche dei sistemi di calcolo
statistico in uso al di qua e al di là dell’Oceano, la lettura, insieme a quello positivo da otto anni che misura la crescita del Pnl,
dei dati ufficiali statunitensi relativi agli altri parametri macroeconomici di una certa rilevanza, mostra con estrema chiarezza che
più di un qualcosa non va in questo tanto decantato Eldorado.

Per esempio, poco si parla del fatto che "il deficit commerciale delle partite correnti - come ci informa l’economista C. Fred
Bergsten- degli Stati Uniti potrebbero raggiungere 330 mld di dollari nel 1999."3 E si tratterebbe del deficit commerciale più
grande in tutta la storia statunitense! Eppure questo dato oltre a dirci che gli Usa importano molto di più di quanto esportano,
mette in evidenza che questa tanto decantata crescita della produttività statunitense ottenuta grazie ai maggiori investimenti nelle
nuove tecnologie, non deve essere stata poi così grande come si lascia intendere visto che acquistare merci all’estero è più
conveniente che acquistarle in patria. Se poi si prende in considerazione anche il fatto che l’orario di lavoro negli Stati Uniti negli
ultimi anni è aumentato del 4% in netta "controtendenza rispetto agli andamenti mondiali"4, e senza che a ciò abbia corrisposto
un’equivalente crescita dei salari, il dubbio appare più che giustificato e la spiegazione del presunto miracolo basato sulla
crescita della produttività conseguente agli accresciuti investimenti industriali fornita dalle varie correnti del pensiero economico
borghese appare quanto meno lacunosa.

Poi, per forza di cose, se la crescita del Pnl si fosse fondata sulla crescita delle attività produttive che avrebbe generato una
reale piena occupazione, avremmo dovuto registrare nel corso degli ultimi anni anche una significativa riduzione delle aree di
emarginazione e della povertà; invece - si legge sempre sul già citato Affari & Finanza di La repubblica: "Cinquanta milioni di
cittadini americani vivono al di sotto o prossimi alla soglia della povertà. Il blocco della riforma sanitaria promessa da Bill
Clinton lascia oltre 40 milioni di americani senza assistenza sanitaria e Al Gore apre la campagna per le presidenziali
promettendo l’assistenza sanitaria gratuita per 11 milioni di bambini che ne sono privi entro il 2005!".5

Queste tesi che danno gli Stati Uniti lanciati verso la piena occupazione e la crescita ininterrotta solo grazie alla crescita della
produttività, mal si conciliano anche con i dati relativi alla distribuzione della ricchezza. In un contesto di forte sviluppo delle
attività produttive e in presenza di una tendenza alla piena occupazione si dovrebbe registrare quanto meno un rallentamento
della divaricazione nella distribuzione della ricchezza fra le classi e i diversi ceti sociali; invece le statistiche - quelle ufficiali cioè
quelle per cui se Reggio Calabria si trovasse negli Usa non vi troveresti un disoccupato neanche a pagarlo a peso d’oro -
dicono per esempio che il rapporto tra "i redditi dell’operaio e dell’imprenditore, che era già di 1 a 42 nel 1980, è ormai di 1 a
419"6 . Si potrebbe obbiettare che, essendo dati parziali e di lungo periodo, potrebbero non cogliere l’eventuale inversione di
tendenza che si fosse verificata negli ultimi anni; sennonché si tratta di una tendenza generale che caratterizza fortemente la
società statunitense dei nostri giorni. Quest’anno - ci informa il Corriere della Sera :" L’un per cento della popolazione Usa, 2
milioni e 700 mila persone, avrà lo stesso reddito complessivo del 38 per cento più povero, 100 milioni di persone. Il motivo:
nell’ultimo ventennio...il suo reddito è salito del 115 per cento in termini reali, mentre quello dei meno abbienti è diminuito del 9
per cento". E, continua l’articolista, citando l’economista ed esperto americano della distribuzione del reddito Frank Levy del
Massachusettes Institute of Technology :" Nel ‘99, il 90 per cento della crescita del reddito individuale affluirà all’1 per cento
dei privilegiati".... " In pratica, quest’anno i 2 milioni 700 mila americani di punta avranno un reddito netto pro capite di 515 mila
dollari, quasi 1 miliardo di lire; ma ben 55 milioni di indigenti ne avranno uno di 8.800 dollari, meno di 16 milioni di lire." mentre
- sottolinea ancora - Levy- "Nel ‘77... i cittadini meno fortunati avevano un reddito equivalente a 10.000 dollari di oggi."7

L’incongruenza dei dati che, seppure parzialmente, la rappresentano, con la realtà descritta dagli economisti appare poi ancora
più evidente se si esaminano le seriazioni statistiche relative alla capacità dell’economia statunitense di creare nuovi posti di
lavoro. Da esse si evince infatti una tendenza di segno opposto a quello che comunemente è considerata essere la tendenza in
atto. L’economia statunitense ha creato"... nel decennio 1970-1980... 20,5 milioni di posti di lavoro (gli occupati passano da
81,9 a 102,4 milioni), ovvero più di due milioni l’anno. Nel decennio 1980-90 ne crea 17,2 milioni l (gli occupati passano da
102,4 a 119,6 milioni), corrispondenti a 1,7 milioni l’anno. Tra il 1990 e il 1995 ne crea 6,9; la capacità di jobs creation
scende così a 1,4 milioni l’anno. E creare 2 milioni di lavori l’anno su una popolazione attiva di 86 (e una popolazione totale di
205,1 milioni, dati del 1970), è una prestazione molto più rimarchevole che non crearne 1,4, sempre all’anno, su una
popolazione attiva di 132,5 e una popolazione totale di 263,4 milioni (dati del 1995).8 Se a ciò si aggiunge che trattasi di lavori
per lo più precari, il quadro statistico rappresenta più un’economia (reale) in fase di declino che una che sta conoscendo una
fase di poderoso sviluppo.
 

L’inarrestabile crescita della sfera finanziaria

Come conciliare, dunque, questi dati con quelli relativi all’andamento del Pnl che negli ultimi anni è cresciuto del 19 per cento
contro il 13,5 dell’UE e il 6 per cento del Giappone?9 Intanto è d’obbligo una precisazione. Il Pnl è comprensivo delle attività
di tutti i settori; così, per esempio, un calo della produzione industriale può essere compensato e annullato da una crescita
dell’agricoltura, oppure un calo in entrambi questi settori può essere compensato o annullato dalla crescita del settore dei servizi
e così via. Assumere ogni variazione positiva del PNL come la conferma che l’economia del paese considerato vada a gonfie
vele è dunque quanto meno azzardato. Peraltro restano fuori dal calcolo numerosi parametri come per esempio gli investimenti
per la spesa sanitaria che invece, anche secondo molti economisti borghesi, se inclusi darebbero una misura più esatta del reale
valore della ricchezza prodotta e che il PNL pretende di misurare. Altresì lo stesso discorso vale per il calcolo degli incrementi
della produttività del lavoro che le statistiche ufficiali danno, negli Stati Uniti, dal 1996, in crescita a un tasso del 1,5 per cento
annuo. Preso così, come normalmente fanno tutti i mezzi di informazione e anche buona parte della stampa specializzata, il dato
può suscitare una certa impressione, ma in realtà esso può anche celare una semplice riduzione dei salari reali a parità di
produzione ciò che non significa automaticamente una maggiore efficienza dell’economia considerata.

Non lasciano invece adito i dubbi i dati che mostrano come nell’ultimo decennio negli Stati Uniti le attività finanziarie, e quelle
speculative a esse connesse, abbiano conosciuto una crescita esponenziale che se attentamente interpretata proietta sul corso
dell’attuale fase dell’economia statunitense e mondiale non poche ombre.

A partire dal 1996 l’indice Dow Jones dei titoli industriali è aumentato di oltre il 70 per cento.10 Si potrebbe osservare che
anche questo dato preso in sé non è necessariamente indicativo del prevalere di una pericolosa tendenza speculativa. Per quale
ragione, si chiedono infatti i teorici del pensiero economico dominante, le azioni di imprese sane, che fanno registrare buoni
profitti non dovrebbero aumentare di valore? E, dal loro punto di vista, potrebbero avere ragione se non fosse che hanno subito
rialzi favolosi anche le azioni di società in perdita o che svolgono attività che nulla hanno a che fare con la produzione
industriale. Per esempio, la libreria virtuale Amazon, benché in deficit, "vale più di tutte le grandi catene di librerie americane
messe insieme, e Priceline.com, un servizio di vendita di biglietti d’aereo a buon mercato, all’indomani della sua quotazione in
Borsa, valeva 11,7 miliardi di dollari, cioè più di qualsiasi altra compagnia aerea"11 Il rialzo è cioè indiscriminato e prescinde
dalla reale consistenza sia dell’andamento economico dell’attività dell’impresa quotata, sia dalla sua consistenza patrimoniale: si
investe in un titolo perché la quotazione del titolo è in crescita e non perché l’impresa è sana. Ed è per questa ragione che sono
ormai divenuti ricorrenti gli allarmi lanciati dal presidente della Fed Greenspan contro "l’esuberanza irrazionale dei mercati"
confermata, fra l’altro, dalle incredibili performances registrate in questi ultimi anni dell’Indice generale di Wall Street. Il Dow
Jones, che nel 1996 era attestato a quota 6.000, nel marzo del ‘98 era a quota 9.000; nel marzo del ‘99 a 10.000 ed era già a
11.000 nel maggio dello stesso anno. Si tratta di una progressione senza alcun riscontro nell’economia reale visto che la
capitalizzazione di borsa equivale a più del 150% del Pil mentre, nel 1988, per esempio, a mala pena raggiungeva il 50 per
cento.12

Stranamente, però, nonostante il fenomeno abbia assunto proporzioni di tale entità, quando si tratta di valutare le tendenze in
atto nell’economia statunitense, esso viene sottaciuto o considerato del tutto marginale; eppure è solo alla luce di esso che le
incongruenze presenti nella tesi sostenuta dalla gran parte degli economisti borghesi secondo cui il boom statunitense affonda le
sue radici nell’ottimo andamento dell’economia reale, trovano una spiegazione coerente con la realtà; infatti è connaturata allo
sviluppo delle attività finanziarie, l’esasperazione della tendenza alla centralizzazione dei capitali. Così come è tipico della
crescita della speculazione e delle attività parassitarie la creazione di posti di lavoro nel settore dei servizi e quelli di tipo servile
oggi in forte crescita negli Usa.
 

L’origine delle diseguaglianze

Una società divisa in classi come quella attuale è strutturalmente una società ingiusta e l’accrescimento delle diseguaglianze è un
dato strutturale, ma nondimeno, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, almeno nei paesi capitalisticamente più
avanzati a cominciare dagli Stati Uniti il poderoso sviluppo della produzione industriale insieme all’affinamento delle forme del
dominio imperialista, hanno consentito, pur in concomitanza con l’accrescimento delle diseguaglianze sociali, una redistribuzione
della ricchezza tale da garantire un costante miglioramento delle condizioni di vita anche del proletariato, soprattutto di quello
industriale.

La crescita della grande industria, induceva, infatti, anche quella del numero dei salariati e del monte salari complessivo
alimentando così la crescita della domanda, quella dei consumi e quella degli investimenti. Oggi, in conseguenza della crisi
strutturale del ciclo di accumulazione del capitale, i bassi saggi del profitto industriale inducono il capitale finanziario alla
costante ricerca di extra-profitto che si concretizza con l’appropriazione di quote di rendita finanziaria mediante la produzione
di capitale fittizio, ovvero con la produzione di capitale finanziario a partire da altro capitale finanziario. Riducendosi in tal modo
la quota parte del capitale finanziario complessivo che si trasforma in capitale industriale, quel circolo "virtuoso" per il quale la
crescita delle diseguaglianze sociali veniva attutita dal miglioramento generale delle condizioni di vita, annaspa e la ricchezza
prodotta tende ad accentrarsi in un numero di mani sempre minore.

La linea che separa ricchi e poveri nella società americana, ma anche in quella europea e di tutti i paesi a capitalismo avanzato,
coincide sempre più con quella che separa coloro che possono accedere ai mercati finanziari da coloro che ne sono esclusi.

Sempre sul Corriere della Sera, commentando lo studio del già citato F. Levy sulla crescita delle diseguaglianze sociali
registrata in Usa negli ultimi anni, si legge: "...A questo peggioramento della sperequazione hanno contribuito due fattori anomali:
l’incredibile ascesa di Wall Street, dove il 40 per cento più povero della popolazione non ha modo di entrare, ma i più abbienti
accumulano altra ricchezza; e le riforme fiscali imposte dai repubblicani, che controllano il Congresso, molte andate a vantaggio
dei ricchi. Inoltre, commenta Levy: "mentre una volta il welfare state garantiva una minima redistribuzione del reddito,
adesso è in ritirata."13 E vi è da tener conto che, soprattutto negli Usa, per molti l’accesso in Borsa non è sinonimo di automatico
arricchimento; i lavoratori occupati, per esempio, sono di fatto costretti a entrarvi perché le grandi aziende tentano in tutti i modi
di costringerli a passare dalla tradizionale pensione di vecchiaia imperniata sui contributi mensili ai fondi di investimento. "E’ una
formula allettante in questa fase in cui Wall Street sale alle stelle. Ma - ci informa ancora Corsera - le maestranze dell’Ibm... si
sono ribellate quando la società l’ha imposta a chi ha meno di 25 anni d’anzianità. L’Ibm ha dovuto limitarsi ad applicarla a chi
ha meno di dieci anni"14

Inoltre, per poter integrare un reddito che nel corso degli anni è andato sempre più assottigliandosi, anche una buona parte della
piccola borghesia è stata costretta a riversare il proprio risparmio in Borsa. Gli operai, e più in generale i salariati, a cui
l’accesso in Borsa è negato, invece, lavorano di più. Essi - secondo l’economista J.Schor - "per mantenere il livello di vita che
avevano nel 73, devono lavorare 245 ore ( o sei settimane) in più ogni anno"15 e infatti - secondo un recente rapporto
dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil)- l’orario di lavoro negli Usa è passato dalle 1883 ore annue del 1980 alle
1996 del 1997 mentre nello stesso periodo in quasi tutti paesi sviluppati è calato ...passando ad esempio da 1809 a 1656 ore
in Francia, da 2121 a 1889 in Giappone e da 1512 a 1399 ore in Norvegia.

Il fatto, dunque, che " Nel 1997, il 43% degli americani adulti ha investito in borsa... (e che ndr)... Il portafoglio azionario
rappresenta il 25% delle attività degli americani - contro l’8% del 1984" 16 più che dimostrare che siamo in presenza di
economia in poderosa crescita dimostra invece quanto ormai il peso della sfera finanziaria sia divenuto preponderante.
 

L’irresistibile ascesa di Wall Street

Alla luce di queste considerazioni il boom statunitense appare dunque più il boom della finanza che quello dell’economia reale. "
Io non conosco - dice l’economista H. Kaufman- alcun periodo dopo la seconda guerra mondiale in cui il benessere degli Usa
e del resto del mondo è dipeso così tanto dal benessere della borsa americana."17 E molti pensano che l’ascesa di Wall Street
sia inarrestabile. Ma pur se nessuno può escludere che essa possa ancora prolungarsi nel tempo, un’analisi più attenta delle
ragioni di tale crescita ci dice che quando essa cesserà potrà avere conseguenze davvero catastrofiche e non pochi ormai sono
coloro che vedono aleggiare il fantasma di un nuovo 1929. D’altra parte si tratta di una crescita che, almeno negli ultimi anni, ha
avuto come fulcro le devastanti crisi finanziarie che hanno travolto in successione prima il Messico, poi l’Est asiatico, la Russia e
infine il Brasile. I capitali che hanno lasciato questi mercati si sono riversati soprattutto sulla borsa americana comprando di tutto
un po’. Inoltre, il Fondo monetario Internazionale e la stessa Fed, preoccupati per la tenuta del sistema bancario statunitense e
di conseguenza di quello internazionale, hanno, a loro volta, immesso liquidità sui mercati che si è in gran parte riversata su Wall
Street dando così nuova linfa alle spinte rialziste già esistenti.

Ora, in generale, quando si crea sul mercato un surplus di liquidità, per evitare che esso generi inflazione, le banche centrali,
passata la fase acuta delle crisi, provvedono a riassorbirlo mediante il rialzo dei tassi di interesse. La Fed, trattandosi di un
surplus in dollari, avrebbe, cioè, dovuto rialzare i tassi di interesse; ma non l’ha fatto. Un po’ perché non poteva e un po’
perché non ha voluto farlo. Come abbiamo visto, negli Stati Uniti, infatti, le modificazioni che l’espansione della sfera finanziaria
hanno prodotto sul processo di formazione del reddito e della sua distribuzione, hanno fatto sì che ormai una parte consistente
della domanda interna dipenda direttamente dall’entità della rendita finanziaria di cui il "sistema-paese", nel suo insieme, è
capace di appropriarsi per cui il rischio che un crollo della Borsa si ripercuota immediatamente sulle attività produttive è qui più
forte che altrove; senza contare i riflessi che la conseguente riduzione delle importazioni avrebbe sulle già disastrate economie
asiatiche che da queste dipendono in tutto e per tutto. Ora, poiché i tassi di interesse e i corsi azionari hanno andamenti opposti,
la Fed per evitare un eventuale crollo di Wall Street e la recessione ha mantenuto bassi i tassi di interesse e la lunga stagione del
toro non solo non ha dato segni di cedimento ma perdura anche ora che i tassi di interesse sono cresciuti. Questa ultima
circostanza ha convinto molti economisti che si è aperta una nuova fase nella storia del capitalismo, quella famosa terza via in
cui la miscela più finanza più tecnologia dovrebbe consentire ai ricchi di diventare sempre più ricchi e nel contempo di fare del
mondo un immenso Eldorado.; ma in realtà è vero esattamente l’opposto.

Il cosiddetto miracolo statunitense per il quale bassi tassi di interesse convivono con un eccesso di liquidità e una bassissima
inflazione è tale solo se si dimentica che viviamo nell’epoca dell’imperialismo e che gli Usa sono, allo stato delle cose, la prima
potenza mondiale e che la quotazione del petrolio è passata, nel corso del 1999, da nove dollari al barile (dic. ‘98) agli attuali
26 dollari.
 

Gli Usa sono una potenza imperialistica

Il privilegio di cui gode il dollaro per essere il mezzo di pagamento internazionale più diffuso, oltre ad assicurare agli Usa una
rendita finanziaria per il fatto che gran parte dei dollari messi in circolazione dalla Fed non viene utilizzata per l’acquisto di merci
americane sia perché viene tesaurizzata dalle banche centrali di tutto il mondo sia perché rimane nel circuito dell’interscambio
internazionale senza mai tornare in patria, consente anche di regolare le variazioni della quantità della massa monetaria in dollari
oltre che con la leva dei tassi di interesse anche con la variazione dei prezzi delle materie prime dato che nella loro quasi totalità
sono espressi in dollari. L’incremento del prezzo del petrolio, per esempio, essendo espresso prezzo in dollari, ha costretto tutti
i paesi importatori ad utilizzare una maggiore quantità di dollari facendo così aumentare la domanda e il valore del biglietto
verde nei confronti delle altre valute. In tal modo il deprezzamento che il dollaro avrebbe avuto a causa della crescita della
massa di dollari in circolazione è stato riassorbito dall’incremento del valore del dollaro provocato dall’aumento del prezzo del
petrolio. In poche parole quel quid di inflazione che l’eccesso di liquidità in dollari poteva indurre negli Stati Uniti è stata
trasferita alle valute e ai paesi importatori di petrolio. La Fed, infatti, ha recentemente praticato, il rialzo di un punto del tasso di
interesse solo perché, a causa dell’aumento del prezzo del petrolio, in Europa ha rifatto capolino l’inflazione costringendo, per
evitare una eccessiva svalutazione dell’euro rispetto al dollaro, la Banca Centrale europea (BCE) a rialzare il tasso di sconto. In
tal modo il differenziale fra il tasso di sconto statunitense e quello europeo è rimasto sostanzialmente immutato e tale comunque
da non rendere ancora conveniente l’abbandono, da parte degli investitori, della Borsa americana a favore di quelle dei paesi
concorrenti. Il rialzo del tasso di sconto Usa ha addirittura dato il là a una nuova impennata dell’indice Dow Jones perché è
stato chiaro a tutti che la Fed non cambierà ancora la propria politica monetaria tesa a preservare la folle corsa di Wall Street.
Questa politica, però, se da un lato esprime tutta la potenza imperialistica degli Usa, dall’altro evidenzia le gigantesche
contraddizioni in cui il gigante d’oltre Oceano si dimena. Intanto, rivalutandosi il dollaro, la convenienza a importare merci
dall’estero cresce e di pari passo il deficit della bilancia commerciale e le difficoltà dell’industria nazionale costretta a subire la
concorrenza delle merci provenienti dall’estero rese più competitive dalle alte quotazioni del dollaro. Ma cresce anche il loro
indebitamento. I tassi di interesse più bassi di quanto dovrebbero essere grazie a questo insieme di privilegi di cui gode il
dollaro, favoriscono altresì l’indebitamento privato. In questa situazione di mercato, infatti è molto conveniente contrarre debiti
al 7-8 per cento e investire in borsa certi di guadagnare il 20-30 per cento e lucrarvi la differenza. A dispetto del bilancio
pubblico in pareggio, infatti, gli Stati Uniti sono al contrario dell’UE che costituisce un’area creditrice, un paese con un
indebitamento netto di 2 mld di dollari tanto che l’economista Wynne Goodley ha recentemente commentato: "Stiamo facendo
girare l’economia, invece che sul debito pubblico - come accadeva al tempo di Reagan (ndr) - sul credito privato, in grande e
inusuale scala"18. Ma sempre di debiti si tratta e prima o poi i debiti, in un modo o nell’altro, qualcuno dovrà pagarli. Finora,
come abbiamo visto essi vengono scaricati sul prezzo del petrolio e attraverso di esso, internazionalmente, sul proletariato e su
tutte quelle stratificazioni sociali ad esso assimilabili che non hanno alcuna possibilità di compensare la riduzione dei propri salari
e redditi con l’appropriazione di quote di rendita finanziaria, sia pure minima; ma ben presto anche molti di quei piccoli e medi
risparmiatori che si sono affacciati in borsa o perché costretti dalle imprese o perché allettati dai facili guadagni, saranno ripuliti
a dovere.

Non passerà tempo però che sarà necessario, se non si vuole che l’apparato industriale statunitense resti soffocato dalla marea
delle importazioni, far scendere le quotazioni del dollaro. Vedremo, allora, forse con l’ausilio di un po’ di bombe come è stato
quando si è trattato di farlo salire, ridiscendere anche il prezzo del petrolio. Riuscirà allora il pallone di Wall Street a eseguire un
atterraggio morbido? O scoppierà e con quali conseguenze? Certamente, saranno bruciati molti degli attuali guadagni. Gli
economisti borghesi sostengono che non c’è di che temere; che siamo in presenza di una nuova fase di poderoso sviluppo se
non addirittura di una nuova epoca; ma l’esperienza consiglia di non fidarsi molto degli economisti borghesi. Per esempio - ci
ricorda I. Warde - alla vigila del crac del 1929, uno dei più ascoltati guru della finanza di allora, Irving Fisher professore di
economia a Yale dichiarò: "La Borsa sembra destinata a mantenersi indefinitamente sulle vette raggiunte". Qualche giorno dopo
ci fu il crollo e anche lui che si faceva retribuire dalla società finanziaria di cui era ascoltatissimo consigliere con azioni della
stessa società ci rimise un bel po’ di milioni. Invece Joseph Kennedy, che economista non era - ci ricorda ancora Ward-
riflettendo sul fatto che, come accade oggi, tutti investivano in borsa tanto che anche il suo lustrascarpe pensava di poter dare ,
a lui che era un esperto speculatore, una "soffiata" per un investimento, "fece il seguente ragionamento: Se il mio lustrascarpe
ne sa più di me, c’è qualcosa che non va nel mondo della finanza." Il giorno stesso liquidò tutto il suo portafoglio
azionario"19 e salvò il patrimonio che aveva accumulato contrabbandando alcool.

Note

1) Vedi in “Affari&Finanza” dell’11 ottobre 1999, a. Lettieri “La crescita Usa e i keynesiani dell’era digitale”.
2) Intervista concessa a “la Repubblica” del 6 novembre u.s.
3) “Surplus” N. 3/99, pag. 10, “America e Europa scontro di titani?”
4) Ibrahim Warde, “Dow Jones, una bolla troppo gonfia”, “Le Monde Diplomatique”, 22 ottobre u.s.
5) A. Lettieri, art. cit.
6) Ibrahim Warde, art. cit.
7) Enzo Caretto, “Un ricco vale 38 poveri”, “Corriere della sera” 27 novembre 1999
8) L. Gallino, “Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione”, Einaudi 1998, pag. 25
9) “Quale scenario per il 2000? Intervista a Visco”, “Surplus” 3/99, pag. 107
10) Ibrahim Warde, art. cit.
11) Ib.
12) Ib.
13) Enzo Caretto, art. cit.
14) Ib.
15) Mark Hunter, “Tempo di vita, nuovo sogno americano”, “Le Monde Diplomatique”, novembre 1999
16) Ibrahim Warde, art. cit.
17) Citazione tratta da “Eurasia senza impero”, di B.P. Pinegin, “Surplus” N. 3/99
18) Ib.
19) Ibrahim Warde, art. cit.