La crisi è del capitale

Domenico Moro, "Progetto lavoro", aprile 2011


Secondo la maggior parte dei mass-media, degli economisti e dei governi, quella attuale è una crisi finanziaria, che successivamente si sarebbe estesa all’economia “reale”. Con questo tipo di analisi si coglie, però, solo la forma in cui la crisi si è manifestata. Se ne ignora invece il contenuto, che risiede nei meccanismi di accumulazione del capitale. Infatti le crisi sono la modalità tipica in cui emergono le contraddizioni del modo di produzione attuale.

Sovrapproduzione e crisi

La principale di queste contraddizioni è quella tra produzione e mercato. Lo scopo delle imprese è produrre per fare profitti e per fare ciò riducono i costi delle merci in modo da aumentare il loro margine, cioè la differenza tra costi e prezzi di produzione. La riduzione dei costi di produzione passa per la realizzazione di economie di scala, cioè per la produzione di masse di merci sempre più grandi nello stesso tempo di lavoro. A questo scopo vengono introdotte tecnologia e macchine sempre più moderne al posto di lavoratori, e aumentati ritmi e intensità del lavoro. Astrattamente si tratta di un fatto positivo, in quanto lo sviluppo della produttività mette a disposizione dei consumatori masse di merci più grandi prodotte in un tempo minore.
Il problema è che la produzione capitalistica è diretta non verso semplici consumatori ma verso consumatori in grado di pagare un prezzo adeguato a raggiungere il profitto atteso, cioè verso un mercato. Ebbene la questione è proprio questa: la produzione capitalistica è una produzione che si estende progressivamente senza alcun riguardo per il mercato cioè per le capacità di acquisto delle merci prodotte. Inoltre, visto che il profitto è dato dal lavoro non pagato dei lavoratori, la riduzione proporzionale di questi ultimi sul capitale complessivo impiegato provoca una caduta del saggio di profitto che si cerca di compensare con l’aumento dello sfruttamento e quindi producendo un numero maggiore di merci. La caduta del saggio di profitto, ad esempio, nelle corporation Usa è passata dal 28,2%
del periodo 1941-1956 al 20,4% del 1957-1980 e al 14,2% del 1980-2004 (Andrew Kliman). Tutto questo dunque implica che la produzione tende sempre ad eccedere le capacità di assorbimento del mercato, determinando un permanente squilibrio tra le capacità produttive e la limitatezza del mercato.
Una limitatezza che viene accentuata proprio dal meccanismo che sostituisce forza lavoro con macchinari e che conseguentemente provoca l’espulsione di lavoratori dal processo produttivo. Secondo uno studio della Banca dei regolamenti internazionali, dagli anni 80 ad oggi in tutti i principali paesi industrializzati si è avuto uno spostamento del Pil dai salari ai profitti. In Italia la quota andata ai profitti è aumentata dal 23,1% del 1993 al 31,3% del 2005. Si tratta dell’8% del Pil, equivalente a 120 miliardi di euro ossia a 7 mila euro per ognuno dei 17 milioni di salariati italiani che annualmente passano dai salari ai profitti. Ma la cosa più interessante dello studio della Bri è che la causa di questo fenomeno viene individuata, non nella concorrenza dei lavoratori dei paesi “in via di sviluppo”, ma nell’introduzione
di nuova tecnologia che, espellendo lavoratori e destrutturando l’organizzazione del lavoro, riduce le capacità di resistenza e negoziazione dei lavoratori. In questo
modo si è determinata la perdita di capacità d’acquisto dei salari ed i lavoratori si sono trovati costretti al lavoro straordinario, con l’effetto di ridurre ancora di più la domanda di forza lavoro e di aggravare la disoccupazione. Inoltre, avendo le nuove tecnologie una forte componente informatica, che diventa obsoleta più rapidamente, le ristrutturazioni sono divenute più frequenti.
Dunque, mentre da una parte si moltiplica l’offerta di merci sul mercato, dall’altra parte si riduce la domanda, che per la maggior parte è costituita da lavoratori salariati, o, nel caso migliore, non si permette alla domanda di crescere in modo proporzionale all’offerta. Del resto, nell’anarchia della concorrenza, ancorché oligopolistica, che regna nel modo di produzione capitalistico ogni singolo capitale, per battere i concorrenti, tende a realizzare sempre maggiori economie di scala e a ridurre i salari dei propri lavoratori, trattandoli come costi da ridurre e non come compratori. Si produce così una tendenza alla sovrapproduzione di merci che, però, ha alla sua base la sovrapproduzione di capitale sotto forma di mezzi di produzione. Ciò che è importante capire, però, è che la sovraccapacità produttiva è tale entro il modo di produzione capitalistico, che produce solo per il profitto, e che la sovrapproduzione di merci si determina entro i limiti del mercato capitalistico.

Il caso emblematico dell’automobile

La crisi non è una cesura nel procedere normale dell’economia, è il modo violento con cui il capitale tenta di risolvere le sue contraddizioni. Infatti le crisi non solo bruciano miliardi di capitale fittizio nei crolli borsistici, ma provocano distruzione di capitale reale attraverso la svalorizzazione
delle merci, che giacciono invendute nei depositi o sono vendute sottocosto (negli Usa si è arrivati al prendi due automobili ne paghi una), e dei mezzi di produzione, che rimangono inattivi o sottoutilizzati. Le crisi, poi, distruggono forza lavoro attraverso i licenziamenti e, provocando la morte delle aziende più deboli ed il loro assorbimento da parte di quelle più forti, determinano la concentrazione della produzione in sempre meno mani. Soltanto a questo prezzo si generano le condizioni affinché la produzione sia di nuovo profittevole e possa riprendere, riproducendo però le condizioni per replicare la crisi successivamente e su una base più ampia.
Il caso dell’auto è emblematico. Si tratta di un settore con le caratteristiche tipiche della grande industria: una progressiva grande concentrazione e un sempre più forte aumento della componente tecnologica in rapporto ai lavoratori impiegati. Un settore nel quale, secondo le parole dell’amministratore delegato della Fiat Marchionne, “la sovraccapacità produttiva è un problema generale”. Negli Usa, infatti, la produzione del 2009 sarà di appena il 45% dell’output potenziale, pari a 5 milioni di auto in meno rispetto al 2007. Secondo CSM Worldwide, l’utilizzazione degli impianti delle prime dodici case produttrici mondiali, scesa al 72,2% già nel 2008, si ridurrà nel 2009 al 64,7%. Le conseguenze saranno pesanti persino per le case leader tedesche e giapponesi: in Germania sono già stati licenziati
i lavoratori precari (4.500 quelli della Volkswagen), mentre l’orario settimanale di lavoro (ed il salario) è stato ridotto per i due terzi dei lavoratori stabili della Volkswagen e a febbraio e marzo per 26 mila della Bmw, in Giappone, invece, la Nissan ha pianificato 20 mila licenziamenti. Ancora peggiore la situazione delle case Usa, tra le quali GM e Chrysler sarebbe già fallite senza i 14 miliardi di dollari stanziati dal governo. GM, in particolare, prevede la chiusura di quattro dei ventidue impianti statunitensi e 31 mila licenziamenti. Eppure tutto questo si realizza alla fine di un processo in cui le tre major di Detroit avevano migliorato la loro produttività. Secondo l’Harbour report, le major di Detroit hanno ridotto il divario con gli stabilimenti giapponesi in America in termini di tempo necessario alla produzione di un veicolo dalle 10,51 ore del 2003 alle 3,50 ore del 2007.
Del resto, ad essere preceduta da un forte aumento della produttività fu anche la crisi del 1929, sebbene, come quella odierna, fosse stata innescata da un crollo finanziario. Infatti fu proprio negli anni 20 che, col fordismo, si introdusse la catena di montaggio. A partire dagli anni 80, il fordismo si è aggiornato, divenendo toyotismo, che, flessibilizzando i processi, avrebbe dovuto sanare la contraddizione tra mercato e produzione. Il bel risultato è stato che le auto invendute, solo nei piazzali degli stabilimenti Usa, hanno raggiunto a fine gennaio 2009 quasi i 3 milioni, equivalenti a 116 giorni di vendita agli attuali livelli. Prova questa che,
entro i limiti dei rapporti di produzione capitalistici, per sanare la contraddizione tra produzione e mercato non c’è tecnica manageriale che tenga.
Quali sono allora le risposte che si prospettano alla sovrapproduzione? Il caso statunitense è ancora una volta emblematico. Oltre ai licenziamenti ed alla settimana corta di 4 giorni (working sharing) si prospetta un allineamento di tutte le case americane alle peggiorative condizioni salariali e assistenziali in vigore presso gli stabilimenti giapponesi negli Usa. In secondo luogo, anche questa crisi, come e più di altre, data la sua gravità, vorrà le sue vittime e sarà il volano
per ulteriori fusioni ed acquisizioni. Sempre secondo Marchionne, nel mercato mondiale dell’auto ci sarebbe posto solo per cinque o sei produttori che riescano a raggiungere l’economia di scala minima di 5 milioni di vetture. Ed è proprio la Fiat a distinguersi per il suo attivismo, muovendosi in varie direzioni, dalle joint ventures con la Tata indiana, che è entrata anche nel capitale Fiat, alla possibile acquisizione della Chrysler, fino alla ventilata fusione con Peugeot. La crisi fornirà poi un ulteriore stimolo alla internazionalizzazione della produzione, per ridurre i costi e avvicinarsi ai nuovi mercati di sbocco. Già oggi Ford e GM producono negli Usa meno del 32% del loro output complessivo, mentre Fiat, Renault e Volkswagen producono nei paesi d’origine rispettivamente appena il 34,9%, il 34,7% ed
il 33,6% della loro produzione totale. A pagare saranno, comunque, sempre i lavoratori con la perdita del posto di lavoro e con la riduzione dei salari.

Il nesso tra sovrapproduzione e finanza

Contrapporre, in ambito capitalistico, economia “finanziaria” e “reale” non ha senso ed è fuorviante. L’enorme sviluppo del credito e dei mercati finanziari ha alla sua base l’affermazione della grande industria, che ha bisogno di capitali monetari sempre più grandi da investire. La mondializzazione della concorrenza, le fusioni e le acquisizioni, il gigantismo delle imprese, necessario ad economie di scala sempre maggiori, determinano una richiesta di credito sempre maggiore e banche sempre più grandi. Sebbene le crisi non siano causate dal credito e dalla finanza, esiste un nesso molto stretto tra crisi e credito. Tale nesso sta nel fatto che il credito favorisce ed accelera la tendenza alla sovrapproduzione di capitale e di merci. Il credito, infatti, permette l’allargamento della produzione in un modo che altrimenti non sarebbe possibile. Nello stesso tempo le banche, concentrando in poche mani il risparmio della società e trasformandolo in investimento, fanno assumere al capitale stesso una forma “sociale”, favorendo la separazione tra direzione e proprietà. Si crea così una produzione privata senza proprietà privata e una nuova aristocrazia finanziaria e di top manager, superpagata, indifferente ai limiti del mercato, e incline ad investimenti spericolati, parassitismo e speculazione.
In questo modo si sviluppa la tendenza ai monopoli e alla sovrapproduzione cronica generale. L’industria contemporanea versa da decenni in una situazione di sovrapproduzione, cui si è risposto favorendo il credito facile e quindi l’indebitamento, sia dal lato dell’offerta, cioè dal lato delle aziende, sia da quello della domanda, cioè dei consumatori-compratori. Per anni, con il beneplacito dei governi Usa, la Fed ha mantenuto un bassissimo costo del denaro, spingendo le banche a prestare oltre ogni ragionevole garanzia. In particolare è stato incentivato l’acquisto delle case, perché la proprietà immobiliare garantiva sull’acquisto a credito di beni di consumo come l’auto. Sono stati concessi mutui fino al 100%, ed anche a chi non aveva né lavoro né altre proprietà, i cosiddetti mutui subprime. La spirale
dell’indebitamento si è autoalimentata, grazie alla liberalizzazione dei mercati finanziari e alla abolizione degli steccati e delle regole introdotte dopo la crisi del 1929, ed i mutui sono stati cartolarizzati in titoli – i cosiddetti derivati – venduti alle banche di tutto il mondo. La speculazione si è estesa anche alla cartolarizzazione delle assicurazioni sui derivati dei mutui, i credit default swaps (Cds), che hanno raggiunto la cifra astronomica di 45 mila miliardi di dollari.
Inoltre, sono state introdotte altre forme di incentivazione all’indebitamento come le carte di credito revolving. In sostanza la domanda di beni di consumo è stata drogata, fondando su basi d’argilla l’espansione economica seguente alla crisi del 2001. Negli Usa e nel Regno Unito il debito delle famiglie nel 2007 aveva raggiunto il 100% del Pil. Intanto la leva finanziaria delle banche era cresciuta a dismisura: le banche europee per ogni euro di capitale posseduto avevano dato in prestito 40 euro, quelle Usa ancora di più. Tutto questo non poteva reggere ed infatti non ha retto. Quando la bolla immobiliare ha raggiunto il suo picco e nel 2007 è scoppiata, le abitazioni hanno perso fino al 40% del valore ed i loro proprietari non sono più riusciti a far fronte ai mutui. Il sistema finanziario internazionale si è così reso conto di avere in pancia miliardi di titoli col valore della carta straccia, cui si aggiungeva la massa dei Cds, che avrebbero potuto portarlo al collasso. Numerose banche, costrette a iscrivere le perdite a bilancio, sono fallite, sono state acquisite o salvate dallo Stato, e centinaia di miliardi di capitalizzazione di borsa sono stati bruciati.
Inoltre l’incertezza sulla solvibilità delle banche ha portato alla paralisi del mercato interbancario ed al restringimento del credito, con conseguenze devastanti per le aziende, già pesantemente indebitate ed alle prese con le necessità della internazionalizzazione, della riorganizzazione produttiva e del finanziamento del credito al consumo.

Fallimento del mercato e intervento dello Stato

La sovrapproduzione che attanaglia l’economia è ormai generale. Infatti, secondo la Banca mondiale, al calo, per la prima volta dal 1945, del Pil mondiale si è associato il maggiore declino del commercio mondiale degli ultimi 80 anni, ovvero dalla grande Depressione degli anni 30. L’International labour organization prevede dai 18 ai 30 milioni di disoccupati in più, 50 nella previsione peggiore. La crisi ha così dimostrato nel modo più plateale il fallimento delle capacità regolatrici del mercato. Significativa è stata la rapidità della sterzata verso l’intervento dello Stato a partire proprio dai due paesi leader della “rivoluzione” neoliberista, Usa e Gran Bretagna, e la consistenza dell’intervento, soprattutto a favore del credito. Negli Usa il programma di aiuto federale, il Tarp, ha già utilizzato 294,9 miliardi di dollari, di cui 250 per la ricapitalizzazione delle banche, su uno stanziamento totale di 700 miliardi, e Obama ha in progetto un ulteriore stanziamento di 2 mila miliardi. In Gran Bretagna lo stato ha acquisito la Bearn Stearns, il 60% della Royal Bank of Scotland e il 40% di Lloyds-Hbos, mentre la Germania, che ha già dato 90 miliardi alla Hypo e ha acquistato il 25% della Commerzbank, ha varato una legge che consente l’esproprio statale delle banche in difficoltà. Ma, visto che queste misure non sono bastate a rimettere in moto il mercato interbancario ed il prestito ad imprese e famiglie, lo Stato ha assunto il ruolo di finanziatore diretto, più o meno a fondo perduto, delle aziende. In Giappone lo Stato ha stanziato 13 miliardi di euro con cui entrerà eventualmente anche nel capitale delle aziende. In particolare si è svolta una corsa al soccorso dei produttori nazionali di auto, dai 14 miliardi di dollari dati a GM e Chrysler ai 7 miliardi di euro stanziati per Renault e Psa, di cui una parte andrà alle branche di queste società che finanziano gli acquisti a credito.
Tutte scelte che, insieme alla riduzione praticamente a zero dei tassi di interesse praticati da molte banche centrali come la Fed, dimostrano che la soluzione alla crisi viene ricercata in direzioni vecchie e sbagliate, come l’indebitamento e il protezionismo, ritornato prepotentemente in auge con il buy american. L’insieme delle risorse messe sul piatto dagli Usa raggiungono gli 8.000 miliardi, pari al 54% del loro Pil. Se pensiamo che gli Usa in tutta la Seconda guerra mondiale spesero 3.600 miliardi e che nel 1944 la spesa bellica fu il 36% del Pil, abbiamo una idea della partita in atto. L’aumento della spesa statale farà esplodere il deficit pubblico, che negli Usa arriverà quest’anno al 10% e nel Regno Unito al 6-8%, mentre la virtuosa Germania porterà il disavanzo pubblico ai massimi dal 1945.
L’ingigantirsi dei debiti pubblici, già gravati come negli Usa da decenni di sussidi alle imprese e di spese militari, condurrà in molti paesi all’inasprimento della tassazione, mentre l’aumento dell’emissione dei titoli di Stato, unico investimento rifugio rimasto, sta già conducendo al calo dei rendimenti per milioni di piccoli risparmiatori. Al contempo il prezzo dei credit default swaps sui titoli pubblici si è alzato, segno dei timori del mercato sulla solvibilità di molti stati. Mentre gli Usa grazie al dollaro cercano di continuare a scaricare il finanziamento del loro enorme debito sull’estero, molti paesi periferici, soprattutto in Europa, presi dalle difficoltà della recessione, rischiano una bancarotta che avrebbe pesanti contraccolpi sulle banche europee e sull’euro.

Conclusioni: pianificazione e riduzione dell’orario di lavoro

Se il fallimento del mercato è ormai evidente a tutti, meno evidente è l’altrettanto grande fallimento della proprietà e della produzione privata. In Italia ad esempio assistiamo all’apparente paradosso di chi, Confindustria in testa, chiede e ottiene l’intervento statale sotto forma di aiuti e continua a rivendicare le privatizzazioni, ad esempio delle utility. In effetti è proprio nei momenti di difficoltà che il capitale si rifugia di più nelle rendite di monopolio, fuori dalla concorrenza. In ogni paese, la premessa a tutti gli aiuti pubblici è che lo Stato, anche nel caso in cui entrasse in una banca o in una azienda con quote di maggioranza, rimanga rigorosamente fuori dalla sua gestione, magari comprando azioni senza diritto di voto. Già l’espansione del credito aveva messo a disposizione del privato il capitale
sociale (il risparmio della collettività), rendendo la produzione privata una produzione senza proprietà privata. Oggi che lo Stato finanzia le banche private o eroga
direttamente alle imprese il capitale impiegato, la proprietà acquista ancora di più un carattere sociale. Si accresce quindi la contraddizione tra il carattere sempre più sociale della produzione e della proprietà e l’appropriazione privata del prodotto di quella produzione, che si concentra in sempre meno mani. Del resto, con sole cinque case automobilistiche a dividersi il mercato mondiale, come prevede Marchionne, si può ancora parlare di proprietà privata? Si tratta di una produzione in realtà già quasi socializzata. Abbiamo invece una produzione privata senza proprietà privata, e che si sottomette lo Stato come erogatore concentrato
del capitale della società. La crisi non si risolve con gli aiuti agli imprenditori privati o gettando masse di denaro nel pozzo senza fondo dell’insolvenza
di banche che continuano a non prestare. La crisi si risolve solo andando alla sua radice, che certo non sta negli stipendi dei supermanager. In primo luogo, non ha senso mantenere la produzione privata, quando i capitali sono pubblici. Permarrebbero, a spese dei lavoratori-contribuenti, l’anarchia irrazionale della concorrenza e lo squilibrio permanente tra produzione e circolazione delle merci. Tali contraddizioni possono essere risolte solo mediante il coordinamento complessivo, la pianificazione dell’economia da parte della collettività, secondo le priorità
della società e dell’ambiente, e cominciando con la ripubblicizzazione delle banche e dei servizi di pubblica utilità. In secondo luogo, va affrontata la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. Le scoperte tecnologiche e l’enorme aumento della produttività che negli ultimi decenni ne è derivato possono liberare tempo vitale invece di essere fonte di disoccupazione. Ma questo è possibile a farsi solo se l’orario di lavoro viene ridotto a parità di salario, appunto liberando tempo vitale, quindi bisogni e la possibilità di soddisfarli, ed allargando così i limiti del mercato. Se è vero che la crisi libera i mostri della xenofobia e dell’autoritarismo e che la depressione originata dalla crisi del 1929 aprì la strada ai fascismi, quella stessa crisi ebbe anche risposte a sinistra. Negli Usa nel 1932 il senatore Black, in opposizione al working sharing, che redistribuiva solo la povertà e non l’occupazione, propose una legge per la riduzione dell’orario a 30 ore, che fu sconfitta solo di misura per l’opposizione di Roosevelt e degli imprenditori statunitensi. Fu invece in Francia che nel 1936, in piena crisi, fu approvata una legge per le 40 ore, che portò, a parità di salario, l’orario di lavoro annuale da 2496 a 2000 ore. La differenza tra Francia e Usa è che, all’epoca, in Francia era al governo quel grande esempio di protagonismo politico dei lavoratori che fu il Fronte popolare. Un esperimento politico su cui, mutatis mutandis, forse varrebbe la pena di riflettere. Oggi, in conclusione, di fronte ad una crisi eccezionale che evidenzia il fallimento di un intero modo di produzione ritorna d’attualità proprio il fantasma che si è voluto esorcizzare negli ultimi venti anni, il socialismo. La possibilità di rispondere alla crisi economica e alla crisi politica della sinistra passa così per la capacità di prospettare una organizzazione alternativa della società e dell’economia.