Le idee confuse del supermanager

di Giorgio Meletti, "il fatto quotidiano", 19 settembre 2012


A dispetto dei l a u d a t o re s a stipendio fisso, Sergio Marchionne non è un gran comunicatore, e lui stesso lo ammette nell'intervista pubblicata ieri dal direttore di Repubblica , Ezio Mauro. La battutaccia sul fatto che non compra più le scarpe di Diego Della Valle (che l'ha aspramente criticato) è copiata malamente dal repertorio di scarto di Silvio Berlusconi. Le due pagine di intervista, evidentemente trascritte da una concitata conversazione tele fo n i c a , meritano però attenta analisi. Mauro provoca abilmente il manager italo-canadese, e lui abbocca, regalandoci l'autoritratto di un uomo in dif fi c o l t à , la cui immagine di infallibile supermanager sarebbe diversa se la Fiat non fosse proprietaria di importanti giornali.

D ice Marchionne, per spiegare a Ezio Mauro la marcia indietro sul piano Fabbrica Italia (20 miliardi di investimenti in Italia): “Io allora puntavo su un mercato che reggeva, ed è crollato”.

Idee confuse sul futuro
Non è vero. Il 21 aprile 2010, presentando il piano Fabbrica Italia, ha detto: “In Italia senza incentivi le vendite scenderanno del 30% nel secondo semestre
dell’anno”. La verità è che da anni Marchionne guarda immobile il crollo delle vendite Fiat, Alfa Romeo e Lancia, aspettando che il mercato riparta da solo, e teorizzando, unico al mondo, l’ardita tesi che i nuovi modelli non sono causa ma effetto delle maggiori vendite. Dice a Repubblica: “Se io avessi lanciato adesso dei nuovi modelli avrebbero fatto la stessa fine della nuova Panda di Pomigliano: la miglior Panda nella storia, 800 milioni di investimento, e il mercato non la prende, perché il mercato non c’è”. Due anni fa disse: “I nostri nuovi modelli arriveranno a fine 2011-inizio 2012. C’è chi pensa diversamente, ma è stata una scelta precisa. Per la gamma di prodotti credo di avere giocato le mie carte in modo intelligente”. Le dure leggi del mercato Marchionne sembra divertirsi ad adottare il linguaggio di Carcarlo Pravettoni, lo spietato imprenditore da cabaret inventato da Paolo Hendel. Mauro gli chiede come spiega agli americani il mistero del buon andamento della Chrysler e di quello pessimo della Fiat. Risposta: “Quando spiego, loro fanno due conti e mi dicono cosa farebbero: chiusura di due stabilimenti per togliere sovracapacità dal sistema europeo”. È il mercato, bellezza. Il supermanager incalza: “Mi risponda lei: se la sentirebbe di investire in un mercato tramortito dalla crisi, se avesse la certezza non soltanto di non guadagnare un euroma addirittura di non recuperare i soldi investiti? Scusi, se il quadro è quello che le ho fatto, e certamente lo è, si immagina cosa farebbe qualunque imprenditore al mio posto? Cosa farebbe uno straniero, in particolare un americano, un uomo d'azienda con cultura anglosassone? Dovreste rispondervi da soli”. Mauro vacilla, prova a parlare di famiglie e esseri umani. Niente da fare. Per inciso, Marchionne parla sempre in prima persona, come se la Fiat fosse sua.

Marchionne il patriota
Ma c’è il colpo di scena. Dietro tanta apparente durezza c’è un cuore che batte. Marchionne rivela che lui non ha fatto ciò che le dure leggi del mercato gli imporrebbero. Che dunque la Fiat in Italia è un’azienda assistita, che succhia i profitti realizzati dal gruppo altrove nel mondo. Il manager rivendica: “In questa situazione drammatica, io non ho parlato di esuberi, non ho proposto chiusure di stabilimenti, non ho mai detto che voglio andar via. Le assicuro che ci vuole una responsabilità molto elevata per fare queste scelte oggi”. Poi entra nei particolari: “E qui lei dovrebbe già aver capito la mia strategia. Gliela dico in una formula: cerco di assecondare la ripresa del mercato Usa sfruttandola al massimo per acquisire quella sicurezza finanziaria che mi consenta di proteggere la presenza Fiat in Italia e in Europa in questo momento drammatico”. Qui i p a s d a ra n del mercato vacillano e si disorientano. Perché poco prima Marchionne ha espresso il concetto opposto: “La Fiat non è più un'azienda solo italiana, opera nel mondo, con le regole del mondo. Per essere chiari: se io sviluppo un’auto in America e poi la vendo in Europa guadagnandoci, per me è uguale”.

Marchionne il piacione
Nonostante rivendichi il contrario, a Marchionne non piace essere odiato. Come B., chiede consenso, vuol’essere amato. Così non si tiene e sbotta: “Ancora una cosa: io non sono nato in una casta privilegiata, mi ricordo da dove vengo, so perfettamente che mio padre era un maresciallo dei carabinieri”. Frase misteriosa, perché fuori contesto, e perché non si capisce cosa ci sia di umiliante nell’essere figlio del maresciallo. Mauro trasalisce: “Cosa intende dire ? ”. “Che non sono l’uomo nero”. Qui Mauro avrebbe forse potuto consolarlo con una citazione: “No Sergio, tu non sei cattivo”. (“Frankenstein junior”, 1974, regia di Mel Brooks).

Che cosa vuole dal governo?
La Fiat ha una nobile tradizione di sussidi statali, sui quali Marchionne gioca a rimpiattino. Dice: “Mi impegno, ma non posso farlo da solo. Ci vuole un impegno dell’Italia”. Poi sbeffeggia i ministri competenti: “Se mi cercano li vedrò, certo. Immagino che incontrerò Passera, Fornero. Ma poi?”. Rivendica di essere stato lui due anni fa a dire basta alla droga degli incentivi per la rottamazione, anche se non è vero. E sfodera la richiesta forte: “Io voglio una riforma del lavoro, che ci porti al passo degli altri Paesi”. Un’altra? E le condizioni di lavoro imposte a Pomigliano e a Mirafiori con i nuovi contratti in deroga a tutto non bastano? Mauro azzarda che forse lui vuole una “guerra ideologica” con il sindacato. Marchionne si ribella, vuole solo stare al passo con i tempi. E riscrive la storia: “Lo so che la Fiat di Valletta aveva asili e colonie, ma si muoveva in un mondo protetto dalla competizione, dazi e confini, che sono tutti saltati”. Asili e colonie? Veramente Valletta era quello che licenziava gli iscritti alla Fiom. Marchionne è quello che non li assume. E questa è la differenza.