Revelli: una ideologia crepuscolare

di Livio Maitan, "Bandiera rossa news", 14 marzo 2001

Marco Revelli, "Oltre il Novecento", Einaudi, 2001

Sul libro di Marco Revelli si sono intrecciate polemiche che riecheggiano o anticipano dibattiti che dovrebbero essere fisiologici tra aree o sensibilita' di un partito pluralista e che sara' necessario riprendere in altra occasione. Ma, per venire al libro, l’autore pone problemi e interrogativi che non si possono eludere, dando pero' risposte con cui non si puo' essere d’accordo. Vediamo perche'.
1)-Sintetizzare le vicende di un secolo- e quale secolo!- in meno di trecento pagine sarebbe per chiunque una impresa disperata. Revelli vi si avventura ricorrendo di continuo ad analisi unilaterali, se non addirittura impressionistiche , a generalizzazioni abusive, ad astrazioni indeterminate, alla trasformazione di metafore in categorie. Riflesso stilistico, sottolineato anche da altri, un uso quasi orgiastico delle maiuscole. Per parte nostra, confessiamo una reazione epidermica sin dalle prime pagine di fronte a definizioni del Novecento come "secolo degli opposti" e "secolo dell’abominio". Come se "gli opposti" non avessero caratterizzato tutta la storia dell’uomo e dall’abominio ben pochi secoli non fossero andati esenti! Non parliamo poi di "secolo dell’homo faber": abbiamo appreso dai banchi di scuola il detto latino "faber suae quisque fortunae". D’altra parte, a sostegno delle sue analisi e interpretazioni, Revelli si avvale di una smisurata quantita' di riferimenti e citazioni che agli occhi d un comune mortale non possono che avere un effetto intimidatorio e che sono tanto piu' discutibili in quanto provengono dagli autori e dagli studiosi piu' disparati, non di rado utilizzati con disinvoltura, se non con palesi forzature.
Ne consegue che e' ben difficile cogliere nel libro la dinamica concreta dello sviluppo economico nelle sue varie fasi, la concreta dinamica sociale e i termini reali della stessa dialettica politico-culturale .
Per fare qualche esempio, di valutazioni non corrispondenti al vero o quanto meno del tutto opinabili, se crediamo a Revelli o alle sue fonti nel ’79 "si sarebbe esaurito il ciclo espansivo durato quasi ininterrottamente per oltre mezzo secolo"; tanto peggio per tutti coloro che hanno sempre creduto che gli anni ’30 fossero stati caratterizzati da depressione e ristagno ( e non parliamo della interpretazione audace della teoria di Kondratiev)! Discutibili ci sembrano egualmente l’idea che al fordismo abbia messo fine lo sviluppo delle microelettronica o che il toyotismo possa essere contrapposto al fordismo e l’interpretazione quanto meno restrittiva delle pratiche dell’outsourcing.
Piu' in generale, che dire del riferimento positivo (pp. 92 e 220) alla paradossale affermazione di Mario Tronti, un intellettuale che di astrazioni se ne intende, secondo cui "l’eta' vera e propria della grande politica va dal ’14 al ’45" e dopo comincerebbe il "piccolo Novecento". Ma dove li mettiamo tutti coloro che in Italia in Europa e nel resto del mondo, hanno continuato ad agitarsi nel mezzo secolo successivo senza essere stati informati che la "grande politica" era finita?
Ha pieno diritto di respingere la concezione materialistica della storia. Ma quando lascia intendere che , secondo questa concezione, l’emancipazione sarebbe "opera e conseguenza dello spontaneo processo di evoluzione dell’economia e della tecnologia" non si tratta piu' di una confutazione, ma semplicemente del riecheggiamento di una deformazione di vecchia data.
2)-Cerchiamo di individuare quello che Revelli sembra salvare dalla esecuzione sommaria riservata al Novecento. In realta', rivelatori della sua impostazione o, se cosi' si puo' dire, concezione del mondo sono gia' i riferimenti a esperienze precedenti all’affermarsi compiuto del capitalismo. Traspare una connotazione quasi nostalgica, se non idealizzatrice, del mondo della bottega artigiana e delle "consolidate abitudini di auto-produzione e di consumo comunitario" in cui, se interpretiamo bene, intravede alcuni dei tratti positivi propri anche di esperienze di contestazione dagli studenti di Berkeley al maggio francese, a mettere in luce la tendenza alle generalizzazioni abusive e alle interpretazioni fantasiose. Soprattutto per quanto riguarda il 68-69 si cercherebbe, invano, una analisi, sia pur sintetica, della crisi di societa', delle dinamiche sociali complessive, dei germi positivi e delle contraddizioni dei movimenti. E’ ad aspetti parziali che vengono attribuite le valenze piu' significative.
Lo stesso metodo di interpretazione e' presente nelle pagine che descrivono le vicende dei ricercatori e delle comunita' che hanno avuto un ruolo pionieristico nella micro-elettronica e nella computeristica, creando le premesse della cosiddetta New Economy: Non si tratta, per parte nostra, di negare che singoli individui o gruppi ristretti di persone si possano impegnare in ricerche innovatrici senza essere mossi da interessi materiali, anche se la ricerca e' piu' che mai legata alle risorse messe a disposizione dai comandi militari e dalle multinazionali. Resta, comunque, che l’applicazione pratica delle innovazioni e la sua generalizzazione sono pur sempre ispirate dalla logica capitalistica del profitto. Il che e' confermato dalla stessa vicenda di Bill Gates cui Revelli sui riferisce. Indipendentemente dalle origini, su cui confessiamo di non essere informati, Gates e' divenuto un imprenditore capitalista tanto onnipotente che lo stesso governo americano lo ha accusato di pratiche monopolistiche.
3)- A proposito della rivoluzione d’Ottobre e della involuzione successiva, Revelli fa riferimento agli autori dei piu' diversi indirizzi. L’impressione che si ricava dalla sua ricostruzione e' che un meccanismo malefico fosse in opera sin dall’inizio e si dispiegasse poi implacabilmente. L’interpretazione cui soprattutto si richiama e' quella di Arthur Koestler, sintetizzata dalle riflessioni e dai comportamenti del suo personaggio Rubasciov, interpretazione che, anche senza avere propensioni staliniane, si puo' legittimamente contestare, non considerando necessariamente Rubasciov come prototipo del militante comunista. Quello che e' ancora peggio, Revelli, persona di molte (forse troppe?) letture si rifa' a moltissimi autori a proposito della burocratizzazione staliniana, fornendo addirittura una bibliografia: Ma si cercherebbe invano una menzione degli scritti di Preobrajenski, di Rakovski e dello stesso Trotskij. Il che ci sembra criticabile anche da un punto di vista strettamente accademico.
4)-Dalla furia iconoclasta di Revelli non si salva neppure Antonio Gramsci. Su una sola cosa siamo d’accordo, cioe' che non esiste contraddizione, come troppi hanno preteso e pretendono, tra il Gramsci dell ‘Ordine nuovo e il Gramsci dei Quaderni. Ma quello che per noi e' un dato positivo, e' per Revelli una indicazione che anche Gramsci va condannato in quanto si annidavano anche in lui le dinamiche perverse che hanno devastato l’URSS e il movimento comunista. Va da se' che si possono criticare impostazioni o accentuazioni di articoli e di appunti, sappiamo bene in quali condizioni redatti. Ma come si puo' ignorare che in Gramsci la concezione dei consigli aveva una essenziale ispirazione democratico-rivoluzionaria e che i consigli erano concepiti come lo strumento per eccellenza di una attiva partecipazione delle masse un processo storico? Il colmo e' che per criticare Gramsci Revelli non esita ad arruolare addirittura Bruno Trentin, che di democrazia operaia, come e' noto, e' un eminente specialista, basti pensare al suo primario contributo alla deriva burocratico-opportunistica della maggiore confederazione sindacale del paese! Sia detto di passata, nello sforzo di trovare punti di appoggio, Revelli non esita neppure a riferirsi positivamente, se pure con cautela, ad Anthony Giddens, l’ispiratore teorico di Tony Blair.
Eppure Gramsci non dovrebbe lagnarsi: se a lui e' toccato Trentin, per demistificare i malcapitati Lenin e Trotskij e' stato mobilitato il "fascista anomalo e intelligente" Curzio Malaparte. Che cosa abbiano realmente pensato e scritto Lenin e Trotskij e che cosa abbiano fatto nel corso di una delle piu' grandi manifestazioni emancipatrici della storia sembra importare poco: Quello che viene rievocato e' il Lenin di Malaparte, "un Lenin demiurgico, a capo di un piccolo, ma determinatissimo manipolo di operai di fabbrica, impegnato a plasmare il nuovo regime impastando fango e plebe" Anche come letteratura c’e' poco da stare allegri…
5)-Come altri hanno scritto, Revelli nega la centralita' del lavoro salariato o dipendente, cioe' di quello strato sociale, sempre largamente maggioritario, in Italia e su scala mondiale, che deve vendere la propria forza-lavoro per vivere. Preferisce attirare l’attenzione su "figure che s’intravedono, ancora indistinte, nelle ombre del futuro", e che non hanno "il segno del lavoro impresso nel corpo". Piu' precisamente, proprio nell’ultima pagina propone "come modello di alterita' da vivere e non da edificare" "la figura ancora incerta e oscillante del Volontariato". Con tutto il rispetto per coloro che, socialmente o moralmente motivati, sono impegnati in questa attivita', sembra difficile cogliere qui una "uscita di sicurezza" da un mondo dominato dalle multinazionali e dalle grandi potenze imperialistiche.
Revelli , per confortare il suo richiamo a Celine, si riferisce a un giudizio di Trotskij sull’opera piu' nota di questo autore. Dimentica di dire non solo che Trotskij esprime un giudizio letterario, ma soprattutto che conclude: "In Ce'line non c’e' speranza". Fatte le debite proporzioni e senza confondere uno scrittore reazionario con un intellettuale che si e' impegnato e ci auguriamo continui a impegnarsi con noi in comuni battaglie, ci permettiamo di concludere che l’opera di Revelli appare sempre di piu' come una ideologia crepuscolare che riflette delusione e smarrimento che avvenimenti degli ultimi due decenni hanno seminato nelle file del movimento operaio e tra gli intellettuali della sinistra. Per questo, molto di piu' che per certi accostamenti non accettabili, nonostante messe a punto e distinzioni, le concezioni di Oltre il Novecento non possono essere accettate da chi si pone l’obiettivo di ricostruire il movimento operaio e una forza politica comunista.