Combattere la crisi significa fare opposizione

intervista di Federico Giusti a Vladimiro Giacché, www.controlacrisi.org, 1 settembre 2012

 

Dall'arrivo dell'euro ad oggi l'inflazione media è salita del 24, 9%, la perdita del potere di acquisto dei salari è sempre più grave, i consumi sono crollati. Da dove nasce la crisi e quali sono gli scenari dei prossimi mesi?

La crisi non è italiana ma mondiale, e riguarda in particolare i paesi capitalistici avanzati (a partire dalla triade Stati Uniti, Europa, Giappone). Nasce dalla crisi irreversibile di un modello di sviluppo imperniato sul debito e sulla finanza, che per decenni ha nascosto e tamponato gli effetti sugli investimenti e sui consumi di un saggio di profitto cedente e di salari in calo. Dal 2007 quella finanza che spingeva i consumi, manteneva in piedi imprese industriali di settori maturi (vedi automobile) e incoraggiava la speculazione come modo per aggirare la caduta del saggio di profitto non è più in grado di far fronte a questi compiti. E quindi si è aperta una feroce guerra economica tra i capitalisti per il controllo delle quote di mercato (con conseguente centralizzazione dei capitali) e dei capitalisti contro i lavoratori per la ulteriore compressione delle quote del prodotto che vanno ai salari. Il grimaldello per giocare questa seconda parte della guerra è stata la questione del debito pubblico, agitata strumentalmente come se fosse causa della crisi mentre invece ne é una conseguenza piuttosto ovvia (il debito pubblico sale se si spendono soldi per salvare banche private, le entrate fiscali scendono se il prodotto interno lordo cala). Le manovre di austerity hanno però lo sgradevole effetto collaterale di comprimere la domanda interna e quindi di peggiorare la crisi di interi settori produttivi. Quindi la via d’uscita dalla crisi che oggi l’establishment ci propone nei fatti è un riequilibrio della bilanca commerciale basata tanto sul rilancio delle esportazioni (basando la competitività sulla riduzione ulteriore dei salari) quanto sulla compressione delle importazioni (forzata dalla compressione dei redditi e quindi della domanda interna). Si tratta di soluzioni di breve termine ma strategicamente miopi, tanto più in una situazione in cui il rallentamento economico appare generalizzato. E quindi ulteriore distruzione di capitale è alle porte, e qui gli interessi dei capitali entro e tra i diversi paesi europei confliggono. Oggi in Europa è il capitale tedesco ad avvantaggiarsene, anche se un ulteriore peggioramento della situazione, e una implosione dell’euro probabilmente rimescolerebbe le carte in tavola in misura significativa.

Si parla di uscita dall'euro come soluzione per combattere la crisi, ci sono economisti marxisti che ipotizzano la creazione di una alleanza tra gli stati più a rischio, tu cosa ne pensi?

L’euro a due volocità – se è questo che si intende - non mi convince né quando a proporlo sono economisti tedeschi, né quando lo fanno economisti di orientamento marxista. In verità se in Europa si creassero due aree valutarie, noi saremmo i “leader” di quella più debole, ma al suo interno saremmo la moneta più forte – cosicché uniremmo gli svantaggi di una svalutazione nei confronti del Neo-marco (l’euro di prima classe) a quelli di un vincolo valutario all’interno dell’euro di seconda classe. Credo comunque che se si giungerà alla fine dell’euro lo scenario più probabile è quello del ritorno a monete nazionali nella maggior parte dei casi. Se il tema è invece quello dello sviluppo di rapporti commerciali anche al di fuori dell’orizzonte dell’Unione Europea, questo è comunque auspicabile, ma sempre tenendo conto dei rapporti di subfornitura tra imprese italiane e produttori tedeschi, che non appare sostituibile nel breve periodo. E’ però corretto affermare che l’uscita dall’euro oggi non sarebbe il male peggiore: se fossimo costretti a uscirne dopo una depressione come quella che sta sperimentando la Grecia sarebbe peggio. Inoltre l’euro non è una religione, ma il risultato di uno scambio: perdita della sovranità monetaria contro bassi tassi d’interesse. Se però i tassi d’interesse salgono oltre un certo livello, la permanenza nella moneta unica perde la sua convenienza. Questo punto è essenziale, perché dovrebbe connotare il profilo negoziale dell’Italia in Europa. E’ evidente che sino ad oggi esso è stato completamente ignorato sia dal governo Berlusconi che dal governo Monti. Coi risultati che si vedono: manovre depressive a ripetizione senza ricevere nulla in cambio.

Combattere la crisi significa fare opposizione ? A tuo giudizio da dove cominicare e perchè il sidnacato e le forze politiche di sinistra sono cosiì arretrate e deboli?

Sì, combattere la crisi significa fare opposizione. Oggi la crisi si combatte facendo valere l’indisponibilità dei lavoratori ad ulteriori round di sacrifici (che sinora sono stati pesantissimi e non sono serviti a niente, né dal punto di vista della percezione della solvibilità del nostro Paese, né dal punto di vista della soluzione dei problemi strutturali della nostra economia) e quindi costringendo ad un cambiamento radicale dell’agenda politica. In due direzioni. Dal lato delle politiche di bilancio, eliminazione dei veri sprechi (le spese militari) e in ambito fiscale lotta feroce all’evasione e patrimoniale. E’ assolutamente irragionevole che sul 10% degli italiani che possiede il 45% della ricchezza nazionali non gravi il 45% delle manovre di bilancio. Dal lato delle politiche industriali (che non sono una bestemmia ma una necessità), maggiore peso all’intervento pubblico nell’economia (si in termini di proprietà diretta di imprese sia in termini di orientamento degli investimenti) e forti investimenti in formazione e ricerca – guarda caso proprio i settori più massacrati dalle politiche antipopolari (ma anche economicamente insensate) prima del governo Berlusconi (i tagli a scuola e formazione sono iniziati nel 2008...) e poi dal governo Monti (che in questo come in quasi tutte le altre direttrici qualificanti della politica governativa si è posto in continuità col precedente. Le forze di sinistra sono così deboli essenzialmente perché nel paese è passato un atteggiamento fatalistico sbagliato rispetto a quello che sta succedendo (come se fosse inevitabile che le cose vadano come stanno andando). Per il sindacato il discorso è in parte diverso: anche la CGIL (per fortuna non tutte, e comunque non la FIOM) paga il collateralismo di fatto col PD, mentre i sindacati di base non si sono sinora dimostrati capaci di proporsi in modo convincente come un polo aggregante della protesta dei lavoratori.