Domenico Losurdo: Stalin, Storia e critica di una leggenda nera

di Valerio Evangelisti, Carmilla on line, 14 aprile 2009


Domenico Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera. Con un saggio di Luciano Canfora. Carocci editore, 2008, pp. 386, € 29,50..

Questo libro ha suscitato nei giorni scorsi, su Liberazione, un acceso dibattito. Alcuni redattori del quotidiano hanno giudicato troppo favorevole una recensione del libro firmata Guido Liguori, e hanno vivacemente protestato, contro il recensore e contro il direttore del giornale. In realtà si tratta di un autogol, inquadrabile nelle beghe interne al Partito della Rifondazione Comunista. La recensione non era affatto elogiativa. Salvava il salvabile, del saggio di Losurdo, ma era molto critica, a tratti assai duramente. I contestatori, chiaramente, non l’avevano letta tutta, o, peggio, si erano fermati al titolo (del libro, non dell’articolo). Una forma di malcostume niente affatto infrequente, specie se dei giornalisti scelgono un bersaglio intermedio per regolare i loro conti con la direzione dell’organo su cui scrivono.
Ma veniamo ai contenuti del libro. L’intento di Losurdo non sembra essere una completa riabilitazione di Stalin, o almeno non è quello lo scopo dichiarato. Si limita invece a smentire presunte menzogne accumulatesi sull’operato del dittatore, tuttora correnti, sulla base di ciò che chiama “metodo comparativo”.
A tratti riesce nell’intento. E’ molto efficace quando, in polemica col rapporto di Chruscev al XX congresso del PCUS, smentisce la supposta “passività” di Stalin nel corso della seconda guerra mondiale, e ne dimostra, al contrario, l’abilità strategica. E’ convincente quando confuta il presunto “antisemitismo” del dittatore, leggenda nata al tempo del cosiddetto “processo dei medici”, e in contrasto con l’assunzione di ebrei a cariche di alta responsabilità o con il riconoscimento fin troppo rapido dello Stato d’Israele. Riesce a persuadere di quanto, nel considerare i metodi e non i fini, la figura di Stalin e quella di Hitler siano state accostate artificiosamente, soprattutto da Hannah Arendt, mentre l’agire dell’uno e dell’altro appaiono incommensurabilmente distanti.
Ciò che invece non convince per nulla, nella dimostrazione di Losurdo, è (a parte il sorvolare su temi come la grande repressione del 1937, condotta sulla base di quote di persone da eliminare, e affidata a “trojke” che dovevano raggiungere un determinato risultato, si trattasse di colpevoli o innocenti; o l’accennare appena alle tragedie della collettivizzazione forzata delle campagne) la metodologia cui si ispira. Da un lato uno scoperto determinismo storico, del tipo “La situazione era quella, Stalin non poteva fare altro”. D’altro lato il famoso metodo comparativo, che si traduce nella proposizione: “Certo, Stalin ha fatto questo, ma altri hanno fatto di peggio”. Presupposto che si risolve in una collezione, da fonti disparate, di crimini occidentali o anche precedenti la nascita di quello che intendiamo oggi per Occidente: carestie indotte in Irlanda dagli inglesi, stragi coloniali in Canada e in Australia, linciaggi nel Mississippi degli anni ’20, massacri in Indonesia e in Vietnam, pagine raccapriccianti dal diario di Churchill, ecc. Un bric-à-brac di ritagli (la bibliografia che correda il libro è tanto ampia quanto raccogliticcia) che dovrebbe ridurre l’impatto delle fosse di Katyn o dei processi fasulli, staliniani e post-staliniani. Fino a rasentare il surreale quando, nell’evocare una quantità di episodi atroci, collocati in varie epoche, Losurdo arriva a “ridimensionare” persino l’operato di Pol Pot.
Un libro parziale o inutile? Non direi. A parte l’ottima postfazione di Luciano Canfora, sono interessanti proprio i brandelli di criminologia occidentale che Losurdo accumula a casaccio: se ordinati e visti alla luce di una qualche filosofia della storia, che qui manca, comporrebbero un efficace “libro nero del capitalismo”. Quanto a Stalin, proprio il contestato Liguori si è posto l’unica domanda sensata: perché mai chi propugnava una teoria liberatrice e umanistica come il socialismo ha finito per fare del patibolo, delle prigioni, delle deportazioni e dei massacri i suoi mezzi? Davvero la pressione delle minacce contingenti giustifica tutto?