Que viva Chavez!

Valerio Evangelisti, "Carmilla on line", 17 agosto 2004


Per celebrare un evento tra i più importanti degli ultimi anni – la schiacciante vittoria del presidente del Venezuela Hugo Chavez nel referendum preteso dalle forze di opposizione – riproponiamo un illuminante articolo di Maurice Lemoine, apparso sul numero di maggio 2002 dell’edizione italiana di Le Monde Diplomatique.
Che ora l’opposizione a Chavez parli di brogli non meraviglia. Già prima delle elezioni, con perfetta stupidità, aveva annunciato che lo avrebbe fatto, nel caso che Chavez avesse vinto. Gli osservatori internazionali, da Jimmy Carter ai delegati dell’Organizzazione degli Stati Americani, hanno da parte loro attestato la correttezza del processo elettorale. Sono già otto le elezioni vinte da Chavez a furor di popolo, sebbene i suoi avversari esercitino, in virtù del loro denaro, un controllo pressoché totale sui media.
Vi è chi attribuisce a Chavez comportamenti bonaparisti. Possono esistere in taluni suoi atteggiamenti, però non esistono nei fatti. Finora non si è mai scostato dalla legalità: né quando ha messo a riposo il vecchio sistema politico fondato sul privilegio familiare e sulla corruzione, né quando ha reagito con mano leggera al golpe tentato contro di lui l’11 aprile 2002. Non esistono prigionieri politici in Venezuela. La stessa Amnesty International denuncia violenze, però le attribuisce alla polizia, il corpo dello Stato più ostile a Chavez e più condizionato dall’opposizione. Del resto, quest’ultima attribuì al governo l’omicidio di alcuni dimostranti, che poi risultarono invece essere sostenitori di Chavez. Chi possiede i media crede spesso di potersi permettere tutto, salvo poi scoprire che la gente sa distinguere la moneta falsa dalla vera.
Rispetto all’articolo che segue, va detto che la passività di Chavez sul piano delle misure sociali è tramontata non appena il suo governo ne ha avuto i mezzi. I benefici degli introiti petroliferi non sono andati a rimpinguare le tasche dei più abbienti, come accade in Arabia Saudita e in tanti altri paesi graditi al cosiddetto Occidente. Sono stati invece finalizzati a programmi efficaci di risanamento, quale primo passo per lenire una miseria diffusa in stridente contrasto con la ricchezza del paese e della sua borghesia.
Adesso è facile che l’esempio venga imitato, che Lula sia spronato ad abbandonare la propria timidezza, che Argentina ed Ecuador riprendano con più decisione la via delle riforme strutturali. Chavez trae la sua forza non dall’autoritarismo e dalla repressione, bensì dal sostegno di classi umili che in lui si riconoscono. Tutto ciò comporta un aspro scontro sociale. Ebbene? Dove sta il problema? Se per garantire una vita decente agli strati subalterni bisogna svuotare un poco le tasche dei “ceti medi” (come si definiscono loro: in realtà, in una situazione come quella venezuelana, si tratta di ceti che si crogiolano nel privilegio), che lo si faccia senza remore. Che strillino pure. Non strillano già abbastanza per l’insicurezza delle loro strade, minacciate da poveri che essi stessi creano di giorno in giorno, per cinismo e avidità?
E’ un discorso facile da proiettare su scala mondiale. L’Occidente si sente assediato dalle reazioni selvagge di popoli ridotti alla miseria e alla disperazione, eppure non fa nulla per esportare anche una quota minima del proprio benessere, anzi, della propria opulenza ai limiti dello spreco. Attraverso gli organismi che controlla – FMI, Banca Mondiale, ecc. – impone ricette neoliberiste a paesi sull’orlo del collasso, e guarda le cifre del debito senza interessarsi del numero degli affamati. Tanto, se la protesta degenera in violenza, c’è sempre l’uso della forza quale risorsa armata a disposizione della politica e dell’economia. Come insegnarono Margaret Thatcher, Ronald Reagan, Augusto Pinochet e altri maestri, ispirati da quell’economista di merda che fu Milton Friedman
Chavez, piaccia o no la sua indole populista, incarna una ribellione di massa contro il neoliberismo. Non è marxista, non è comunista, non è nemmeno socialista. Però sa – contrariamente alla nuova destra mascherata da sinistra, che in Italia ha in La Repubblica il proprio organo ufficiale (non cito Il Riformista perché non lo legge nessuno) e in Tony Blair il proprio modello – che, contrariamente al dogma liberale per cui l’arricchimento di una minoranza crea ricchezza per tutti, è la lotta per l’eguaglianza la base di un benessere non effimero. E se c’è da pestare i “ceti medi”, che li si pesti, per Dio!