Il problema dei bassi salari

di Luigi Cavallaro, "la rivista del manifesto", N. 51, giugno 2004
 

Il conservatore concluderà che il suo istinto ha ricevuto un'ampia giustificazione in quello che ho detto. [-] D'altro canto il liberale e il socialista moderato saranno felici di trovare che essi hanno avuto ragione nella loro diffidenza verso il sindacalismo radicale, che la migliore strada consiste nel continuare e ampliare il programma di servizi sociali [-]. Infine, il rivoluzionario apprenderà da questo scritto che la situazione è proprio quella che supponeva, cioè che non vi è nulla da fare nell'attuale contesto sociale, che è un completo spreco di tempo cercare di emendarlo e che l'unica attività sensata è organizzarsi in vista di cambiamenti rivoluzionari. Così credo proprio di esser stato capace, una volta tanto, di accontentare tutti.

J.M. Keynes, Il problema degli alti salari, 1930

1.L'articolo di Pierangelo Garegnani, Tiziano Cavalieri e Meri Lucii apparso nel marzo scorso su questa rivista 1 pone un quesito teorico e un problema politico. Il quesito teorico è: quali sono le conseguenze di un aumento dei salari? Il problema politico è: nelle condizioni date, è desiderabile un aumento dei salari?
Al quesito teorico gli autori rispondono con nettezza: date le condizioni tecniche della produzione, la conseguenza di un aumento dei salari (reali) è una diminuzione del saggio di profitto. L'analisi mostra poi che la diminuzione del saggio di profitto innesca due reazioni da parte delle imprese, che nel medio periodo portano a un aumento del saggio d'inflazione e a un aumento del saggio di disoccupazione: all'esplosione salariale del quinquennio 1968-72, che vede i salari monetari dell'industria manifatturiera crescere in media del 10,3% nei cinque paesi considerati (Gran Bretagna, Francia, Germania federale, Stati Uniti e Italia), segue dapprima l'impennata dell'inflazione (che passa da una media del 2,8% nei sedici anni precedenti ad una media del 4,8% nel quinquennio considerato), poi - complici le politiche deflazionistiche attivate dopo lo shock dei prezzi petroliferi del 1973 - l'aumento della disoccupazione, che «progressivamente sostituisce l'inflazione nel contenere l'incremento dei salari reali» 2.
Ma c'è un altro aspetto che emerge dalla ricostruzione tracciata nell'articolo, ed è che un aumento dei salari monetari può comportare una variazione dello stesso segno dei salari reali. Nel quinquennio 1968-72, infatti, i salari monetari crescono più dell'inflazione (e in taluni casi anche più della produttività: in Italia e in minor misura in Francia e Germania) e dunque muta la distribuzione del reddito reale tra salari e profitti; è solo la disponibilità dell'arma del rialzo dei prezzi che consente alle imprese di recuperare nel periodo successivo la quota di prodotto sociale perduta a vantaggio dei salari.
Questo aspetto dell'analisi introduce al problema politico. Muovendo dal rilievo per cui l'adesione alla moneta unica impedisce alle imprese di scaricare sui prezzi gli incrementi di costo (per le ovvie conseguenze che ne deriverebbero sulla competitività delle proprie merci), è stato brillantemente argomentato da Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo che si avrebbero oggi tutte le condizioni «per una riattivazione virtuosa del conflitto distributivo» 3. Una volta escluso che dall'aumento dei salari monetari possa dipendere l'innesco di una qualche spirale inflazionistica, ogni aumento del salario monetario si tradurrebbe, infatti, in un incremento del reddito reale dei lavoratori, che «sarebbe ora che, dopo aver fatto tanti sacrifici per entrare nell'unione monetaria, [-] iniziassero a sfruttare i vantaggi potenziali della stessa, che sono numerosi ma finora ben poco indagati» 4. E non è tutto: associando opportunamente l'analisi sraffiana dei prezzi e della distribuzione e il principio keynesiano della domanda effettiva, si potrebbe giungere a sostenere che, data la maggiore propensione al consumo dei titolari di redditi più bassi, una politica di aumento generalizzato dei salari funzionerebbe da volano per la domanda effettiva, il reddito e l'occupazione.
In quanto segue proverò a verificare se simili argomentazioni siano plausibili o meno. Va detto subito, a scanso di equivoci, che non è certo mio intendimento negare cose purtroppo ben note, cioè che da (almeno) dieci anni a questa parte i salari hanno perduto terreno sia in termini reali che relativi 5, che ciò ha comportato un consistente impoverimento delle famiglie e che dunque occorrerebbe una decisa inversione di rotta; intendo piuttosto richiamare l'attenzione sul fatto che la possibilità di ottenere salari reali più elevati mediante una lotta sui salari monetari può sortire effetti solo in presenza di certe condizioni e proporre qualche elemento di riflessione onde capire se esse siano riscontrabili nella situazione data, cioè qui e ora.

2. Come si sa, l'inflazione è una brutta bestia. (Per certi versi è una bestia bellissima, ma qui non se ne discuterà.) Nonostante l'effetto principale su cui richiamano l'attenzione i teorici neoclassici sia quello di indurre variazioni dei prezzi assoluti, una sua conseguenza non meno rilevante (probabilmente, anzi, la più rilevante) è quella di alterare i prezzi relativi e, in ultima analisi, la distribuzione del reddito tra i fattori che da tali variazioni sono (diversamente) influenzati.
Di solito questi effetti vengono mascherati dalle rilevazioni statistiche, che - ponderando i diversi saggi d'incremento dei prezzi riscontrati per le varie merci in proporzione al `peso' che queste hanno nel paniere di spesa di una famiglia operaia - pervengono a determinare un saggio uniforme d'inflazione per tutto il sistema economico. Ma nella realtà i prezzi non variano tutti nella stessa proporzione: alcuni crescono di meno del saggio medio, altri di più. Ce ne siamo accorti da quando il cambiamento della valuta ci ha, per così dire, privato della memoria dei prezzi di centinaia di beni e fatto concentrare su quelli di uso più corrente (generi alimentari e servizi in genere), che sono quelli che nel corso degli ultimi due anni hanno presentato una dinamica più sostenuta: la reazione generale, infatti, è stata quella di ritenere che l'Istat sottostimasse il tasso medio d'inflazione (cioè la media degli incrementi di prezzo delle varie merci, calcolata come s'è detto), mentre è più probabile che fossero i consumatori a sovrastimarlo 6.
Torniamo allora al problema politico. In linea generale, è senz'altro vero che oggi le imprese esposte alla concorrenza di prezzo non possono rintuzzare incrementi del salario con aumenti dei prezzi senza con ciò stesso perdere quote di mercato 7. Ma è altrettanto vero che in Italia, pur in assenza di una crescita più marcata che nelle altre economie europee (soffriamo anzi del problema opposto), i prezzi al momento attuale crescono più rapidamente della media dell'area dell'euro, circa dello 0,7%. Ciò indica che per molti settori della nostra economia (servizi bancari, bancoposta, Rc auto, alberghi, ristoranti, pubblici esercizi, tariffe dei servizi pubblici, tariffe professionali: in genere, il terziario) non vale il vincolo della concorrenza: i prezzi possono aumentare e indurre un cambiamento della distribuzione di segno inverso rispetto a quello provocato dall'aumento dei salari. Di conseguenza, non si può affermare che un aumento generalizzato dei salari monetari rappresenta una misura in grado di indurre un corrispondente aumento dei salari reali se prima non si chiarisce quanta parte di questo aumento andrà dispersa in cambiamenti dei rapporti relativi tra il salario monetario e i prezzi dei servizi non esposti alla concorrenza. Per fare solo un esempio, se il maggior salario monetario pagato dalle imprese manifatturiere viene compensato o più che compensato da un aumento dei prezzi dei beni di consumo, non avremo alcun aumento dei salari reali (né tanto meno della domanda effettiva), ma semplicemente il trasferimento di una quota del prodotto sociale dalle imprese manifatturiere alla grande e piccola distribuzione commerciale.
Si noti che un'ipotesi del genere è tutt'altro che implausibile. Secondo un vecchio ma non invecchiato studio di Roberto Convenevole, essa è all'origine della profonda trasformazione subita nel periodo 1951-1973 dall'economia italiana, che ha visto nell'arco di tempo in questione «un preciso flusso di redistribuzione del reddito a vantaggio del terziario e a scapito dell'industria [-] attraverso un continuo miglioramento delle ragioni di scambio del terziario nei riguardi degli altri due settori» 8. Per Convenevole, anzi, lo stesso aumento dei salari reali verificatosi nel periodo 1968-72 non testimonierebbe affatto di un'avanzata delle classi lavoratrici nella distribuzione del reddito: nel 1973, infatti, il salario relativo lordo nelle imprese manifatturiere (vale a dire il rapporto fra il salario reale pagato e il surplus reale prodotto nel settore) era appena il 74% di quello del 1951, confermandosi così quella tendenza alla diminuzione del salario relativo che Marx aveva individuato come effetto costante del progresso tecnologico. Si sarebbe trattato, piuttosto, della prima volta in cui i salariati riuscirono a difendere i propri livelli di salario monetario dall'erosione costante operata ai loro danni dei profitti industriali, che a loro volta cercavano per questa via di recuperare le quote di sovrappiù cedute a beneficio del terziario, cioè della sfera della circolazione; più precisamente, sarebbe stato il fatto stesso di resistere «a scatenare un'inflazione generalizzata all'interno del sistema» 9.

3. Alle osservazioni che precedono se ne può aggiungere un'altra. Considerando il periodo compreso fra il 1993 e il 2001, si può rilevare che, su 28,6 punti percentuali di aumento dei prezzi al consumo, ben 24,3 sono attribuibili a corrispondenti variazioni dei prezzi alla produzione 10. Poiché nel periodo in esame il costo del lavoro ha avuto un ruolo pressoché nullo nella dinamica dell'inflazione, diventa ragionevole volgersi a guardare il ruolo che ha il capitale nella formazione dei prezzi. Qui la grandezza rilevante è il rapporto capitale-prodotto (o `grado d'intensità del capitale'), vale a dire l'ammontare d'investimento che bisogna intraprendere (e quindi l'ammontare di beni di consumo cui si deve rinunciare) per produrre un'unità aggiuntiva di merce: dire che un dato processo di produzione ha un'intensità di capitale maggiore rispetto ad un altro equivale, infatti, a dire che il prezzo della merce finale incorpora una più elevata quota di spese per il capitale (profitti e ammortamenti) rispetto alle spese per la forza-lavoro 11.
Orbene, mentre nel resto d'Europa il grado d'intensità del capitale è andato calando significativamente nel corso degli anni '90, in Italia ha registrato un trend sostanzialmente stabile. Ciò significa che il nostro paese è diventato complessivamente meno produttivo del resto d'Europa: non tuttavia perché i lavoratori italiani lavorano meno dei loro colleghi europei (anche di queste sciocchezze si è costretti a sentire), quanto piuttosto perché il divario tecnologico accumulato nei confronti del resto d'Europa 12 fa sì che noi dobbiamo importare le attrezzature necessarie all'ammodernamento dei processi produttivi, i cui costi, associandosi ai bassi salari italiani, rendono l'intensità di capitale più elevata qui che altrove.
Tutto ciò mette capo a una difficoltà aggiuntiva per una politica di espansione salariale: dato che quest'ultima non produce alcun effetto circa le scelte concernenti la composizione del prodotto sociale, che restano saldamente in mano alle imprese, è ragionevole supporre che, quand'anche i mutamenti della distribuzione prospettati nel paragrafo precedente non dovessero verificarsi e i salari aumentassero realmente, trainando conseguentemente la domanda effettiva, la debolezza tecnologica della struttura produttiva italiana avvicinerebbe alquanto il momento in cui la crescita del reddito incontra il limite del fabbisogno di importazioni 13.

4. Se dunque è discutibile che una strategia di politica economica imperniata sull'aumento dei salari monetari possa conseguire gli obiettivi che vi sono sottesi (aumento dei salari reali, della domanda effettiva e dell'occupazione), non meno dubbi mi suscita l'altra affermazione, secondo cui essa rappresenterebbe «l'unica strategia credibile per dare al lavoro subordinato voce in capitolo sulla costruzione europea» 14. Obietterei, infatti, che perseguire per questa sola via il risultato di un aumento del benessere delle classi lavoratrici produrrebbe maggiore conflittualità, accentuata competizione fra sigle sindacali, crescente divisione fra le stesse e, in ultima analisi, il rischio di abbandonare il contratto nazionale di lavoro a favore di un sistema decentrato di contrattazione in cui sarebbero i settori (e i territori) più forti a spuntare maggiori livelli salariali (monetari).
Ciò non significa che non ci sia nulla da fare o che tutto vada per il meglio nel migliore dei mondi possibili. Il salario, infatti, è variabile dipendente rispetto al profitto ma variabile indipendente se inteso quale `reddito reale', al netto cioè delle imposte e al lordo dei servizi sociali (scuola, sanità, pensioni, ecc.). Secondo un'opinione non sospetta di simpatie antagoniste, anzi, le principali fonti d'arricchimento dei lavoratori nel secolo scorso - ciò che ha consentito l'aumento del loro potere d'acquisto del 250% a partire dal 1950 - sono state le spese sociali per beni e servizi, principalmente scuola e sanità: «è l'entità di questa redistribuzione in natura che permette di misurare la differenza fra paesi scarsamente redistributivi e paesi fortemente redistributivi» 15, ed è probabilmente il suo venir meno in conseguenza delle politiche di rientro dal debito pubblico che acuisce nel tempo presente la percezione del proprio impoverimento reale da parte dei lavoratori.
È proprio su questo punto, peraltro, che il `ponte' gettato da Brancaccio e Realfonzo fra le analisi classico-keynesiane à la Garegnani e quelle `circuitiste' à la Graziani 16 può mostrare tutta la sua fecondità 17. Tra i problemi principali che affliggono quanti si rifiutano di sottostare ai diktat derivabili dalla teoria neoclassica e si sforzano di contrapporvi altre analisi e altre prescrizioni vi è quello rappresentato dalla mancanza di un linguaggio condiviso. Solidale nella critica all'ortodossia, la sinistra teorica si è infatti sempre divisa nell'individuazione di un paradigma alternativo, che fosse capace di fondere organicamente (e non di giustapporre) l'analisi monetaria e quella delle variabili reali e offrire così una visione del processo economico alternativa rispetto ai modelli neoclassici. Quel `ponte', invece, potrebbe aprire rilevanti possibilità per produrre spiegazioni alternative circa le relazioni che gli ortodossi ci dicono sussistere fra deficit, debito, prodotto interno lordo e tassi d'interesse nominali; suggerisce risposte non convenzionali circa gli effetti della spesa pubblica e del prelievo fiscale sulla distribuzione del reddito reale; corrobora analiticamente il convincimento comune alla sinistra comunista secondo cui gli interessi dei lavoratori e in generale dei cittadini «potranno trovare riconoscimento solo attraverso un massiccio intervento politico sull'intera struttura del sistema» 18. Vogliamo discuterne?

note:

1  T. Cavalieri, P. Garegnani, M. Lucii, Anatomia di una sconfitta, «la rivista del manifesto», n. 48, aprile 2004, pp. 44-50.
2  Ibidem, p. 47.
3  E. Brancaccio, R. Realfonzo, I redditi senza politica, «il manifesto», 22 febbraio 2004.
4  Ibidem.
5  Cfr. S. Levrero, A. Stirati, La leva del salario, in questa rivista, n. 32, ottobre 2002, pp. 21-25; M. Zenezini, Quanto costano i bassi salari?, ivi, n. 33, novembre 2002, pp. 32-36.
6  Cfr. L. Guiso, Inflazione percepita e rilevata, http://www.lavoce.info/news/view.php?id=28&cms_pk=713&from=index.
7  Che l'ingresso nell'euro abbia mutato i termini in cui si poneva la spirale salari-prezzi è un fatto su cui convergono anche molti analisti ortodossi: cfr., ad esempio, T. Boeri, G. Bertola, A che serve il tasso d'inflazione programmata?, ora in T. Boeri (a cura di), www.lavoce.info. Un anno di interventi e analisi dell'economia italiana, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 54-57.
8  R. Convenevole, Processo inflazionistico e redistribuzione del reddito, Einaudi, Torino 1977, p. 113.
9  Ibidem, p. 35.
10  Cfr. D. Palma, Specializzazione produttiva e nuove tendenze dell'inflazione in Italia negli anni '90, in S. Ferrari, R. Romano, Europa e Italia. Divergenze economiche, politiche e sociali, Franco Angeli, Milano 2004, p. 70.
11  Per questa nozione di `intensità di capitale' e per la sua distinzione rispetto a quella di `grado di meccanizzazione', che indica invece il rapporto capitale-lavoro, cfr. L. Pasinetti, Dinamica strutturale e sviluppo economico. Un'indagine teorica sui mutamenti nella ricchezza delle nazioni, Utet, Torino 1984, pp. 204 ss.
12  Cfr. per tutti L. Gallino, La scomparsa dell'Italia industriale, Einaudi, Torino 2003; S. Ferrari, R. Romano, Europa e Italia, cit.
13  Queste le conclusioni di D. Palma, Specializzazione produttiva e nuove tendenze dell'inflazione in Italia negli anni '90, cit., pp. 74-75.
14  Così, invece, Brancaccio e Realfonzo, I redditi senza politica, cit.
15  T. Piketty. Disuguaglianza. La visione economica, Università Bocconi Editore, Milano 2003, p. 144.
16  E. Brancaccio, R. Realfonzo, La razionalità del conflitto, «la rivista del manifesto», n. 50, maggio 2004, specialmente alle pp. 51 ss.
17  Per una diversa opinione, fondata su alcune difficoltà analitiche che emergono a proposito della possibilità di chiudere lo schema del circuito monetario una volta che lo si sia riscritto in termini di schemi di riproduzione, si veda G. Lunghini, C. Bianchi, The Monetary Circuit and Income Distribution: Bankers as Landlords?, in R. Arena e N. Salvadori (a cura di), Money Credit and the Role of the State. Essays in honour of Augusto Graziani, Ashgate, Aldershot-Burlington 2004.
18  Brancaccio e Realfonzo, La razionalità del conflitto, cit., p. 52.
 

Errata corrige

Con riferimento all'articolo di E. Brancaccio e R. Realfonzo, pubblicato nel numero di maggio 2004, gli autori segnalano che il convegno del 1978 cui essi fanno riferimento (p. 48, § 2) si svolse a Pavia, e non a Modena come erroneamente riportato nell'articolo. Gli atti del convegno vennero pubblicati nel volume, a cura di Giorgio Lunghini (a cui in particolare vanno le scuse degli autori e della redazione), Scelte politiche e teorie economiche in Italia, Einaudi 1981.