Non è genocidio. Ma sterminio è meno grave?

intervista ad Antonio Cassese, a cura di Simona Salvi, "Lo straniero", N. 83, maggio 2007


Gli Stati Uniti gridano da anni al genocidio in Darfur. I media internazionali rilanciano l’accusa, nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale su quanto sta accadendo nella regione sudanese. Tuttavia, la Commissione internazionale di inchiesta voluta dall’Onu e presieduta dal professore di diritto internazionale Antonio Cassese ha escluso che in Darfur sia in atto un genocidio, sottolineando che tale conclusione non intende in alcun modo “minimizzare la gravità dei crimini perpetrati nella regione, abusi riconosciuti internazionalmente come crimini contro l’umanità e crimini di guerra”. Parola magica a livello mediatico, è sbagliato ritenere che l’accusa di genocidio faccia scattare meccanismi di garanzia o di protezione diversi da qualunque altro tipo di intervento previsto in caso di crimini contro l’umanità o crimini di guerra. La Commissione presieduta da Cassese ha presentato le proprie conclusioni al Consiglio di sicurezza dell’Onu nel gennaio 2005, ottenendo nel marzo dello stesso anno che i crimini del Darfur venissero deferiti alla Corte penale internazionale dell’Aja. Presidente del Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura, quindi primo presidente del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, il professor Cassese ci aiuta a capire cosa è avvenuto e cosa sta avvenendo in Darfur.
La Commissione da lei presieduta ha escluso che in Darfur sia in atto un genocidio. Ci può spiegare perché? E ci può dire se è stata una decisione frutto di pressioni politiche?
La Commissione ha operato in piena indipendenza. Non abbiamo subito alcuna pressione politica, se non dagli Stati Uniti perché affermassimo che si trattava di genocidio. Ma abbiamo constatato e continuo a credere che in Darfur non sia in atto un genocidio. Ogni volta che si verifica l’uccisione di migliaia di persone, si ritiene che occorra necessariamente parlare di genocidio. Ma dal punto di vista del diritto internazionale c’è una Convenzione del 1948 e ci sono delle norme consuetudinarie che richiedono, perché si possa parlare di genocidio, non solo che vengano compiuti degli atti, dall’omicidio fino all’impedimento delle nascite di un determinato gruppo di persone, ma anche che questi atti siano compiuti nei confronti di quattro tipi di gruppi: razziale, religioso, etnico o nazionale. Se si tratta di un gruppo politico, non è genocidio. La terza cosa da dimostrare, la più difficile e la più importante, è il dolo specifico: non solo il dolo tipico dell’omicidio volontario, ma anche specifico, nel senso che sia chiara l’intenzione di distruggere un gruppo etnico, razziale, religioso o nazionale, in tutto o in parte. Noi abbiamo dimostrato che le autorità sudanesi e le milizie arabe praticano dei crimini contro l’umanità, ossia lo sterminio e il trasferimento della popolazione, ma senza l’intenzione di distruggere il gruppo in quanto tale. Se avessero voluto distruggere tutte le tribù cosiddette africane, che sono dello stesso colore, della stessa religione e della stessa lingua di quelle arabe, ma si percepiscono come diverse, le avrebbero fatte andare nei campi sfollati e avrebbero cercato di farle morire. Il solo fatto che le autorità consentano alle organizzazioni internazionali di operare nei campi significa che non le vogliono annientare. Auschwitz significa annientare.
Allora perché si continua a parlare di genocidio? Perché una grande potenza come gli Stati Uniti non ha smesso di gridare al genocidio?
Gli stessi studiosi americani considerano genocidio “a magic word”, una parola magica a livello psicologico e mediatico. Soprattutto mediatico. Perché quando si dice genocidio la gente si sente rimescolare il sangue. Perché lo sterminio è meno grave? Gli americani parlano tanto di genocidio perché nel 1994 non hanno voluto dire che era in atto un genocidio in Ruanda. Erano in pieno periodo elettorale ed erano appena rimasti scottati dalla Somalia. Quindi ora si dice che è genocidio in Darfur per evitare la “sindrome di Clinton”, cioè per dire il presidente deve fare qualcosa. E infatti Bush ha ripetuto più volte che è genocidio, ma che ha fatto? Un bel nulla. Una grande potenza come gli Stati Uniti avrebbero varie modalità di intervenire, ma non fanno nulla. La sola cosa meritoria fatta dagli Usa, da Condoleeza Rice in persona, è stata quella di astenersi al momento del voto per il deferimento della questione del Darfur alla Corte penale internazionale.
Ma in caso di genocidio scattano meccanismi di intervento più rapidi ed efficaci da parte della comunità internazionale?
No, non scatta nulla. Se si riconosce il genocidio, non scatta alcun obbligo internazionale. Scatta solo qualcosa nella testa, viene collegato subito all’Olocausto. L’unica cosa prevista dalla Convenzione sul genocidio è che uno stato membro dell’Onu può andare davanti al Consiglio di sicurezza dell’Onu o all’Assemblea generale. Non ci sono strumenti politici né economici per intervenire in caso di genocidio. Quando viene riconosciuto un caso di genocidio, la comunità internazionale non appresta alcuna protezione o meccanismo di garanzia diverso da qualunque altro intervento previsto per gravi massacri, crimini contro l’umanità o crimini di guerra.
Quali sono allora i motivi dello sterminio in atto in Darfur?
Comprendere le cause del conflitto non rientrava nei nostri compiti, ma l’idea che mi sono fatto è che c’è stata una grave ribellione da parte di tre grandissime tribù del Darfur, cosiddette africane, per chiedere più equità nella distribuzione della ricchezza nazionale che oggi si concentra a Khartoum. In Darfur si gira solo in aereo o in elicottero. Non ci sono strade, ferrovie, ospedali o scuole. Le risorse nazionali non vengono utilizzate per lo sviluppo della regione, che è molto povera. Le tribù africane si sono ribellate al potere centrale e Khartoum non ha saputo fronteggiare questa ribellione, anche perché era ancora impegnata nella guerra ventennale contro i ribelli del sud. Il governo di Khartoum non ha un grande esercito, ha poche armi, pochi aerei, tutti Antonov che venivano usati per bombardare. Quindi, non potendo trasferire le truppe dal sud al Darfur, ha sobillato e armato le milizie arabe che da tempo odiano le tribù africane solo per ragioni economiche. Perché gli arabi sono nomadi, pascolano cammelli, mucche e capre, mentre gli africani sono sedentari, coltivano la terra. Da secoli c’è animosità tra queste tribù, che si è inasprita negli ultimi anni perché c’è stata una vasta desertificazione, per ovvi motivi climatici. Le terre fertili sono andate scomparendo e c’è stato uno scontro per il loro controllo. Bisogna sapere che il pascolo vale 60 milioni di dollari l’anno in Darfur. I nomadi vendono i cammelli in Libia e in Egitto. Quando Khartoum gli ha garantito protezione aerea e li ha armati, i janjaweed hanno cominciato a distruggere i villaggi africani da cui provengono i ribelli. Il governo ha quindi optato per una forma errata e disumana di lotta contro una ribellione, provocando stermini, stupri di massa, trasferimenti illeciti di civili da una parte all’altra, creazione di condizioni di vita disumane, ma non quelle indicate dalla Convenzione sul genocidio. Da parte di Khartoum c’è stata quindi incapacità politica nel gestire la crisi e l’idea di liberarsi di una ribellione in fretta, avendo a disposizione poche armi e pochi mezzi. Il Darfur è grande come la Francia, enorme e desertico. Ma non c’è un odio contro le tribù africane, mai e poi mai.
In base al rapporto della sua Commissione, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato nel marzo 2005 la risoluzione 1593 che rinvia alla Corte penale internazionale dell’Aja il giudizio sui crimini commessi in Darfur. Ma non ha accolto la vostra seconda raccomandazione di creare una commissione per il risarcimento delle vittime delle violenze, a prescindere dall’identificazione dei responsabili. Non le pare che l’Onu abbia perso un’occasione per riaffermare la propria ragion d’essere come organizzazione a tutela dei diritti umani?
Sì, è stata un’occasione sprecata, ma non è escluso che le vittime vengano risarcite in futuro. Lo statuto della Corte penale internazionale prevede che chiunque abbia commesso un crimine, uccidendo delle persone, può essere condannato non solo al carcere, ma anche a risarcire il danno. Io ci tenevo molto alla Commissione, ma è già stata una vittoria enorme il deferimento all’Aja.
La risoluzione dell’Onu ha affidato nel marzo 2005 al procuratore Ocampo il compito di indagare sui crimini commessi in Darfur. È indubbio che la corte debba esercitare il proprio compito nel tempo che ritiene necessario, ma mi sa dire perché ha impiegato così tanto per concludere le indagini, anche alla luce del lavoro svolto voi in precedenza?
Mi farebbe piacere saperlo. So che ha aperto gli scatoloni sigillati con tutti i nostri documenti e li ha poi rimessi in cassaforte.
Nella relazione presentata all’Onu, il procuratore Ocampo afferma di aver condotto le sue indagini fuori dal Darfur, per non mettere a rischio vittime e testimoni e gli stessi investigatori. Questo non può aver pregiudicato le indagini?
Il procuratore non ha mai chiesto alle autorità di Khartoum di consentirgli di andare in Darfur. Gli avevo suggerito di chiedere subito l’autorizzazione e, in caso di rifiuto, di ammonire il governo sudanese che avrebbe informato il Consiglio di sicurezza. Lui non l’ha mai fatto e ha sempre addotto motivi di sicurezza. Noi abbiamo visitato le carceri, i luoghi dove l’intelligence militare teneva nascoste le persone. Noi siano andati nei villaggi che bruciavano ancora, a parlare con la gente, nei campi per gli sfollati. Lui non lo ha mai fatto. Detto questo, la raccolta di prove fuori dal Darfur non pregiudica comunque l’indagine, perché le prove sono le testimonianze di rifugiati. Il problema è che rischiano di essere poco attendibili, perché sono persone “inquinate”, in quanto sono da tanto tempo nei campi, all’oscuro dei fatti più recenti, e hanno ripetuto più volte la loro versione, arricchita poi da racconti di altri.
Ocampo ha segnalato tra le righe del suo rapporto scarsa collaborazione da parte del governo di Khartoum. Mi può dire come sono stati i suoi rapporti con il governo sudanese?
Il governo di Khartoum ci ha fatto fare quello che volevamo. Quando volevamo visitare dei posti e si opponevano,  alzavo la voce e dicevo che se entro due, tre ore non fossi andato in un determinato posto, me ne sarei andato facendo una dichiarazione alla stampa, quindi un rapporto alle Nazioni Unite. Mi hanno fatto visitare tutti i posti che volevo vedere. Occorre avere grinta.
A suo giudizio, l’opposizione di Khartoum al dispiegamento dei caschi blu nella regione nasce dal timore che i peacekeepers possano ricevere il mandato di arrestare gli inquisiti dalla Corte?
Khartoum si oppone innanzitutto perché i caschi blu sarebbero più efficaci delle truppe africane, che fanno quello che possono, ma non hanno mezzi e si rivelano quindi impotenti. A volte sono state anche prese di mira dai sudanesi. Invece le truppe dell’Onu possono riferire alle Nazioni Unite e avere a disposizione mezzi più efficaci. In secondo luogo teme che possano eseguire mandati di cattura, come fece la Nato in Bosnia-Erzegovina. Perché se viene arrestato un capo dei janjaweed, è chiaro che racconta di aver ricevuto armi e uniformi dal governo.
Infine, avendo visitato la regione, quali solo gli aspetti che l’hanno più colpita?
Innanzitutto il fatto che la maggioranza della popolazione è analfabeta, e poi che è molto legata alla cultura tribale. Mi ricordo che un generale sudanese, vicecomandante dell’intelligence militare, mi diceva che non vedeva l’ora di togliersi l’uniforme e di tornare nella sua tribù, perché diceva che è lì che si trovava più a suo agio. Sono molto legati alle usanze, ai riti, al modo tribale di risolvere le controversie. Senza differenze tra arabi e africani. Il paese è arabizzato da secoli. I contatti continui tra arabi e africani hanno prima di tutto indotto i cosiddetti neri ad abbracciare la religione musulmana, poi ci sono stati molti matrimoni misti. Mi ricordo che spesso incontravamo persone tutte vestite con le tuniche bianche e quando chiedevamo se erano arabi o africani, loro ci dicevano: “Indovinate. Guardateci e indovinate”. Così ho imparato che spesso quelli più scuri sono i cosiddetti arabi. Non c’è più differenza, perché ci sono stati tanti matrimoni misti. Nel corso dei secoli. La differenza non è tra arabi e africani, ma nel tipo di attività che conducono, tra sedentari e nomadi. E c’è soltanto un’altra piccola differenza data dal fatto che le cosiddette tribù africane, oltre a parlare arabo, spesso parlano anche un dialetto locale, tribale. Ma è una differenza da nulla.