Diciannove scompaiono

Intervista a Bruno Contini
realizzata da Barbara Bertoncin e Francesco Ciafaloni, "Una città", n. 188, ottobre 2011


Una generazione che, nonostante sia meno numerosa, più istruita e flessibile e meno sindacalizzata, stenta a entrare nel mercato del lavoro; l’idea, sbagliata, che per fare spazio ai giovani ci si debba liberare dei vecchi; il problema del mismatch e di un’economia fondata sul basso costo del lavoro. Intervista a Bruno Contini.

Bruno Contini, già professore di econometria e economia applicata presso l’Università di Torino, è fondatore e direttore del Laboratorio R. Revelli, Centre for Employment Studies del Collegio Carlo Alberto. Negli ultimi vent’anni i suoi interessi di ricerca si sono concentrati sull’analisi del mercato del lavoro e degli effetti economici dell’invecchiamento. Ha curato, tra l’altro, Osservatorio sulla mobilità del lavoro in Italia, Il Mulino 2002, ed Eppur si muove: persistenze e dinamiche nel mercato del lavoro (con Ugo Trivellato), Il Mulino 2005.
 

Il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da un invecchiamento della forza lavoro e da un’alta disoccupazione, soprattutto, ma non solo, giovanile...
Cominciamo con un inquadramento generale. Possiamo dire che a partire dagli anni Settanta il problema della disoccupazione giovanile è stato un tratto costante, non solo del nostro paese. Tant’è che le istituzioni -europee specialmente- l’hanno sempre messo all’ordine del giorno suggerendo politiche che affrontassero o che tentassero di risolvere il problema. Queste politiche erano sostanzialmente basate su due filoni: uno, flessibilizzare il mercato; due, sussidiare l’occupazione giovanile. Il caso tipico in Italia è stato quello dei contratti di formazione lavoro (Cfl), che sono partiti a metà anni Ottanta e che appunto sussidiavano, nel senso che in larga misura i contributi erano a carico dello Stato. Terminati i due anni di formazione, peraltro, le imprese potevano tranquillamente non rinnovarli.
Nel 1996 abbiamo poi la Riforma legata al cosiddetto pacchetto Treu, che introduce due novità: la liberalizzazione dei contratti temporanei (che comunque già esistevano, per quanto soggetti ad alcune restrizioni) e il "co.co.co.”, spesso lavoro dipendente mascherato, caratterizzato da bassi contributi sociali.
Bisogna però dire che prima dell’introduzione del Cfl e del Pacchetto Treu, la prassi di interrompere contratti formalmente permanenti era già diffusa, e non solo con i giovani. La legge infatti era molto protettiva sulla carta, ma facilmente aggirabile nei fatti (come dicono i giuristi la "law in the books” e la ”law in action” sono due faccende differenti).
La riforma Treu andava dunque a legittimare pratiche già in uso.
Ma torniamo al problema della disoccupazione giovanile. Per molti anni è prevalsa anche l’idea che per accomodare i giovani fosse necessario far fuori gli anziani. Questa è una cosa cui hanno creduto le istituzioni, le imprese, e ci hanno creduto anche i sindacati, che hanno negoziato pensioni anticipate proprio con l’idea che prepensionando i cinquantenni -a volte anche i quarantacinquenni- si facesse spazio per l’assunzione dei giovani.
Ora, questa cosa non è che non abbia funzionato mai, però sicuramente non ha funzionato nei modi e negli ordini di grandezza che ci si aspettava.
Anche oggi la questione è controversa. Tuttavia se si guarda ai paesi europei, non è affatto vero che laddove ci sono molti giovani al lavoro ci sono pochi vecchi, anzi è vero esattamente il contrario. Nei paesi scandinavi, ad esempio, dove i tassi di occupazione degli anziani sono nell’ordine del 60%, quelli dei giovani sono ugualmente alti.
L’Olanda ha la specificità di essere riuscita nell’impresa facendo ricorso all’occupazione a tempo parziale in modo massiccio. Però, anche lasciando perdere questi paesi, in genere si nota che dove ci sono molti anziani al lavoro ci sono anche molti giovani occupati.
Nel nostro paese invece, nonostante le politiche di prepensionamento messe in atto, se si guarda alla struttura per età dell’occupazione nell’industria e nei servizi, perlomeno in quelli relativamente avanzati, si scopre che c’è stato un invecchiamento notevole, soprattutto nel settore manifatturiero. Negli anni Settanta inizio Ottanta l’età modale era intorno ai 35-36 anni; oggi l’età modale, cioè il grosso di chi lavora, ha intorno ai 45-48 anni.
Quindi abbiamo una forza lavoro che soffre di invecchiamento e dall’altra parte una generazione di giovani che accede con difficoltà al mercato del lavoro. Una situazione di non facile lettura e interpretazione.
E tuttavia, dai vari studi, emerge tutta una serie di fattori molto importanti che farebbero pensare che in Italia l’occupazione giovanile dovrebbe essere molto più ampia di quanto non sia.
Premetto che nelle nostre ultime indagini abbiamo ristretto l’analisi agli individui maschi, così da bypassare quegli ulteriori elementi di complessità legati all’incidenza delle strategie riproduttive nella partecipazione femminile al mercato del lavoro.
Detto questo, io vedo almeno cinque elementi diciamo "favorevoli” all’occupazione giovanile. Primo: il declino demografico. Negli anni Ottanta, quando i nati del baby boom degli anni Sessanta raggiunsero l’età da lavoro, ogni anno si presentavano sul mercato coorti di ottocento-novecentomila persone grosso modo. Oggi le coorti di ventenni che entrano sul mercato del lavoro sono nell’ordine delle seicentomila unità. E tra qualche anno saranno ancora meno perché si presenteranno sul mercato i nati all’inizio degli anni Novanta, che sono ulteriormente diminuiti. Qui si potrebbe già fare una prima considerazione: se c’è meno gente disponibile in età da lavoro, uno si aspetta che ci siano meno occupati giovani in assoluto, però percentualmente il tasso di occupazione dovrebbe essere cresciuto. Invece è calato.
Secondo elemento. La flessibilità è aumentata tantissimo e questo riguarda in particolare i settori giovanili, quindi da questo punto di vista le condizioni sono più favorevoli.
Terzo: il costo del lavoro dei giovani rispetto a quello degli anziani è diminuito molto fra gli anni Ottanta e gli anni Duemila e probabilmente sta diminuendo anche in questi anni; sicuramente non è aumentato.
Quarto: i giovani sono poco sindacalizzati e questa è una cosa, dal punto di vista della domanda, dell’impresa, che dovrebbe rendere tutto più semplice.
E poi c’è il fatto che la scolarità è aumentata moltissimo.
Quindi ci sono una serie di elementi che riguardano il lato dell’offerta di lavoro: la demografia e la scolarità; e poi ci sono una serie di fattori che invece riguardano la domanda di lavoro, cioè il fatto che i giovani costano di meno, sono meno sindacalizzati e più flessibili. Tutti questi fattori concorrono, almeno in teoria, a incentivare l’ingresso di questi soggetti nel mercato del lavoro. Insomma i ventenni dovrebbero essere tutti al lavoro. E allora com’è questa storia che i tassi di occupazione giovanili sono più bassi?
Ora, è possibile che la scolarità e l’occupazione siano in qualche modo due fattori legati, cioè se c’è poco lavoro, la gente va a scuola. In questo senso, l’aumento di scolarità potrebbe anche essere un derivato del fatto che ci sono poche occasioni di lavoro. Queste due cose non sono indipendenti.
Comunque, resta il fatto che in Italia l’occupazione giovanile è particolarmente messa male.
Nei suoi studi lei denuncia soprattutto una difficoltà di ingresso, ma poi anche di permanenza, nel mercato del lavoro. Può raccontare?
Le difficoltà di ingresso in effetti sono molto grosse. In base a un’indagine Istat del 2004, il tempo medio di attesa tra il diploma di scuola secondaria e il primo lavoro era di 14 mesi. Si badi bene: il tempo medio. Sempre nel 2004, la percentuale di giovani che avevano completato la scuola da tre anni e che erano ancora in cerca di lavoro era del 26%. La cosiddetta "probabilità di transizione”, cioè la probabilità di trovare un lavoro da un anno all’altro, era del 50%, che significa un ritardo medio di due anni. Un po’ meno per la fascia 20-24 anni.
In conclusione, dall’uscita dalla scuola, oggi registriamo grossissimi tempi di attesa.
Un dato ancor più allarmante se ricordiamo il calo demografico avvenuto. Tenga presente che negli anni Sessanta la forza lavoro nell’età 20-29 anni era di quattro milioni. Alla fine degli anni Ottanta era di cinque milioni. Oggi i giovani nella fascia 20-29 sono tre milioni e mezzo.
Cosa succede alle persone che invece entrano nel mercato del lavoro?
I grafici a nostra disposizione sono abbastanza drammatici. Sulla totalità dei giovani (19-30 anni) entrati nel mercato del lavoro nel 1987, dopo 15 anni, nel 2002, meno dell’81% era ancora al lavoro.
In buona sostanza, tra queste persone che iniziano con un lavoro vero (parliamo di lavoratori per cui sono stati versati dei contributi all’Inps o a qualche altra cassa), a un certo punto alcune cominciano a sparire, nel senso che non sono più visibili nel mercato del lavoro regolare. E, attenzione, escono e non rientrano più.
Ripeto, dopo 15 anni, spariscono 19 giovani su 100. E il 1987 è stato un anno di espansione produttiva e occupazionale.
Infatti, per coloro che entrano nel ‘92, che è invece un anno recessivo, le cose vanno pure peggio. Questa è una faccenda molto preoccupante perché bisogna chiedersi: dove vanno a finire questi giovani?
Anche perché tra gli scomparsi non vengono conteggiati coloro che escono per un periodo di disoccupazione e poi rientrano (e ce ne sono tantissimi). Qui parliamo proprio di chi esce e non rientra più, di chi sparisce da qualsiasi parte, perché se anche diventassero lavoratori autonomi o entrassero nelle professioni continueremmo a "vederli”, per così dire.
Va poi notato che chi esce dal mercato del lavoro lo fa prevalentemente nei primi due anni. In seguito continuano a sparire, ma in modo più fisiologico, diciamo.
Se poi guardiamo la differenza tra Nord e Sud, vediamo che dopo 15 anni al Nord siamo all’86% e al Sud al 74% di "sopravvissuti”. Già questo è un indicatore forte del fatto che c’è più gente che entra nel sommerso al Sud di quanto non succeda al Nord.
Se infine valutiamo i gruppi di età, vediamo che chi entra tardi esce di più. Il gruppo 19-22 anni resiste meglio di quello dei 25-30 anni (l’84% contro il 77%). Mi si potrebbe obiettare che tra chi accede al mercato nell’arco tra i 25 e i 30 anni, ci sono anche quelli che vanno nelle professioni o si mettono in proprio, ma le professioni sono incluse in questi dati.
Anche tra manifattura e servizi c’è pochissima differenza. C’è invece differenza tra chi entra come impiegato e chi entra come operaio.
Purtroppo non siamo in possesso di dati relativi all’istruzione, alle skills, alle competenze ed è un peccato. Purtuttavia il solo fatto che gli impiegati, che hanno sicuramente una scolarità maggiore, vadano meglio degli operai, già ci dice qualcosa.
Un altro fattore rilevante nella "sopravvivenza” dei giovani nel mercato del lavoro è la durata del primo impiego. Le persone che come prima posizione hanno avuto un impiego che è durato meno di tre mesi sono quelli più a rischio. Per chi invece parte con un impiego di almeno 12 mesi, dopo dieci anni siamo intorno al’85% di sopravvivenza.
Anche se non conosciamo le caratteristiche personali di questi lavoratori, possiamo ipotizzare che siano persone che sono entrate in modo regolare, ma con un contratto breve, dopodiché non è detto che siano uscite subito dopo i tre mesi e però nel lungo periodo risultano quelli più a rischio.
Anche quelli che hanno salari d’ingresso particolarmente bassi sono altresì molto a rischio. È molto probabile che queste persone siano poi quelle che entrano nel sommerso.
Nel sommerso peraltro possono entrare anche i giovani che qui non vediamo, e cioè quelli che non hanno mai cominciato un lavoro regolare.
Purtroppo è difficilissimo avere dei dati sul lavoro irregolare. Nell’indagine trimestrale sulle forze del lavoro, l’Istat chiede: "Hai lavorato la settimana scorsa?” e chi risponde affermativamente può lavorare regolarmente, ma può anche aver lavorato al nero.
Nella contabilità nazionale il lavoro nero è una stima. Meglio di così credo che l’Istat non possa fare. Perché è una questione estremamente complessa.
Su questo problema di come l’Istat classifica i disoccupati, i disoccupati di lungo periodo, e il lavoro irregolare, è stata fatta una ricerca molto seria "Ineligibles and eligible non-participants as a double comparison group in regression-discontinuity designs”, di Battistin e Rettore, pubblicata sul Journal of Econometrics.
Il succo è che dall’indagine sulle forze lavoro è molto difficile capire chi lavora regolarmente, chi è fuori dalle forze del lavoro, chi è un disoccupato di lungo periodo e chi è in nero. È difficilissimo.
Quello che è certo è che i tempi "fuori dal lavoro ufficiale” sono estremamente pesanti.
Nel 2002 noi avevamo stimato i disoccupati in circa 1.147.000 unità (l’Istat parlava di 1.092.000, quindi eravamo abbastanza vicini). Tra questi, come dicevamo, ci sono sicuramente molte persone che lavorano in nero. Ad ogni modo la durata media della disoccupazione per questi soggetti era di quattro anni.
Scomponendo il dato per classi d’età, si rilevava che, sempre nel 2002, il gruppo 45-54 anni comprendeva circa 104.000 persone con una media di sette anni e mezzo fuori dal mercato. E, attenzione, sette anni e mezzo di media vuol dire che ce ne sono alcuni che avevano quindici anni "fuori” e altri che ne avevano uno. Tra i ventottenni e i trentatreenni, i tempi medi di disoccupazione erano quattro anni e mezzo (e anche qui vuol dire che un po’ ne aveva sette-otto e un po’ ne aveva solo uno). Se si prende la classe di 22-28 anni, noi calcoliamo che avessero un anno e mezzo di tempo medio di disoccupazione; infine se si va a prendere la fascia 19-21 anni erano sei mesi in media.
Sono dati poco rassicuranti.
Queste tra l’altro sono tutte persone che almeno hanno cominciato a lavorare. Le persone che non hanno neanche cominciato in questo calcolo non ci sono.
L’Istat, quello stesso anno, considerava in 290.000 le persone in cerca di prima occupazione. Queste verosimilmente aspettano mediamente tre anni e mezzo prima di entrare nel mercato del lavoro.
Prima ho fatto cenno al lavoro irregolare perché una delle ipotesi è che la maggior parte delle persone che spariscono vadano a finire nel nero. Aneddotica: a Napoli i tassi di disoccupazione giovanile sono il 40-45% ed è noto che in Campania il nero è elevatissimo, quindi è chiaro che queste persone stanno lavorando -male, malissimo, ma stanno lavorando. Però si dichiarano disoccupati. In Francia è verosimile che anche nelle banlieues parigine ci sia un fenomeno analogo.
Lei prima ha elencato alcuni fattori che dovrebbero incentivare un’occupazione giovanile più massiccia. Ma perché allora i giovani faticano tanto a trovare lavoro? È un problema di formazione?
Ha visto i dati di AlmaLaurea? Sono paurosi. Lì è spiegato chiarissimamente qual è la condizione occupazionale (ma anche i tempi di ingresso nel mercato del lavoro, la retribuzione, ecc.) in base al corso di laurea. Cioè quanti (e quali) laureati italiani lavorano dopo uno, tre, cinque anni. Allora lì si vede che il 50% di chi si laurea in Lettere o in Scienze umane di vario tipo dopo quattro anni è ancora a spasso. Chi si laurea in Ingegneria o anche in Economia e Commercio entra abbastanza velocemente.
La gente continua ad iscriversi a facoltà -forse perché sono più facili o forse perché c’è questo appeal- come appunto quelle umanistiche, i cui laureati già sappiamo essere destinati a imbattersi in tempi di attesa lunghissimi. Questo per la verità vale anche per Giurisprudenza: molti di questi laureati quando escono vanno negli studi a fare l’apprendista a zero paga per due, tre, anche quattro anni. Oltre al fatto che è una professione che si sta proletarizzando.
Cosa devo dire? Finché continua a esserci questa deformazione per cui si vanno a fare certe facoltà che si sa a priori che non portano da nessuna parte...
Quindi è un problema di mismatch?
C’è proprio un mismatch totale, una radicale discrepanza tra domanda e offerta, perché alcune facoltà piazzano la gente, magari non esattamente dove vorrebbero, però... D’altra parte, questo è un problema generale: anche le banche quando assumono fanno dei corsi di formazione. Nell’ultima indagine Excelsior quando si chiede ai datori di lavoro: "Le persone che assumete sono quelle di cui avete bisogno?”, la risposta in genere è "No”, salvo che sulle mansioni più basse o in quelle molto specialistiche.
Quindi c’è un problema di formazione sicuramente.
Ma alle aziende conviene davvero avere lavoratori poco formati e che cambiano continuamente?
Questo turnover così elevato nell’occupazione giovanile è senz’altro dovuto anche al fatto che evidentemente alle imprese in qualche modo conviene.
Allora, fintanto che le imprese continuano a non avere alcun interesse a investire in training, e i lavoratori, dal canto loro, hanno ugualmente poco interesse a formarsi perché tutto sommato costa parecchio investire in un training specifico che venga valorizzato dalle imprese (soprattutto perché le imprese non lo valorizzano affatto), la situazione è questa.
Forse uno dei problemi dell’economia italiana è proprio questo: i tassi di crescita del Pil sono i più bassi tra tutti i paesi europei, eppure i tassi di disoccupazione italiani non sono più alti che in altri paesi, anzi sono un po’ più bassi. Come si spiega? Per me si spiega con il fatto che questa è un’occupazione di bassissimo livello. E qui dentro l’istituzione c’entra enormemente. Se si guardano le graduatorie sugli anni di istruzione delle persone al lavoro, beh, l’Italia è in fondo alla lista.
A me sembra allora che questo utilizzo patologico della forza lavoro giovanile dipenda certamente in parte dal mismatch, ma questo non spiega tutto. Temo le ragioni siano più profonde. Anche perché il mismatch non è una tipicità italiana. Certo, l’ideale sarebbe che se si presentassero sul mercato del lavoro delle persone perfettamente formate, ma questo non esiste da nessuna parte. Forse esisteva in Germania quando c’era il sistema duale con un apprendistato che era parte integrante del ciclo scolastico; a quel punto i giovani entravano alla Siemens o alla Volkswagen e sapevano già fare, ma perché avevano fatto lì l’ultima fase del proprio percorso formativo.
Insomma, il problema del training c’è un po’ dappertutto, in alcuni posti più che in altri. La maggior parte delle espulsioni veloci cui facevo riferimento prima, ad esempio, sono sicuramente riferite a persone che non sono laureate, che avranno finito la scuola dell’obbligo, ma che non hanno alcuna particolare professionalità. Ma, ripeto, solo nel sistema duale tedesco o austriaco questa professionalità veniva fornita.
Insomma, il problema della scarsa professionalità delle persone che escono dalla scuola media secondaria non è specifico del nostro paese. Sull’Università è un altro discorso: come dicevo c’è tanta gente che si laurea in materie che non hanno mercato. D’altra parte, i miei colleghi universitari dicono che non si può rinunciare al latino, alla cultura, che le scelte non possono essere dettate solo dal mercato...
La preferenza delle imprese per contratti precari quindi ci dice qualcosa anche sul nostro mercato del lavoro...
Certo! Alle imprese conviene perché il nostro mercato è fondato sul basso costo del lavoro, e quindi sulla possibilità di ruotare perché tanto a questi giovani non gli si insegna niente, e allora anche un anno di esperienza conta relativamente poco. Ora non voglio dire che l’esperienza non conti niente.
Nel caso dei contratti di formazione lavoro cui abbiamo fatto prima riferimento, la metà venivano trasformati in posti di lavoro permanente, quindi vuol dire che a qualcosa servivano. La metà non è un granché, però non è neanche così poco.
Il problema è che oggi le imprese non investono o investono pochissimo. È da vent’anni che in Italia gli investimenti produttivi sono ridotti a un livello modestissimo. E si vede.
La combinazione di tutti questi fattori, forza lavoro con grande turnover, mismatch iniziale, ma soprattutto scarsa propensione delle imprese a investire, non solo in infrastrutture, ma anche in training, in ricerca e sviluppo, è micidiale.
Fino al 2000, nel nostro paese, la crescita del Pil è stata sempre un po’ più alta della crescita dell’occupazione. Poi la tendenza si è invertita: dal 2000 al 2008 l’occupazione è cresciuta, ma la produttività è diminuita. Ma un’occupazione che aumenta a fronte di un declino di produttività è evidentemente di pessima qualità.
D’altra parte, lo sappiamo, l’Italia è il paese che ha investito di meno e che è cresciuto di meno. Non è allora un caso che sia anche tra quelli che fanno maggior ricorso a questo uso perverso di una forza lavoro di scarsa qualità, mal pagata e con altissimi tassi di turnover.
La stessa Spagna, che nel ‘96 aveva introdotto un contratto temporaneo per tutti, non solo per i giovani, nel 2001 se l’è rimangiato. Evidentemente hanno presto capito che certe formule si prestavano troppo a un abuso e soprattutto che nell’incentivare la flessibilità di fatto si disincentivavano le imprese a investire in know how.
Oggi da un lato si aumenta l’età pensionabile, dall’altra si sente ripetere che i lavoratori anziani impediscono ai giovani di entrare nel mercato del lavoro.
Ho detto dell’invecchiamento della forza lavoro, ma anche qui la questione è articolata, perché in realtà le imprese non esitano a buttar fuori i lavoratori anziani. Il fatto è che poi non li rimpiazzano o li rimpiazzano troppo poco. In Fiat quando ci sono stati grandi prepensionamenti, non è che non abbiano fatto assunzioni, però a fronte di quaranta ne hanno presi venti, per dire.
Se si va a parlare con le imprese, con i capi del personale, e si chiede loro: "Perché cercate sempre di buttar fuori gli anziani?”, la prima cosa che dicono è: "Perché costano troppo”.
E d’altra parte è vero che costano molto. In Italia, salvo alcune categorie, come ad esempio gli operai metalmeccanici, la progressione retributiva tende solo a crescere; cioè i dati generali parlano di una progressione quasi continua, anche se lenta, nelle retribuzioni.
Ecco, nella maggior parte dei paesi non è così; nella maggior parte dei paesi si va su e poi si comincia a calare perché gli anziani restano sì al lavoro, ma vengono messi su altre mansioni; gli si taglia l’orario: per quale ragione devono lavorare otto ore al giorno? Possono farne cinque: gli anziani sono contenti perché continuano a sentirsi produttivi e, anche se guadagnano di meno, gli va bene, perché c’è un sistema di welfare che comunque li protegge.
Da noi la faccenda è più complessa perché è vero che gli anziani costano di più e quindi c’è un incentivo a prendere dei giovani, ma poi questi giovani vengono presi con questa modalità perversa all’insegna dell’usa e getta...
Insomma la questione dell’età pensionabile è un problema serio, su cui bisognerebbe riflettere approfonditamente ed essere molto meno dogmatici. Perché è vero che ci sono i lavori usuranti, ma c’è anche una grandissima quantità di lavori in cui non c’è motivo per cui la gente non possa continuare a lavorare fino a 65-67 anni.
Si è puntato sul fatto che i vecchi facevano da tappo, dopodiché i giovani sono entrati comunque poco e male.
Dal quadro che ha delineato le "carriere” lavorative dei giovani sono disastrose. Cosa succederà sul piano previdenziale?
Sul piano previdenziale è la catastrofe sicura. Una persona che entra nel mercato del lavoro e che dopo 7-8 anni riesce ad avere una posizione a tempo pieno e a tempo indeterminato arriva alla fine con una pensione che sarà il 40% del suo stipendio. Che poi qui stiamo parlando di chi, anche se con difficoltà, alla fine è entrato e ci è rimasto. E gli altri?