Ecco perché Israele non attaccherà l’Iran

Uri Avnery, "il manifesto", 25 agosto 2012

 

I dirigenti del governo israeliano minacciano attacchi all’Iran. Ma non sono pazzi: sanno che le conseguenze economiche e politiche sarebbero insostenibili per il paese. Le sfuriate sul conflitto inevitabile e il quotidiano lavaggio del cervello La minaccia di un «secondo olocausto» è un’invenzione. E gli israeliani sono contrari all’attacco

Forse Binyamin Netanyahu è matto, ma non è pazzo. Forse Ehud Barak è pazzo, ma non è matto. Ergo: Israele non attaccherà l’Iran. L’ho già sostenuto tempo fa ma voglio tornarci su, dopo le infinite discussioni a riguardo.
Certo di nessuna guerra si è mai parlato tanto prima che scoppiasse. Ma, per citare la battuta di un vecchio film: «Se devi sparare, spara. Non parlare!».
Tra tutte le sfuriate di Netanyahu sul conflitto inevitabile, spicca una frase: «Nella commissione d’inchiesta dopo la guerra, io stesso mi assumerò tutta la responsabilità, io soltanto!».
Una dichiarazione davvero rivelatrice. Anzitutto le commissioni d’inchiesta vengono istituite soltanto dopo un flop militare. Non c’è stata nessuna commissione simile dopo la Guerra d’indipendenza del 1948, né dopo quella del Sinai nel 1956, né dopo la Guerra dei sei giorni del 1967. Commissioni d’inchiesta vennero create invece dopo la Guerra dello Yom Kippur del 1974 e dopo quelle del Libano, nel 1982 e nel 2006. Facendo balenare lo spettro di un’altra commissione del genere, Netanyahu inconsciamente tratta questa guerra come un fallimento inevitabile.
Inoltre, in base alla legge israeliana è l’intero governo d’Israele a essere il comandante in capo delle forze armate e tutti i ministri hanno una «responsabilità collettiva». La rivista Time, che ogni settimana sta diventando più ridicola, può anche incoronare «Re Bibi», ma qui non abbiamo ancora la monarchia. Netanyahu è né più né meno che un primus inter pares.
Infine, nella sua dichiarazione Netanyahu manifesta un disprezzo sconfinato per i suoi colleghi ministri: loro semplicemente non contano nulla.Netanyahu si considera un Winston Churchill dei tempi moderni. Ma non mi sembra di ricordare Churchill che annunciava, accettando l’incarico, «mi assumo la responsabilità della prossima sconfitta». Anche nella situazione disperata di quei giorni, credeva nella vittoria. E la parola «io» era poco presente nel suo discorso.
Nel quotidiano lavaggio del cervello, dell’eventuale conflitto vengono presentati esclusivamente gli aspetti militari. Il dibattito verte sul potenziale bellico e sui pericoli per la popolazione civile.
Gli israeliani sono in particolare, e comprensibilmente, preoccupati per la pioggia di decine di migliaia di missili che potrebbero cadere su ogni parte d’Israele, non solo dall’Iran ma anche dal Libano e da Gaza. Il ministro responsabile della difesa dei civili ha disertato proprio questa settimana e un altro, un profugo del partito Kadima, ha preso il suo posto. Tutti sanno che un’ampia parte della popolazione – me incluso – è del tutto indifesa.Ehud Barak ha annunciato che non più di 500 israeliani – una quantità miserabile! – verrebbero uccisi dai missili nemici. Non voglio avere l’onore di essere tra loro, sebbene abiti molto vicino al ministero della difesa…
In realtà lo scontro militare tra Israele e l’Iran rappresenta solo una parte del quadro, e non la più rilevante.
Come ho sottolineato in passato, molto più serio sarebbe l’ impatto di un attacco israeliano all’Iran sull’economia mondiale, già in una crisi profonda. Un attacco israeliano sarebbe percepito dall’Iran come ispirato dagli Stati Uniti e gli iraniani reagirebbero di conseguenza, come dichiarato questa settimana dal loro governo.
Il Golfo Persico è una bottiglia il cui collo è lo Stretto di Hormuz, controllato completamente dall’Iran. Le grandi portaerei americane che ora navigano nel Golfo verrebbero allontanate prima che per loro sia troppo tardi. Somigliano a quegli antichi velieri che i collezionisti assemblano pazientemente nelle bottiglie. Anche le potenti armi statunitensi non sarebbero in grado di mantenere aperto lo Stretto. Dei semplici missili terra-mare basterebbero a tenerlo chiuso per mesi. Per riaprirlo sarebbe necessaria una prolungata operazione di terra da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati. Un’avventura lunga e sanguinosa, dalle conseguenze imprevedibili.
La maggior parte delle forniture di petrolio deve passare attraverso quest’unica autostrada marina. Anche la semplice minaccia della sua chiusura farebbe schizzare alle stelle il prezzo del petrolio. La guerra causerebbe un collasso dell’economia mondiale, e centinaia di migliaia, se non milioni, di nuovi disoccupati. E ognuno di loro maledirebbe Israele.
Poiché sarebbe chiarissimo che si tratterebbe di una guerra israeliana, la rabbia sarebbe rivolta contro di noi. Peggio, molto peggio: poiché Israele insiste che è «lo Stato del popolo ebraico», la rabbia potrebbe prendere la forma di un’esplosione di antisemitismo senza precedenti. Gli islamofobi tanto di moda lascerebbero il posto ai vecchi nemici degli ebrei. «Gli ebrei rappresentano il nostro disastro» dicevano i nazisti.
La situazione potrebbe risultare peggiore negli Stati Uniti. Finora gli americani se ne sono stati a guardare con tolleranza ammirevole mentre la loro politica estera veniva praticamente dettata da Israele. Ma persino l’onnipotente Aipac e i suoi alleati non riuscirebbero a contenere l’esplosione di rabbia popolare. Crollerebbero come gli argini di New Orleans.
Tutto ciò avrà un forte impatto sui calcoli dei guerrafondai. In privato, e non solo, loro affermano che l’America alla vigilia delle elezioni avrà le mani legate. Nelle due settimane precedenti il 6 novembre, entrambi i candidati avranno una paura mortale della lobby ebraica. La previsione va avanti così: Netanyahu e Barak attaccheranno fregandosene degli americani. Il contrattacco iraniano sarà diretto contro gli interessi americani e gli Stati Uniti saranno trascinati in guerra contro la loro volontà. Ma anche nell’improbabile eventualità che gli iraniani agiscano con estrema cautela e – contrariamente a quanto dichiarato – non attacchino obiettivi americani, il presidente Obama sarà costretto a salvarci, a spedirci una gran quantità di armi e munizioni, a rafforzare le nostre difese anti-missile, a finanziare la guerra – così calcolano i nostri guerrafondai. Altrimenti sarà accusato di lasciare Israele allo sbando e Mitt Romney sarà eletto come il salvatore dello Stato ebraico.
Questo calcolo si basa sull’esperienza storica. In passato tutti i governi israeliani hanno sfruttato le elezioni negli Stati Uniti per i loro obiettivi.
Nel 1948, quando agli Stati Uniti fu chiesto di riconoscere lo Stato d’Israele contro il parere esplicito sia del segretario di Stato che di quello della difesa, il presidente Truman stava lottando per la sua sopravvivenza politica. La sua campagna elettorale era in bancarotta. All’ultimo momento un gruppo di milionari ebrei saltò sul carro e salvarono Truman e Israele.
Nel 1956 il presidente Eisenhower era nel mezzo della sua campagna per la rielezione quando Israele – in combutta con Francia e Gran Bretagna – attaccò l’Egitto. Si trattò di un calcolo sbagliato: Eisenhower non aveva bisogno dei voti e del denaro degli ebrei e pose fine a quell’avventura. In altre annate elettorali la posta in gioco fu più modesta, ma l’occasione venne sempre utilizzata per ottenere concessioni dagli Stati Uniti.
Funzionerà anche questa volta? Se Israele scatenasse una guerra alla vigilia delle elezioni nell’evidente tentativo di ricattare il presidente, l’opinione pubblica americana sosterrebbe Israele o gli si rivolterebbe contro? Sarebbe una scommessa di portata storica. Ma, proprio come Mitt Romney, Netanyahu è un protetto del magnate dei casino Sheldon Adelson e potrebbe rivelarsi pronto a scommettere, come i poveri scemi che sprecano i loro soldi nelle sale da gioco di Adelson.
E gli israeliani, dove sono in tutto questo? Malgrado il costante lavaggio del cervello, i sondaggi rivelano che la maggior parte degli israeliani è nettamente contraria a un attacco. Netanyahu e Barak sono visti come due dipendenti – in molti li considerano megalomani – che non ragionano in maniera razionale.
Uno degli aspetti più incredibili di questa situazione è che il nostro capo dell’esercito e l’intero comando generale, così come i capi del Mossad e dello Shin Bet, e quasi tutti i loro predecessori, si oppongono nettamente e pubblicamente all’attacco.
È una delle rare occasioni in cui i comandi militari sono più moderati dei loro capi politici, anche se in Israele un fatto simile si è già verificato. Ci si potrebbe chiedere come possono dei leader politici avviare un conflitto fatale quando praticamente tutti i loro consiglieri militari – che conoscono il nostro potenziale militare e possibilità di successo – sono contrari?
Una delle ragioni di questa contrarietà è che i capi dell’esercito sanno meglio di chiunque altro quanto Israele sia completamente dipendente dagli Stati Uniti. La nostra relazione con l’America rappresenta la base della nostra sicurezza nazionale.
Inoltre non è sicuro che Netanyahu e Barak avrebbero i numeri per attaccare nella maggioranza che li sostiene e tra i ministri. Questi ultimi sanno che, al di là di ogni altra considerazione, l’attacco allontanerebbe investitori e turisti, causando un danno immenso all’economia israeliana.
Allora perché la maggior parte degli israeliani crede ancora che l’attacco sia imminente?
Gli israeliani sono stati convinti che (a) l’Iran è governato da un branco di ayatollah pazzi e irrazionali e (b) che, se verranno in possesso della bomba atomica, ce la lanceranno certamente addosso. Convinzioni fondate sulle dichiarazioni di Mahmoud Ahmadi Nejad, che ha detto che spazzerà via Israele dalla faccia della terra.
Ma ha dichiarato davvero questo? Certo ha espresso ripetutamente la sua convinzione che l’entità sionista sparirà dalla faccia della terra. Ma pare che non abbia mai sostenuto che saranno lui, o l’Iran, ad assicurare questo risultato.
Potrebbe sembrare solo una piccola differenza retorica, ma in realtà in questo contesto è molto rilevante.
Ahmadinejad forse ha la bocca troppo larga, ma il suo potere in Iran non è mai stato smisurato, e si sta indebolendo rapidamente. Gli ayatollah, coloro che governano davvero, sono tutto fuorché irrazionali. A partire dalla rivoluzione, il loro comportamento ha dimostrato che si tratta di persone molto prudenti, contrarie ad avventure militari, spaventati dalla lunga guerra contro l’Iraq che non cominciarono loro né fu voluta da loro.
Un Iran con l’arma atomica può rappresentare un vicino scomodo, ma la minaccia di un «secondo olocausto» è un’invenzione dell’immaginario collettivo manipolato. Nessun ayatollah sgancerà una bomba, perché la risposta sarebbe sicuramente la cancellazione di tutte le città iraniane e la fine della gloriosa storia culturale della Persia. La bomba israeliana è stata prodotta proprio per assicurare questo effetto di deterrenza.
Se Netanyahu & Co. fossero davvero spaventati dalla bomba iraniana, farebbero una di queste due cose: provvederebbero alla denuclearizzazione della regione, eliminando i nostri armamenti atomici (ipotesi molto improbabile); o farebbero la pace coi palestinesi e con l’intero mondo arabo, disarmando in questo modo l’ostilità degli ayatollah verso Israele. Ma le azioni di Netanyahu dimostrano che, per lui, mantenere sotto occupazione la Cisgiordania è molto più importante della bomba iraniana.
Di quale altra prova abbiamo bisogno per capire quanto sia folle tutto questo allarme?