ARCHITETTURA ANTROMORFA
Cenni ad una lettura antropomorfa dell’architettura

di Michela Costantini

Antropomòrfo, gr, anthropomorphos, composto di anthropos (uomo) e morphé (forma, figura), recita il dizionario etimologico (1). In una parola, il termine antropomorfo indica tutto ciò che somiglia alle forme umane, dunque un modo per concepire e leggere il mondo sulla base del modello formale fornito dal corpo umano.

E l’architettura? Può anch’essa essere antropomorfa? I molti esempi di chiese concepite come corpi umani, di colonne dalle forme di fanciulla o di profili di ordini architettonici che imitano profili umani lo dimostrano ampiamente.

Da quando l’architettura intraprende il cammino di costituirsi come disciplina dotata di un proprio statuto teorico – operazione che prende l’avvio nel XV secolo ad opera di Leon Battista Alberti – cerca insistentemente modello e legittimazione in altro da sé: l’universo, la cosmologia, l’uomo, addirittura la musica le forniscono, di volta in volta, misure, proporzioni, modelli.

Del resto, fin dai tempi dell’antica Grecia l’Arte si interroga sui propri modelli, su che cosa debba e possa imitare della realtà circostante, cercando costantemente la formalizzazione di un canone il più possibile assoluto. La Natura le offre una pletora di riferimenti e dunque la mimesis della natura diviene il mezzo con cui l’arte si appropria dei modelli naturali per realizzare opere cne eguaglino verità e bellezza.

La stessa operazione è effettuata dall’architettura, che in periodo rinascimentale, nell’intento di formalizzare una propria teoria, cerca modelli per fondarsi ad un tempo come scienza e come arte, provenendo da una condizione – quella dell’arte del costruire medievale – che al più la annoverava tra le meccaniche applicate, quelle cioè tramandate per trasmissione diretta di competenze empiriche e saperi da maestranze.


Leonardo da Vinci, uomo vitruviano

Non che la riflessione teorica in architettura nei secoli del Medioevo fosse del tutto assente: ma la creazione di un vero e proprio corpus teorico per questa arte avviene solamente ad opera nelle menti del Rinascimento.

In questa operazione l’architettura rinascimentale cerca dunque modelli: la cosmologia, la religione, l’antico, l’uomo e la natura le offrono eccellenti esempi ed essa, puntualmente, vi si ispira e li ripropone trasferiti nella materialità delle sue produzioni – o quantomeno nei modelli teorici proposti dai trattati.

Quelli redatti tra il XV e il XVII secolo, infatti, offrono innumerevoli esempi di edifici – quand’anche non di città - che, con l’aiuto di reticoli geometrici e di proporzioni matematiche, ripropongono puntualmente altri modelli: quello umano certamente vi primeggia..


Scamozzi, studi di proporzioni

Chiese, corpi umani e rappresentazioni cosmologiche
In questo novero di produzioni l’architettura chiesastica risulta particolarmente interessante in quanto la chiesa da sempre è concepita come la rappresentazione concreta, materiale, della divinità e della cosmologia, con una gamma di temi che vanno dalla rappresentazione simbolica della croce di Cristo a quella della Trinità, passando per la riproposizione del Tempio di Salomone, massima e primigenia edificazione di un tempio dedicato al Creatore. Non è estraneo a questa gamma di modelli l’uomo, creatura divina e, dunque, pienamente degno di assurgere ad esempio per la composizione della pianta della chiesa.


Cataneo, pianta di chiesa antropometrica

La trattatistica rinascimentale di architettura offe un repertorio di interpretazioni antropomorfiche di chiese che testimoniano una corrente di pensiero fortemente radicata negli ambienti eruditi e tutt’altro che episodica; in più, altri documenti non specificamente di natura architettonica sono la prova evidente di come la concezione della chiesa come calco delle membra e delle proporzioni umane – e per questo tramite, di quelle divine – rappresentasse un topos ricorrente nella cultura religiosa.

Nei documenti di questa natura non sono estranee posizioni in linea con le correnti neopitagoriche e neoplatoniche, filosofie che avevano attribuivano al numero - elemento dal forte simbolismo – la valenza di polo unificatore di tradizioni diverse, non ultima quella cabalistica di tradizione ebraica.

Tra questi documenti non architettonici, uno degli esempi più illuminanti è il Memorandum per San Francesco della Vigna del frate francescano Francesco Giorgi, scritto nel 1535 con l’intento di verificare nel progetto della chiesa veneziana l’aderenza ai modelli numerici e antropomorfici e sottoscritto da tre famose personalità del tempo, l’intellettuale Fortunio Spira, il pittore Tiziano Vecellio e l’architetto Sebastiano Serlio.

Giorgi, nel redigere il documento sulla chiesa, aderisce all’idea che l’opera dell’uomo debba uniformarsi alle stesse proporzioni che governano l’armonia dell’Universo e che sono state volute da Dio. Il punto focale del documento sta nel fatto che Giorgi attesta la puntuale rispondenza delle misure della chiesa ai numeri delle consonanze musicali che rappresentano il Cosmo e il Creato ma in più, cosa che qui preme mettere in luce, l’autore descrive puntualmente la chiesa nei termini di un corpo umano.

Nella descrizione antropomorfica di Giorgi (analogamente a molti dei trattati di architettura dell’epoca, come quelli di Alberti, Francesco di Giorgio Martin e Leonardo) la chiesa ha infatti un corpo perfetto e compitto, corrispondente alla navata, e un capo aggionto sopra il corpo, corrispondente alla cappella grande: le misure della chiesa, poi, sono aderenti ad un proporzionamento ben definito che vede nella chiesa l’esplicitazione e insieme la rappresentazione visuale di un canone, insieme umano e divino.

Infatti, a fine documento Giorgi ammonisce che chi volesse trascendere tali misure e tali proporzioni «farebbe un mostro, spezzate e violate le leggi naturali» (1). Uomo, natura, proporzioni si intrecciano in queste letture, insieme concettuali e visive, in grado di veicolare, con mezzi forse accessibili alle amasse popolari prive di alfabetizzazione, contenuti religiosi emistici.


Francesco di Giorgio Martini, facciata di chiesa


Juan Baptista Villalpando, figura vitruviana che indica le giuste proporzioni dei peristili

Ordini architettonici dal ‘volto umano’
Gli ordini architettonici (tuscanico, dorico, ionico, corinzio e composito) rappresentano il materiale primario dell’architettura greca e romana, quello in base al quale nella storia dell’architettura occidentale - dal Rinascimento e fino a tutto l’Ottocento - si realizza l’intera composizione dell’edificio. Non c’è trattatista di architettura che da Vitruvio (il testo latino fondante di tutta la storia dell’architettura europea) in poi non si occupi di ordini architettonici, non ne svisceri le possibilità e le soluzioni formali, non ne riveda l’impianto teorico alla ricerca di nuove possibilità.

Nella Regola delli cinque ordini di architettura del Vignola, testo fondante del linguaggio architettonico che sistematizza la teoria degli ordini secondo una forma organica e definitiva, divenendo il testo più diffuso in Europa nei due secoli successivi, leggiamo:

per Ordine d’Architettura s’intende un composto di colonna, cornicione e piedestallo, con tutti gli altri suoi ornamenti. Ordine significa disposizione regolare e perfetta di parti concorrenti tutte le composizioni di un bell’insieme: l’ordine dunque è opposto alla confusione (2).

Se l’ordine architettonico in Vignola rimanda dunque ad una composizione ragionata, ordinata, la definizione del pittore Filippo Baldinucci nel 1681 esplicita l’aspetto antropomorfico:

L’ordine architettonico è un concerto o componimento di varie parti proporzionate fra di loro; le quali annesse, a guisa di membra, formano un corpo intero, in cui si vede leggiadria e bellezza atta a soddisfare l’occhio (3).


Vignola, tavola sinottica dei cinque ordini


Francesco di Giorgio Martini, interpretazioni antropomorfe di capitelli e di colonne

Nel Novecento, John Summerson, con la chiarezza di linguaggio che lo contraddistingue, definisce gli ordini «i cinque elementi fondamentali della grammatica dell’antichità» (4) e, peraltro, ne ravvisa la sopravvivenza anche nell’architettura moderna.

Un dato comune a molte definizioni è quello di considerare gli ordini un sistema piuttosto semplice ma fortemente organico e strutturato (una sorta di corpo) di elementi architettonici, un sistema caratterizzato da un consistente contenuto geometrico-matematico in senso proporzionale, ma nel contempo rivestito anche di una ancor più forte valenza estetica.

Dal Rinascimento e in particolare nella seconda metà del Quattrocento, quando si passa da un generico utilizzo dei modelli greci e romani denominati ‘all’antica’ ad una vera e propria sistematizzazione di quei modelli architettonici (5), inizia dunque a ricostruirsi un percorso di riflessione teorica sugli ordini architettonici, si inizia cioè a poter parlare di una vera e propria teoria degli ordini.

Tuscanico, dorico, ionico, corinzio e composito costituiscono ormai le declinazioni irrinunciabili della composizione architettonica, in accordo con stili e forme che procedono dal semplice al complesso, dal rustico al raffinato, secondo consuetudini comuni ed attribuzioni di senso: i trattati architettonici sono intrisi di personali se non anche fantasiose interpretazioni sulle origini degli ordini, ma anche di suggestive interpretazioni antropomorfe, alla ricerca evidentemente di una sorta di modello primo che possa servire a tutta la civiltà architettonica occidentale e di legittimazioni degli ordini in relazione all’uomo. E non mancano altresì tentativi di individuazione di ordini ‘altri’, dal salomonico al cinese.


Chambers, Design of chinese buildings

Fin dalla loro formalizzazione gli ordini di architettura sono sovente interpretati in analogia con il corpo umano, rendendo evidente che una dei principali modelli per gli ordini sia proprio quello umano. Ecco dunque comparire nei trattati dei teorici capitelli che imitano le fattezze di teste e volti, proporzioni di colonne che via via si ispirano alle forme massicce e possenti dell’uomo virile o a quelle delicate ed eteree delle fanciulle, riproducendo in trabeazioni e rapporti proporzionali delle colonne le stesse proporzioni dell’uomo, e, nondimeno, le sue varianti.

Va da sé che ciascun ordine è tendenzialmente impiegato in edifici che rispecchiano la medesima vocazione estetica: il massiccio dorico trova posto in solidi edifici civili, l’elegante corinzio in edifici più leggiadri e dal carattere meno austero.


Adam, allegoria dell’ordine dorico e di quello corinzio


De Sagredo, architrave antropometrico

La fascinazione antropomorfica perdura anche nei secoli successivi: alla ricerca costante di un canone (bisogno che accompagna costantemente la storia dell’arte) anche l’architettura del XVII e del XVIII appare non insensibile al tentativo di analogia architettura/uomo: Blondel in pieno Settecento ripropone nel suo Cours d’architetcture una lettura antropomorfica, svelando che non tutto è ancora esaurito nella ricerca di una corrispondenza tra l’uomo come creatore e l’uomo come modello.


J.F. Blondel, sovrapposizione di profilo umano ad una trabeazione

Blondel, tuttavia, declina questo tentativo non più nell’antico senso prettamente numerico-proporzionale, ma in una visione estetica nuova, quella che si rifà allo studio dei ‘caratteri’, categorie estetiche che connotano pienamente il secolo dei Lumi. L’analogia della trabeazione con il profilo maschile assume dunque una nuova valenza:

Il linguaggio espressivo fondato sul ‘carattere’ degli edifici ne determina anche il valore artistico; il sistema degli elementi architettonici deve essere […] una sorta di ‘poesia muta’ (7).



Note

(1) Il Memorandum per San Francesco della Vigna è pubblicato per la prima volta dal Moschini, nella sua Guida del 1851 (vol. I, pp. 55-61). È riportato da L. Magagnato in Cataneo – Vignola. Trattati, a cura di M. Walcher Casotti, Milano, Il Polifilo, 1985, pp. 11-17.

(2) O. Pianigiani (a cura di), Vocabolario etimologico della lingua italiana, Roma-Milano, Società Editrice Dante Alighieri, 1907

(3) J. Barozzi da Vignola, Regola delli cinque ordini di architettura, nella edizione del 1828, Roma, Editrice Dedalo, 2007, p. 18.

(4) In Grassi, Pepe (a cura di), Dizionario di Arte, Milano, DeAgostini, 1995.

(5) J. Summerson, Il linguaggio classico dell’architettura, Torino, Einaudi, p. 26.

(6) Lo osserva Bruschi in L’Antico e il processo di identificazione degli ordini nella seconda metà del Quattrocento, in «L’emploi des ordres dans l’architecture de la Reinassance», Actes du Colloque tenù a Tours, 9-14 giugno 1986 Paris, Picard, 1992.

(7) V. Biermann (et alii), Teoria dell’architettura. 117 trattati dal Rinascimento ad oggi, Köln, Taschen, 2003, p. 298.



(30 Aprile 2012)
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